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Il corpo al centro dell'identità umanaTornate all'indice degli articoli
Tornate alla sala saggisticaAssistiamo, in questa nostra epoca, attraverso i media, a morti violente, civili e di guerra, a sofferenze inferte con gratuità quotidiana, come ad uno spettacolo astratto che si svolge nella nostra mente, che assume forme virtuali, perché privo di suoni, odori, percezioni reali.
Penso che sia questa l'origine della nostra indifferenza, se non addirittura della nostra neutralità consapevole.
Il corpo non partecipa della realtà. I sensi sono esautorati da uno scenario che è percepito come estraneo. Ne consegue che le emozioni e i sentimenti sono sopiti. La mente non elabora impulsi e pensieri veri di condivisione con le vittime, non vengono prodotti pensieri passibili di azioni reali e concrete di aiuto.
Il virtuale ci sta privando della padronanza del nostro essere qui e ora. D'altro canto, virtuale sta ad indicare qualcosa che ancora non è.
Per questo ritengo che un discorso sul corpo e sul suo significato nella nostra intermediazione col mondo, vada riproposto con forza.
Per questo trovo pericoloso praticare, di questi tempi, riduzionismi scientifici, o affidarsi a mediazioni istituzionali, per valutare esperienze, che solo se vissute da soggetti viventi, dotati (come si diceva una volta) di corpo ed anima, acquistano senso.Il dibattito, su temi fondamentali della vita privata degli individui, (dalla fecondazione in vitro, alla eutanasia, ma anche fino ai PACS) è falsato da una virtualità che dovrebbe fare spavento e che dovrebbe invitare la gente a chiamarsi fuori da esso. La vera esperienza di vita, legata a questi temi, viene invece accantonata, per un più semplice, comodo approccio di astrazione e delega a dogmi o leggi che del reale non rispecchiano nulla, poco risolvono, e non acquietano gli animi.
La ricerca stessa ci ha insegnato che l'identità si forma essenzialmente attraverso la relazione che la nostra progenie stabilisce col mondo dai primissimi attimi di vita, fatta di ambiente appunto e di persone, con cui si deve interagire. Non a caso si usa per chi nasce l'espressione "venire al mondo". La nascita è un evento preciso che determina appunto l'inizio della relazione di un corpo e di una mente col mondo. I sensi cominciano a funzionare, il cervello a registrare e a rispondere, con tutta quella complessità di interazioni che rendono difficile la distinzione tra quanto viene dall'io e quanto dal mondo. La persona si forma e, con lei, il senso del bene e del male, della gioia e del dolore, del bello e del brutto. Ma, se il nostro corpo non è più interrogato attraverso i nostri sensi, anche queste altre cose, che chiamiamo etica, estetica, e così via, non saranno più per noi.
Lo dimostra la violenza senza senso che travolge giovani e giovanissimi, che non scaturisce solo da emarginazione sociale, ma anche da assenza di concetti relativi al dolore, alla sofferenza fisica, alla difficoltà di vedere, di udire, di toccare, di sentire gli odori, i suoni, le forme del dolore reale.
Lo dimostra il disprezzo per un corpo che viene rifiutato o alterato, per cui si instaurano rapporti anomali col mondo (si pensi alle difficoltà create dall'anoressia, dalla bulimia, ma anche da tante altre pratiche corporali che mirano ad alterazioni definitive).
Il corpo è oggetto estraneo e non veicolo della nostra partecipazione della vita, dei suoi odori, rumori, della sua fisicità e di quella degli altri.
Un'altra intermediazione è venuta a mancare, a spiazzare il corpo definitivamente ed è quella del confronto dell'io con l'altro, il tu, in cui il corpo si manifesta con altrettanta prepotenza che la mente. Scrive Adriana Cavarero:" è il tu che viene prima del noi, prima del voi, prima del loro. Sintomaticamente, nelle vicende moderne e contemporanee dell'etica e della politica, il tu è invece un termine spaesante. [...] Il noi è sempre positivo, il voi un possibile alleato, il loro ha la faccia dell'antagonista, l'io è sconveniente ed il tu, appunto, superfluo".Di questi tempi i soggetti sono sempre plurali: più facile essere noi e voi, somma di corpi col minimo comune denominatore della forza fisica (della sopraffazione, aggiungerei) e del pensiero generale astratto, col minimo comune denominatore della banalità. Si pensi a come suonerebbe il famoso criterio dell'assioma di Catalano: meglio essere belli che brutti, o sani piuttosto che malati, applicato all'etica. Ci farebbe capire come molte posizioni, sostenute come riferimenti etici imprescindibili, siano appunto generiche e pertanto inconsistenti rispetto ai problemi reali.
Non sono pochi i filosofi che hanno individuato proprio nella formazione di questo io attraverso la relazione, la nascita della responsabilità individuale, verso se stessi prima di tutto, ma dunque, inevitabilmente, anche verso l'altro. Uberto Scarpelli parlava della sim-patia partecipante, richiamando il termine alla sua accezione originaria, come strumento fondamentale della fondazione della responsabilità morale.Risulta in questo senso incomprensibile l'attuale atteggiamento della chiesa cattolica, che sembra voler ignorare a tutti i costi i corpi reali viventi, immersi nella loro esistenza fatta di un mondo concreto e relazionale dato. La chiesa insiste ad affermare che quello che conta è la vita umana in sé, ma quando si va ad esplorare il significato di questa espressione si scopre che essa è riferita, all'unione del DNA di due cellule, per la precisione gameti.
Il ribadire questo concetto è pericolosissimo, perché invece di allargare l'orizzonte delle responsabilità che possono essere effettivamente esercitate, lo concentra su una realtà che ancora non è, che appunto è virtuale. Il prevalere di un'essenza astratta su tutto quello che è presente e concreto in una vita reale data, sposta l'accento su una responsabilità di principio, che non implica coinvolgimento attivo e partecipante degli individui, ma semplice adesione condivisa dalla moltitudine. Nessuno si sente chiamato singolarmente in causa, ma ci si schiera tra i noi e i voi.
L'astrazione gioca il suo ruolo anche nelle posizioni sull'eutanasia, e su altri delicati temi. A proposito del trapianto di organi, è capitato di sentire dire alla televisione che per fortuna si erano trovati gli organi per il trapianto, senza considerare che la fortuna del trapiantato e della sua famiglia corrispondeva ad una tragedia altrui. Questa non vuole essere una critica ai trapianti di organi, ma solo un esempio di come l'astrazione operi poi nel senso comune.
Credo che riabilitare l'individuo nella sua essenza di corpo dato sia una buona strada per riflettere sul bene e sul male, sulle responsabilità individuali, sulla importanza della relazione tra singoli, intesa come sim-patia partecipante.
I testi degli autori citati nell'articolo.
- Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 192
- Uberto Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini&Castoldi, 1998, pp.258
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