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11. Bioetica Donne & Scienza:
La strada di Eluana

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Peppino Englaro ed Eluana ci hanno aperto una strada, con un prezzo altissimo di sofferenze, per la persecuzione e strumentalizzazione a cui sono stati sottoposti. Insieme con loro lo ha fatto anche l'equipe di medici che si è coraggiosamente adoperata perché questa battaglia per salvare il principio di autodeterminazione rispetto alla fine della vita, raggiungesse il suo obiettivo.
È nostro dovere percorrere questa strada adesso che Eluana non c'è più e che suo padre chiede e ha bisogno di silenzio e riposo. Tutti noi dobbiamo tenerla aperta e salvare quello che finora è stato fatto. Ma dobbiamo anche farla avanzare, perché i diritti della persona vengano salvaguardati e la democrazia non venga vistosamente violata. Il valore della pietas, della pratica di mettersi dalla parte dell'altro, del rispetto del dolore e della sofferenza, vanno riaffermati.

La condanna della sofferenza imposta per legge a chi è debole, dallo Stato e, per improprie invadenze, dalla Chiesa, deve essere pronunciata forte e chiara.

Possono essere utili alcune argomentazioni: riprendo, dunque, qui dei temi già trattati in precedenti testi: il corpo e la chiesa cattolica.
Aggiungerò alcune notazioni che confermano quanto detto, e cercherò di fissare alcuni punti importanti per il dibattito che si riaprirà a breve.
La prima notazione che vorrei fare riguarda l'atteggiamento verso la morte, nella società contemporanea: essa è rimossa, quando, di fatto, fa parte della stessa natura degli esseri viventi. Si pensa di affidare alla tecnica un prolungamento della vita, sul cui termine non ci si vuole pronunciare. A questo fine ci si rifiuta persino di riconoscere un contenuto tecnologico alle pratiche destinate alla sopravvivenza.
Il ruolo della tecnica nel creare un'immagine virtuale della vita non va sottovalutato: emozioni e sensazioni profonde vengono rimosse dall'intermediazione di figure, strumenti e pratiche, che risolvono il contatto diretto con la realtà in un'osservazione mediata e distante. La relazione con l'altro, da cui nasce il riconoscimento di valori condivisi e senso della responsabilità, viene progressivamente sterilizzata, dagli schermi che filtrano il rapporto.
Ne sono testimonianza le parole pronunciate in questi giorni, in cui si designava una donna di 39 anni col nome di "ragazza", le si ascriveva la possibilità di "procreare", quando l'immobilità di 17 anni, aveva ridotto il suo corpo a quello di un infermo gravissimo, necessitato di essere spostato ogni due ore, per evitare piaghe. Si arrivava ad immaginare che fra due anni si sarebbe potuta scoprire la cura adatta (?), a fare che cosa... a riportarla indietro di 17 anni? A ridarle le funzioni normali (per poi affidarla ad uno psicologo per il reinserimento nella vita del 2010)?
Questa è follia: il ragionamento più elementare viene scartato, (certamente per interessi di opportunità politica), ma anche perché il ricorso alla ragione non appare più necessario, in una società dove non siamo più soggetti partecipanti della realtà ma oggetti subalterni di consumi e procedure.
In questo contesto si producono fughe in territori del pensiero dove simboli, miti, credenze, fede si mescolano in un esplodere di reazioni incontrollate, fuori da ogni contesto. Non ci si interroga più sul significato delle proprie azioni nei confronti di una realtà data, perché questa resta invisibile alla ragione. Va fatta, però, a questo proposito, anche un'altra considerazione: vivere nella realtà virtuale è più semplice. L'individuo non si sente mai chiamato in causa direttamente e, se lo è, l'impegno che gli si chiede è di carattere astratto: più facile difendere gli embrioni e opporsi a coloro che chiedono l'eutanasia, che provvedere ai nati veri che hanno fame e ne soffrono fino a morirne. Più semplice che condividere i propri beni (scuola, salute, cittadinanza). Infatti, nel primo caso c'è solo bisogno di parole, nell'altro si dovrebbe partecipare con atti concreti, fatti di condivisione di vantaggi, ripartizione di benefici, inclusione di esperienze.
Chi ha creduto nell'attuale governo, perché prometteva deregulation, si trova ora ad essere regolamentato anche nella sua vita più intima e privata. Chi crede in una Chiesa fatta di pietas e speranza si trova di fronte un papa e dei vescovi che ripercorrono i cammini di sofferenza dell'Inquisizione, perseguitando coloro che non sono nella dottrina della fede (quale? visto che non sono in pochi i sacerdoti ed i credenti che hanno fatto notare che la morte, secondo le scritture, è parte naturale della vita).
Una Chiesa che rifiuta la tecnica all'inizio della vita (vedasi la fecondazione in vitro), costringendo molte coppie a comportarsi da clandestini, e impone invece la tecnica alla fine della vita, costringendo anche qui a praticare la pietas clandestinamente. Una Chiesa che sposa, quando le fa comodo, la scienza diventando più scientista della scienza stessa e che la contrasta quando getta luce sui cosiddetti misteri dell'evoluzione della specie umana, e del suo cervello.
Chi vuole fare avanzare la strada di Eluana, deve dire queste cose, deve chiedere ragionevolezza e riflessione, deve richiamare la gente ad un'autonomia di giudizio, che richiederà anche informazione consapevole e responsabile, deve segnalare la necessità di sottrarsi a quella realtà virtuale, che stravolge i nostri rapporti con la vita reale. Bisogna che il termine vita riacquisti il suo senso primario di vita vissuta attraverso un corpo che sente e partecipa della realtà e che si relaziona con l'altro.

Abbiamo una proposta di legge in Parlamento, che a questi criteri non risponde, ma conferma la volontà che lo Stato intervenga per legge nel nostro privatissimo rapporto con la vita e la morte: la strada di Eluana ci deve portare a sconfiggere questa proposta.

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