PierLuigi Albini

Paul Klee
una ricognizione
- terza parte -

4.3. Klee e l'Universo

"La sua concezione di fondo era genetica: egli vedeva dappertutto il divenire e per ciò richiamava l'attenzione sull'agire dell'essere" [Schmalenbach, 1970].
Lo abbiamo già in parte visto parlando del suo rapporto con la natura. In effetti, Klee rinuncia a rappresentare la terza dimensione. Ritiene artificioso, illusorio, il tentativo di rendere le tre dimensioni su una superficie bidimensionale come il quadro, perciò sceglie le sole due dimensioni cartesiane. Lì non c'è prospettiva perché non c'è, appunto, la terza dimensione: perciò i soggetti non sono in relazione tra loro secondo questo criterio. Ma Klee unisce alle due prime dimensioni il movimento – la quarta dimensione - nel senso del farsi del mondo a partire dai suoi principi primi. Tempo e movimento si equivalgono.

Il tempo di Klee è un tempo molteplice, è il tempo della poesia, quello della musica e quello del cinema. "Tempi vorticosi e tempi lentissimi, scrive Gillo Dorfles, perché anche là dove la linea si arresta ritroviamo spesso il tempo che diviene scanditura di ritmi che si dissolvono verso il nulla". Una delle grandi novità della pittura di Klee consiste, infatti, nel tempo che entra dentro il quadro. Le linee e le frecce che lui disegna alludono sempre ad un percorso, oltre che ad un valore, e un percorso è strettamente legato al tempo.
Klee è un evoluzionista e un cosmologo. Il suo giocare con le dimensioni rappresentabili ricorda (e anticipa) le teorie fisiche attuali sui mondi a più dimensioni. Ma perché introdurre il tempo nella bidimensionalità? Perché il tempo è una costante; le forze naturali si evolvono, c'è un passato e c'è un futuro: dunque, qualsiasi dimensione o gruppo di dimensioni scorre su un nastro temporale, anche se questo nastro può benissimo essere reversibile (come appunto ci dice anche l'astrofisica moderna con la teoria dei buchi neri).

Naturalmente Klee non poteva intendere la questione della bidimensionalità della rappresentazione da lui pensata negli stessi termini in cui oggi la fisica sta esplorando la possibilità che esistano diversi universi, ivi compresi quelli a una o a due dimensioni. Per quanto, le prime speculazioni scientificamente serie sull'esistenza di più dimensioni risalgono al 1919 ad opera del fisico polacco Theodor Kaluza, che ampliò la teoria di Einstein supponendo l'esistenza di una quarta dimensione spaziale arrotolata su se stessa. Sarebbe interessante fare una ricerca documentaria sulle letture di Klee e sui rapporti cronologici tra le teorie scientifiche sull'universo e le sue realizzazioni pittoriche. E del resto già nell'Ottocento si era capito che dal punto di vista matematico-geometrico potevano esistere spazi contenenti un maggior numero di dimensioni. La geometria non euclidea vide ad esempio la luce nella seconda metà di quel secolo. Ma la cosa importante è che tali suggestioni erano comunque nell'aria e si sa che la percezione delle atmosfere culturali da parte degli artisti è molto acuta.
Facciamolo dire allo stesso Klee: "Oggi la relatività delle cose visibili - scrive – è nota, di conseguenza consideriamo come un articolo di fede la convinzione secondo la quale, in rapporto all'universo, il visibile costituisce un puro fenomeno isolato e che ci sono, a nostra insaputa, altre numerose realtà".

A me fa venire in mente la patafisica dello scrittore Alfred Jarry, pubblicata nel 1907 con il titolo Gesta e opinioni del dott. Faustroll Patafisico. Che cos'è la patafisica? È la scienza delle soluzioni immaginarie.
Essa infatti, dice Jarry, "studierà le leggi che reggono le eccezioni e esplicherà l'universo supplementare a questo; o meno ambiziosamente descriverà un universo che si può vedere e che forse si deve vedere al posto del tradizionale, le leggi che si è ritenuto di scoprire dell'universo tradizionale essendo anche delle correlazioni di eccezioni, sebbene più frequenti, in ogni caso fatti accidentali che, riducendosi a delle eccezioni poco eccezionali, non hanno neppure l'attrattiva della singolarità". E il dott. Faustroll Patafisico, ad un certo punto, dichiara: "L'etere luminoso e tutte le particelle della materia, che io distinguo perfettamente, avendo il mio corpo astrale dei buoni occhi patafisici, ha la forma, a prima vista, di un sistema di listelle rigide articolate e di volani animati da un rapido movimento di rotazione, sostenute da alcune di quelle listelle."
Però c'è poco da sorridere.
Le teorie scientifiche attuali dicono che esisterebbe un multiuniverso o megaverso in cui la nostra dimensione è immersa su una specie di membrana tridimensionale insieme a quelle di altri universi dotati di maggiori o minori dimensioni.
Insomma, Klee compie un'operazione che potremmo chiamare iperspaziale. Egli sembra aver pensato: cosa vieta, in una genesi plurima, che le dimensioni siano tra loro raggruppate escludendone alcune e cosa vieta di esprimere questa visione secondo un andamento cromatico musicale, oltre che di segni?
Ancora una volta, rinveniamo qui una singolare equivalenza tra l'arte di Klee e quella di Italo Calvino, specialmente del ciclo fantascientifico.
Del resto, non è forse vero che oggi alcune teorie sulla costituzione ultima dell'universo lo descrivono come una complessa sinfonia cosmica, vibrata da piccolissime cordicelle: le stringhe?

4.4. Klee e la modernità

Eppure, Klee ha una visione che può sembrare disperante della modernità. Non la guarda con sospetto ma non ne diventa prigioniero. La stempera nell'ironia e nel gioco. Significativo il suo commento ad un'acquaforte del 1904 Eroe con l'ala, che rappresenta la sua concezione di fondo sul problema dell'uomo: "L'eroe con l'ala, un eroe tragicomico, un antico Don Chisciotte: questa nuova idea poetica, emersa come da un acquitrino nel 1904 ha ormai una forma ben definita e ben sviluppata.

Quest'uomo nato, in contrasto con esseri divini, con un'ala sola, fa grandi sforzi per volare, e così si spezza braccia e gambe, ma tuttavia resiste sotto l'usbergo della sua idea.
Il contrasto fra il suo atteggiamento solenne, monumentale e la sua rovina in atto era ciò che dovevo mettere particolarmente in rilievo come simbolo della tragicommedia".
Per lui il dramma della modernità è quello dell'enorme distanza tra le potenzialità psichiche dell'umanità e le limitazioni del corpo. Come sottolineaFederica Pirani, nelle lezioni al Bauhaus, anni dopo, sosterrà che "questa capacità dell'uomo di spaziare a piacimento con lo spirito nel terreno e nel sopraterreno, in antitesi con l'impotenza fisica costituisce la più profonda tragedia umana: la tragedia della spiritualità […] L'uomo è per metà prigioniero e per metà alato…"
Klee è ben lontano dal pensare la tecnologia come il mezzo per accorciare questa distanza, come tentarono di fare i futuristi, e non riteneva che il riduzionismo praticato dal Bauhaus o il produttivismo del costruttivismo russo potessero risolvere la questione. Tuttavia, a differenza dei metafisici, non ha rimpianti, né fugge nello psichismo dei surrealisti e nemmeno si rifugia nell'astrazione rigorosa di un Mondrian. Ma, il mondo del macchinismo è per lui privo di consistenza.
Osserviamo la Macchina cinguettante del 1922: qui si tratta di una parodia della meccanica e di uno sberleffo alle leggi fisiche del costruttivismo e dello stesso Bahaus. Klee sembra una sinfonia degli opposti: la sua è un'estetica di "ordine e disordine, forma e informe, organico e inorganico, disegno e materia, serietà e ironia, comico e tragico". [Barilli, 2000] Anche Klee, come i futuristi, tenta una ricostruzione dell'universo, anche il suo è un universo autonomo, ma non una proiezione della nuova civiltà tecnologica. Renato Barilli parla, è vero, di meccanomorfismo di Klee, ma io parlerei più di stratificazioni geologiche e temporali, di risalita a ciò che c'è sotto e prima, in chiave fisico-fantastica.

4.5. Klee e l'infanzia

L'interesse per il disegno artistico dei bambini risale in Klee al 1902, quando si imbatté casualmente in disegni infantili propri. "Opere eleganti e ingenue", le definì. Del disegno infantile Klee apprezzava soprattutto la capacità di guardare il mondo in modo innocente. "I signori critici – scrisse in seguito – dicono spesso che i miei quadri assomigliano agli scarabocchi dei bambini. Potesse essere davvero così! I quadri che mio figlio Felix ha dipinto sono migliori dei miei".

Qui Klee si ricollega, almeno in parte, al clima culturale del tempo, alla riscoperta dei primitivi, dell'arte africana, della semplicità di rappresentazione, alla capacità di assoggettare il mondo non ad un processo razionale ma di puntare direttamente alla sua raffigurazione simbolica. Da questo punto di vista, l'innocenza è la sola guida per capire-rappresentare.
Del resto, la pensavano così quasi tutti gli artisti del tempo che, continuando la tradizione romantica, erano attratti dalle facoltà intuitive dell'umanità.
Naturalmente l'infantilismo grafico di Klee tutto era fuorché uno scarabocchio e una raffigurazione incongrua: era, in realtà, il frutto di un calcolo e di una progettazione molto attenti e studiati. Quello che lo attraeva dei disegni infantili era la carica di energia che emanavano, la capacità di mettere in presa diretta le proprie sensazioni con il mondo, saltando qualsiasi convenzione. La stessa energia, dice Lyonel Feininger, altro grande pittore del Bauhaus, all'incrocio tra razionalismo e futurismo e tra i fondatori dell'arte contemporanea americana, che "talvolta si cela nei disegni dei bambini".

Anche in questo Klee si dimostra un neurologo inconsapevole. La sua ricostruzione dell'universo è, contemporaneamente, la ricostruzione del processo di addestramento neuronale dell'uomo dalla nascita in poi, teso ad estrarre "informazioni sugli aspetti essenziali, costanti del nostro universo visivo, a partire da una massa di dati in continuo cambiamento". (S. Zeki).
Se la capacità di visione è geneticamente determinata – continua lo studioso di neuroestetica - lo "sviluppo della corteccia associativa matura in diverse tappe successive, come se il suo sviluppo dipendesse dalle acquisizioni dell'esperienza visiva." Ora, la capacità di rappresentazione dei bambini si situa proprio su quel crinale temporale in cui "si acquisiscono quelle capacità visive che non possono essere modificate per il resto della vita dell'individuo."
Lì, per Klee, c'è il terreno vergine delle mille possibilità che sono date alla rappresentazione, un universo potenziale che, poi, non potrà più essere modificato, se non attraverso l'arte. Un bambino, non subisce quell'effetto deragliamento di cui parlavo all'inizio, lo accetta come un dato naturale tra gli altri. Perché mai una banana non può essere rossa o una linea schematica non può rappresentare un essere umano?

Il germe del mondo (ontogenesi) e il processo evolutivo (filogenesi) qui si completano; infantile e astrazione raggiungono il loro massimo potenziale attraverso un bricolage, un riciclaggio di materiali-composizioni poveri, essenziali. "Un ingenuo candido fanciullo è entrato nella stanza dei bottoni, e li pigia all'impazzata, recuperando il loro funzionamento alla logica del piacere" – dice splendidamente Barilli.
È la riscoperta-riadattazione ludica del mondo, come fa un bambino alle sue prime armi, come fa il mio nipotino Alessandro, ipereccitato dai bottoni degli apparecchi con cui muovere misteriosamente il mondo delle cose che lo circondano, le quali non sono ancora in collegamento logico tra loro: solo in seguito formeranno il nostro mondo di adulti, compatto e opaco.

4.6. Klee e l'arcaismo

Ne ho già accennato parlando della scuola viennese – in particolare di Worringer - e del cambiamento di forma-colore nelle famose tessere di Klee. Qui posso dare solo qualche suggestione, sia per le difficoltà dell'argomento sia perché si tratta di una ricerca ancora aperta.
L'interrogativo è il seguente: in che misura ed al di là di certe somiglianze i segni di Klee richiamano volutamente le astrazioni arcaiche, i segni e i grafismi del periodo geometrico della storia dell'arte, quando la figura veniva rappresentata in modo stilizzato e prevaleva l'ornamento geometrizzante?
Dal punto di vista neurologico la cosa è chiara, il riconoscimento dei volti è svolto da un'area specializzata del cervello che non viene attivata di fronte ad una rappresentazione non figurativa. La percezione della forma è invece diffusa su diverse aree. Ma quale relazione c'è tra l'astrattogeometrico dell'antichità e quello moderno? Questo è, per l'appunto, un tema affascinante e ancora aperto. Alcuni, come Dorfles, sostengono che non è risolvibile. Altri parlano di scacco immanente ad ogni ermeneutica dell'arcaico, nel senso di una impossibilità di comprensione.
Per me il problema è ancora da indagare a lungo e forse potrà essere proprio la neuroestetica ad aiutarci nel processo di comprensione.

Klee, in consonanza con le tendenze del tempo, va alla ricerca del primitivo, del più semplice, delle sensazioni originarie, dell'ingenuità e purezza del tratto. Il geometrico arcaico dipende forse da come l'umanità del tempo interrogava e interpretava il mondo, dal suo modo di simbolizzarlo? Poiché ancora non sappiamo in quale rapporto stanno le singole aree cerebrali con l'immagine unificata che si forma nel cervello, una riposta è del tutto prematura. Ma dobbiamo guardarci dal comporre un'equazione troppo semplice tra primitivo = infantile: si tratta di un vecchio e superato modo di vedere la questione, di derivazione ottocentesca.
L'arcaismo dei segni che appaiono in Klee avrebbe a che fare con una ricostruzione a ritroso della storia della sensibilità umana, dove - ovviamente – il prima non è meno complesso del dopo. All'origine, sostiene Wilhem Worringer, parlando del decorativismo come di un campo che più di altri dimostra le sue tesi, "l'uomo non trasferì nell'arte l'organismo vegetale in sé ma la sua legge strutturale[…] così alle origini l'ornamento vegetale non riproduce propriamente la pianta, ma la regolarità della sua struttura esterna". E porta a dimostrazione una lunga serie di esempi che sarebbe fuori luogo riprodurre qui.

C'è poi, secondo l'autore, il passaggio dalla fase astratta (ossia geometrica) a quella empatica, cioè ad una rappresentazione mimeticofigurativa del mondo. Non importa qui analizzare le ragioni avanzate da Worringer per tale passaggio, basterà osservare che la sua generalizzazione non funziona con l'arte primitiva. Piuttosto, si può azzardare un'ipotesi, da proporre con tutte le cautele del caso: una fase astratto - geometrizzante, certamente mai esclusiva e tuttavia prevalente, si ha nelle fasi in cui grandi rivolgimenti tecnico-sociali e culturali obbligano l'umanità a reinterpretare il mondo, quando vecchie certezze e antichi valori vengono rimessi in questione. Ora, il geometrizzante-astratto dell'età arcaica greca, ma anche di altre aree, entra in scena in quasi perfetta coincidenza con l'ingresso nell'età del ferro (e con l'introduzione dell'uso del tornio per vasi e della ripresa su scala più ampia dei traffici mediterranei), tutte cose (anche se non sono le sole) che producono un profondo rivoluzionamento politico, sociale e culturale e che obbligano gli uomini del tempo a ricostruire il modo di vedere il mondo. Come non pensare che anche l'esplosione dell'astrattismo, figurativo o meno, entra in scena nel Novecento in coincidenza con una rivoluzione tecnologica senza precedenti nella storia, che ha spiazzato tutti i nostri consolidati modi di pensare? (Con molta prudenza nel tirarne conclusioni affrettate, si confrontino i graffiti rupestri dal neolitico all'età del ferro con i grafismi di Klee)

Tornando ad un'interpretazione più tradizionale, si può dire che Klee esprime una compresenza di questi due aspetti (cioè di arcaismo e di modernismo), quasi che nello sforzo di ricostruzione di un universo possibile non volesse privarsi dell'uso di tutti gli strumenti che gli permettono di emulare l'evoluzione della sensibilità umana. Oppure, possiamo pensare che Klee sceglie i motivi geometrizzanti, arcaizzanti, astratti – se vogliamo – perché "la ricerca dell'eterno, dell'assoluto - per Worringer fine ultimo di ogni arte - è più chiara nella tendenza astratta".
[Venditti, s.d.]

In realtà, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un'operazione a base psicologica. Infatti, l'arte astratta può anche essere interpretata come sforzo neurologico di analisi dei componenti primari del mondo, ma in Klee questa scelta si associa a raffigurazioni che, riproducendo il graffitismo neolitico e dell'età del bronzo, vogliono proprio rappresentare il ritorno ad una visione primigenia del mondo.
Le oscillazioni tra le rappresentazioni organica dell'ellenismo e l'influenza orientale astratta, costituiranno – dopo l'estetica antica - la sostanza dell'arte bizantina. Ed è qui che si innesta il ricupero che Klee fa del mosaico bizantino, pochi anni dopo una sua visita a Ravenna nel 1926, raggiungendo la più alta capacità di integrazione tra segno e colore. Qui le tessere diventano mosaicizzanti, e il segno di adagia su di esse o le attraversa dispiegando su due sole dimensioni la realtà, come nel capolavoro, Ad Parnassum del 1932. Le tessere si compongono di più minuti riquadri, come se Klee cercasse di raggiungere un livello sottostante della realtà, fatto solo di vibrazioni cromatiche; l'accostamento dei colori si compone in un'infinita pazienza e minuzia di gradazioni; i segni grafici raggiungono l'essenziale del suggerimento accennato eppure chiarissimo; l'equilibrio della composizione raggiunge la perfezione, impaginata com'è in un impianto in cui è obbligatorio rilevare la disciplina razionale dell'esperienza del Bauhaus.

Ma qui c'è anche un'eco di Klimt e della secessione viennese, come a chiudere il cerchio che dall'antichità giunge alla modernità. Per me, questo quadro rappresenta il più alto tentativo di sintesi della ricerca estetica di Klee.

5. Dopo il 1933

Dopo un brevissimo periodo di insegnamento, nel 1933 Klee si trasferì a Berna (in realtà si trattò di una specie di esilio nella patria originaria) dopo la condanna dei nazisti dell'arte degenerata. Nella sua pittura appare il dolore e il presentimento della fine, se non altro di un'epoca, se non ancora la sua personale.

Il carattere della sua produzione ultima si fa progressivamente più drammatico. Assieme ai suoi grafismi fiabeschi comincia a riapparire il grottesco, il mostruoso. Il segno diventa sempre più schematico, caricaturale, i colori si fanno spesso più violenti.
E anche quando conserva le cromie delicate delle sue visioni fantastiche, i titoli dei quadri alludono al clima di terrore che sta inquinando la civiltà europea, come in Acqua selvaggia del 1934 o in Maschera di terrore del 1932.
Alla fine degli anni Trenta, dato il suo contributo alla nascita del surrealismo, avendo resistito al riduzionismo di Gropius e del Bauhaus, Klee percepisce la catastrofe imminente e la sua pittura si fa più angosciosa, notturna, incupita, il nero fa spesso irruzione nella sua tavolozza. Anche il altre epoche Klee aveva usato colori e sfondi scuri, ma essi alludevano al notturno, al mistero e alla trasformazione, non al dramma.

Il plumbeo e il tragico della morte appaiono nel suo orizzonte, come ne L'angelo della morte e ne Il prigioniero del 1940. La sclerodermia degli ultimi anni lo tiene spesso distante dal cavalletto.
Si tratta di un Klee che sembra ansioso non più di ricostruire il messaggio di un universo immaginario o della realtà filtrata dalla poesia, ma di consegnarci riflessioni sulla vita. Messaggi per lo più disperati, in cui il rapporto tra colore segno ed emozione raggiungono una capacità di concentrazione eccezionale, colpendoci direttamente nel plesso solare.

È come un lungo finale suonato su tonalità gravi. Klee non poteva vedere più oltre né della sua vita né della storia, minacciata da un'altra stagione di ferro e di sangue.

Cosa ne sarà dell'umanità? Klee non può immaginarlo, ma intanto sospetta di un lungo atroce dolore, di una specie di ingresso all'inferno. Se L'armadio del 1940, a differenza dello specchio di Alice, non si apre su un altro mondo ma in quello che conosciamo, allora ci aspettano fuoco e sangue.
Il suo ciclo si compie con la Natura morta del 1940, trovata sul suo cavalletto. Qui le cose non parlano più l'una con l'altra, scandite sul nero dello sfondo che un sole acido non riesce ad illuminare. E, davvero, per quest'ultimo quadro non so trovare migliore commento dei versi:

"L'esempio di Klee – per concludere questa ricognizione con un'osservazione di Italo Calvino – è quello di un artista che ha una grande forza genetica, che in ogni quadro apre delle strade e certamente ci sta ad essere derubato. È uno che si dà in pasto all'arte futura. Non fa altro che aprire delle strade che forse non è tanto interessato a sviluppare lui stesso, perché è già subito occupato ad aprirne delle nuove e quindi tutto quello che fa è un dono agli altri, di cui poi lui magari si disinteressa."

Bibliografia ristretta

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Barilli R., L'arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, 2002
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De Micheli M., Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, 2001
Dorfles G., Il divenire delle arti. Ricognizione dei linguaggi artistici, Milano, 2002
Fiedler J.; Feierabend P., Bauhaus, Colonia, 2000
Gamba D., Fare pittorico ed essere musicale nell'opera di Paul Klee, in De Musica, Annuario in divenire, Seminario di filosofia della musica, III, 1999
Klee P., Diari 1898-1918, Milano, 1960
Klee P., Quaderno di schizzi pedagogici, a cura di Mario Lupano, Milano, 2002
Paul Klee. Uomo, pittore, disegnatore, a cura di Hans Christoph von Tavel, Catalogo Mostra Complesso del Vittoriano, 13 marzo – 27 giugno 2004, Milano, 2004
Pirani F., Klee, Firenze, 1990
Priuli A., Incisioni rupestri delle Alpi, Ivrea, 1983
Tusini G.L., Percorsi nel pensiero di Riegl, Wölfflin, Worringer, in Seminario del Corso di fenomenologia degli stili, Università di Bologna, anno accademico 2002-2003
Zeki S., Neuronal concept formation and art. Dante, Michelangelo, Wagner, in Journal of Consciousness Studies, 9, 2000
Zeki S., La visione dall'interno. Arte e cervello, Torino, 2003

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