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2. Labirinti di lettura
Alla ricerca della lunga linea dell'arteNel primo labirinto si concludeva, citando Lionello Venturi, che l'arte antica si capisce meglio a partire da quella attuale. Questa era anche l'opinione di Carlo Giulio Argan e di altri grandi critici. In quella che potremmo chiamare la cultura media umanistica, trasmessa attraverso l'acritica ripetizione di formule e di visioni sorpassate del mondo, l'affermazione può ancora suonare scandalosa. Come una specie di tradimento dell'arte vera, quando un quadro era un quadro e, naturalmente, un cavallo era un cavallo. In realtà, si tratta sì di un tradimento, ma di una concezione che cominciò ad affermarsi nella seconda metà del Settecento e che era, a sua volta, un tradimento, una preclusione e un fraintendimento. Un tradimento del diritto di esistenza di un'umanità moderna molto diversa, nella sua cultura materiale e spirituale, da quella che l'aveva preceduta. Una preclusione perché espelleva dal proprio orizzonte interpretativo strumenti e metodi che lo sviluppo della scienza e della conoscenza del mondo umano ci metteva a disposizione, utilizzandoli solo, nel migliori dei casi, come supporti secondari. Un fraintendimento di cosa è la storia.
In sostanza, la concezione che vedeva nel Rinascimento e nella classicità gli ineguagliabili vertici della cultura artistica, ripeteva l'idea che lo svolgimento della civiltà incedesse da una mitica età dell'oro (o, comunque, da un paradiso terrestre) lungo una traiettoria discendente, dove tutto precipitava in un processo di decadenza, in una spirale dalla quale occorreva salvarsi. Un'idea, insomma, mutuata dalla tradizione greco-giudaico-cristiana della caduta dell'uomo, per cui il Rinascimento era solo il ricupero di capacità già possedute in una lontana epoca precedente: una ri-nascita, appunto. Che poi di rinascita non si trattasse, ma di nascita di una cosa del tutto nuova, ossia della modernità, questo i tenaci tradizionalisti continuano a non capirlo.
La contemporaneità ha ribaltato questa concezione. Non sappiamo ed esitiamo (dopo le terribili esperienze del Novecento) a dire che l'età dell'oro è nel futuro (e che quindi la nostra età è migliore di quelle precedenti). Certamente non si tratta di una fase regressiva, nonostante il gran parlare che si fa di perdita dei valori. Caso mai, la post-modernità ci suggerisce di pensarla ognuno come gli pare, rimanendo però imbottigliati in un circuito vizioso di rimandi senza conclusioni. Una condizione che è sperabile pensare come provvisoria, finché il radicale mutamento in corso generato soprattutto dalle nuove tecnologie nel nostro panorama mentale e ambientale non avrà prodotto nuovi e generalizzati criteri di visione del mondo, con la speranza che sia salvaguardato un sano relativismo. Ovvero un disincantato scetticismo nei confronti delle verità con l'iniziale maiuscola. Comunque, il pensiero evolutivo inteso in senso lato e l'espansione della scienza e della tecnologia hanno fatto giustizia di quell'idea astratta di classicità, compiutamente formulata nel Settecento da Johan Joaquim Winckelmann, [Storia dell'arte nell'antichità, Milano, Abscondita, 2000, pp. 368], la quale, al di là delle intenzioni dell'autore, era in buona sostanza portatrice di una visione svalutativa delle capacità artistiche umane (gli antichi erano meglio dei moderni?).
Riassunto malamente in poche righe un dibattito che ha attraversato due secoli (e che non è stato ancora del tutto superato), possiamo ora chiederci se c'è qualcosa che collega l'arte antica a quella contemporanea, al di là dell'osservazione banale sull'eternità dell'arte. Perché nella pratica prevalente della critica, almeno fino alla seconda metà dello scorso secolo, lo storico dell'arte antica e quello dell'arte moderna e contemporanea, si muovevano con metodologie e con un bagaglio di concetti del tutto estranei tra loro? Cos'è questo prima e dopo che sembra interrompere la continuità dell'esperienza artistica? Affrontare questo problema significa davvero muoversi in un labirinto particolare, i cui corridoi e le cui svolte non poggiano solo su una superficie orizzontale, ma comprendono anche un su e un giù. Insomma, risulta proprio difficile uscirne. Abbiano però in mano i capi di tre fili. Non saranno quelli di Arianna ma ci aiuteranno almeno a capire in quali corridoi è consigliabile non inoltrarci.
La prima guida è quella che potremmo sinteticamente definire come il filone austro-svizzero (i cui maggiori esponenti sono stati Alois Riegl, Heinrich Wölfflin e Wilhelm Worringer, sviluppatosi tra la fine dell'Ottocento e la seconda metà del Novecento). Al centro di questa interpretazione dell'arte c'è il concetto di empatia, ossia di una comunione affettiva con un'altra persona, in questo caso sostituita dall'opera d'arte. Si tratta di una scuola sommariamente definibile come psicologica. Essa cerca di individuare il senso di marcia dello svolgimento millenario della vicenda artistica secondo un'ottica evolutiva. In senso lato, questo approccio anticipa, a livello di descrizione fenomenologia (cioè, la ricerca di ciò che è costante al di sotto del mutamento) i primi risultati delle neuroscienze, secondo cui il soggetto organizza la rappresentazione del mondo secondo le proprie caratteristiche psicofisiche. In particolare, la visione (e il godimento estetico) sono strettamente legati all'organizzazione dei nostri circuiti neuronali.
Lo svizzero Heinrich Wölfflin [Concetti fondamentali di storia dell'arte, Vicenza, Neri Pozza, 1999, pp. 314], ad esempio, organizza lo svolgimento permanente del senso estetico secondo cinque coppie di categorie mentali che continuamente si intrecciano o si alternano e si incarnano nell'opera d'arte: lineare - pittorico; visione di superficie - visione di profondità; forma chiusa - forma aperta; molteplicità - unità; chiarezza assoluta - chiarezza relativa; procedimento per linee - procedimento per masse. Alcune di queste categorie sono discutibili, ma hanno avuto il pregio di individuare una linea di ricerca che superasse le fratture di metodo e di interpretazione tra le varie epoche della storia dell'arte. Per esempio, il barocco adottava forme aperte, mentre il neoclassicismo (e la classicità) preferiva quelle chiuse. Questo approccio produce due risultati: da un lato dà conto del succedersi degli stili nella storia dell'arte e, dall'altro, interdice la sua interpretazione in chiave di fioritura e decadenza, con il rifiuto dell'implicito giudizio di valore sulla supremazia del classico rispetto a tutte le altre epoche artistiche. Una ricognizione dei capisaldi di questo filone è contenuto nel testo di un seminario universitario di Gian Luca Tusini, disponibile in rete:
Percorsi nel pensiero di Riegl, Wölfflin Worringer, [file Word zippato] dispensa del Seminario, anno accademico 2002-2003.In Italia, tra la prima e la seconda guerra mondiale ci fu una reazione classicista anche contro l'approccio ora descritto, con una sorta di ritorno all'ordine, isolando la classicità come un fenomeno superiore a qualsiasi altro, e che si protrasse nel secondo dopoguerra. Ma già Ranuccio Bianchi Bandinelli (ed è questa la seconda guida, riguardante soprattutto il confronto con l'arte antica) introduceva la costante preoccupazione di non isolare l'arte dal suo contesto, raccomandando sempre di tenere collegati gli studi di antichità con la cultura contemporanea. Impostazione a lungo combattuta dagli ambienti classicisti. Nel saggio fondamentale Organicità e astrazione del 1956, nuovamente edito nel 2005 dall'Electa, Bianchi Bandinelli si ricollegava solo in via molto mediana alla scuola austro-svizzera e apriva soprattutto gli spazi all'attenzione per la cultura materiale, sui quali molti suoi allievi avrebbero inaugurato nuove indagini, ottenendo notevoli risultati nella rilettura dell'arte antica. Il discorso su questo filone - molto importante - dovrebbe avere un suo sviluppo che per ragioni di complessità e di spazio non è possibile fare qui.
Tuttavia, va detto che Bianchi Bandinelli, respingendo una visione metafisica, idealistica, dell'arte come intuizione e trasfigurazione, metteva l'accento sulla razionalità insistendo, appunto, sulle categorie di organicità e di astrazione. Laddove la classicità, correttamente intesa, rappresenta la capacità di ordinare e subordinare le parti al tutto (organicità), mentre l'astrazione, con la sua disgregazione della forma, appare come un'evasione di fronte alle difficoltà del mondo, come un rifugiarsi nella metafisica e nell'irrazionalità. Reagiva certamente a certo spiritualismo dei decenni precedenti, come ad esempio quello teorizzato da Kandinskij, secondo cui l'astrattismo era proprio delle età infelici. Ma Bianchi Bandinelli non risolveva ancora il problema del rapporto tra lo sviluppo dell'arte e quello della tecnica. Anche se in tutto il suo saggio si sottolineava continuamente il nesso esistente tra tecnica, economia e espressione artistica, la sua non era una razionalità critica, in grado di misurarsi con una ragione che si fa anche in rapporto ai dati biologici e al continuum tecnologico attuale, che sono le cause principali del cambiamento degli orizzonti mentali dell'umanità. In altre parole, l'impostazione di Bianchi Bandinelli continuava quella che Derrick de Kerckhove chiama "una mentalità analitica di tipo alfabetico", estranea al concreto modo di pensare della maggior parte delle persone. Questa visione, non includendo nel proprio bagaglio analitico l'ambiente tecnologico come costitutivo della sensibilità estetica, specialmente quello derivante dall'allora nascente fase elettronica, si precludeva la comprensione del fatto che se la tecnologia cambia il mondo sono solo la pratica quotidiana e l'arte a renderla umana.
La terza guida riguarda quella che molto approssimativamente possiamo definire l'area di Marshall McLuhan, autore dell'espressione "villaggio globale" e di saggi straordinari. McLuhan, riprendendo anche alcune intuizione futuriste, assegnava ai sistemi di comunicazione, in sostanza ad alcune tecnologie chiave (il medium, i media), il ruolo di agenti di ristrutturazione dell'universo mentale umano (e con ciò dello stesso senso estetico). Celebre è il collegamento stabilito da McLuhan tra la rivoluzione di Gutemberg e l'affermazione dei principi scientifici nell'arte rinascimentale e, poi, in tutta la cultura occidentale. Una sintesi efficace sia delle principali idee di McLuhan che degli sviluppi della sua impostazione, specialmente per quanto riguarda l'Italia, è contenuta in un saggio di nove pagine di Renato Barilli Il materialismo storico culturale di fronte all'arte moderna e contemporanea, in Studi di Estetica, 2, 2002.
La tecnica è una nostra protesi, un utensile che prolunga e amplia il nostro fare e la nostra comprensione del mondo. Ma ciò non è senza effetto sulle nostre strutture mentali. Infatti, scrive Barilli, "... i media non sono corpi estranei e inanimati, ma si saldano prontamente ai nostri organi naturali prolungandoli, arricchendoli: funzionano insomma da "forme" kantiane, al modo dello spazio e del tempo, per plasmare i dati provenienti dal mondo esterno. Non c'è un messaggio, un contenuto che possa prescindere dal modo come è raggiunto e trattato dal soggetto umano, esattamente come lo spazio e il tempo kantiani, che sono "nostri", appartengono alla condizione umana." Di qui un'altra famosa definizione di McLuhan, spesso travisata e banalizzata: il medium è il messaggio. Cambia così il senso estetico e cambiano le forme dell'arte in rapporto biunivoco con l'evoluzione socio-tecnologica, senza tuttavia stabilire connessioni meccaniche tra le due sfere, come era nell'originaria impostazione marxiana. Questo approccio ammette, infatti, una pari dignità tra agli aspetti materiali e quelli immateriali dell'attività umana, definendosi come materialismo culturale. Si tratta, in sostanza di un'antropologia culturale.
È su queste basi che, andando alla ricerca dei fattori forti che hanno dato l'impronta ad intere epoche della nostra civiltà e stabilendo delle connessioni tra l'universo tecnologico di ogni epoca e l'arte, si possono ricostruire i fondamenti, gli sviluppi e le evoluzioni dei diversi stili artistici che hanno dominato nella storia. In questa fase della sua ricerca Barilli, si concentra in particolare sul periodo della decadenza dell'impero romano (ma poi si spinge a confronti con il basso Medioevo), dando ragione del passaggio da un'arte mimetica, naturalistica, ad una più espressionista ed astratta. Per questa ricerca utilizza il concetto di omologia, elaborato dal francese Lucien Goldmann, "intendendola come identità di funzionamento, tra settori di attività che pure sembrerebbero in apparenza assai distanti tra loro". Come l'invenzione di Gutemberg, la nuova visione geografica del mondo, l'immaginazione cartografica hanno strutturato la modernità, così la perdita di centro dell'autunno della romanità, il venir meno della capacità di controllo e intervento negli spazi immensi dell'impero, ha portato ad un ripiegamento localistico, alla perdita del punto di irradiazione e, quindi, del senso della prospettiva. Ecco che i corpi rappresentati non entrano più in relazione attraverso precisi rapporti numerici, "ma galleggiano in uno spazio appiattito; e viene meno anche la pretesa di definirli puntualmente nella loro individualità, visto che cessa la capacità di dominarli, di stendere su di loro un possesso pieno; ora basta accontentarsi di una possibilità di identificazione sommaria".
Pur non perdendo di vista l'importanza dei fattori tecnologici specifici, Barilli sceglie quindi la linea guida della comunicazione come asse portante delle rivoluzioni estetiche: il sistema viario e la sua decadenza per il periodo romano, l'invenzione di Gutemberg per la modernità, l'avvento dell'era elettromagnetica per la contemporaneità.
Ma, in quest'ultimo caso, siamo sulla soglia di un mutamento - anzi, ci siamo nel bel mezzo - che comporta forse davvero un prima e un dopo che però solo i futuri storici potranno valutare. Questa nostra contemporaneità potrebbe essere la fase preliminare di qualcosa di radicalmente diverso dal passato, intanto proprio nel campo dell'arte. Non sono sicuro che in futuro la difficile ricerca di ciò che è permanente, di ciò che si ripete nell'arte sarà ancora proponibile.
In fondo, non solo l'arte della avanguardie novecentesche, ma anche quella presente, ci hanno dato diversi preavvisi, come annota Enrico Cocuccioni [La trasfigurazione tecnologica dell'arte, in La Critica. Rivista telematica di arte, design e nuovi media, 2000], avvertendoci "che siamo fatalmente impreparati ad affrontare le rischiose conseguenze ad ampio raggio dell'odierna espansione senza limiti del dominio tecnico, nonché le implicazioni etiche dei nostri stessi atti riferibili all'uso maldestro dei sempre più potenti e complessi strumenti che ci troviamo a maneggiare." Ma è proprio l'arte che, avendo travolto i tradizionali steccati tra i diversi domini artistici, ibridando modalità operative nate per finalità diverse, sperimentando materiali non tradizionali, mescolando il virtuale con il materiale, appropriandosi di nuovi strumenti tecnici e rielaborandone il senso e l'uso, ci potrà dare (forse, aggiungo io) "una ben più ambiziosa possibilità, per l'umanità intera del XXI Secolo, di condividere le premesse culturali di una comunità dell'arte che sia davvero in grado di oltrepassare le mura fortificate dell'antica cittadella umanistica."
Ma se così dovesse essere, come ho poco sopra suggerito, anche tutti gli armamentari critici finora elaborati e le stesse domande fatte all'inizio diverrebbero inattuali.Torna in biblioteca