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5. Labirinti di lettura
Le nuove frontiere tecnoscientifiche: dove va l'arte?

"Le nostre Arti Belle sono state istituite, e il loro tipo e il loro uso sono stati fissati in un'epoca ben distinta dalla nostra e da uomini il cui potere d'azione sulle cose era insignificante rispetto a quello di cui noi disponiamo. Ma lo stupefacente aumento dei nostri mezzi, la loro duttilità e la loro precisione, le idee e le abitudini che essi introducono garantiscono cambiamenti imminenti e molto profondi nell'antica industria del Bello. In tutte le arti si dà una parte fisica che non può più venir considerata e trattata come un tempo, e che non può più venir sottratta agli interventi della conoscenza e della potenza moderne. Né la materia né lo spazio, né il tempo non sono più, da vent'anni in qua, ciò che erano da sempre. C'è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte."
Paul Valery, Pièces sur l'art (La conquête de l'ubiquité), Paris, 1934

Primo percorso

Dorfles Il sublime è ora de kerckhove

L'interrogativo del titolo supera davvero ogni capacità di risposta. Infatti, l'arte non ci dice esplicitamente quel che sta accadendo nella storia in formazione, anche se ci avverte sulle grandi correnti, più o meno sotterranee, che ci trasportano verso il futuro. Perciò questo è un Labirinto senza uscita e a doppio percorso. O meglio, l'uscita (ma provvisoria) si troverà tra non meno di cinquanta o cento anni, quando tante croste e manufatti artistici, pagati a peso d'oro, non varranno alcunché, né dal punto di vista estetico né da quello venale; quando l'uragano dell'innovazione tecnologica in corso avrà trovato non dico un momento di quiete (c'è mai stata quiete nella storia e potrà mai essercene più nella generazione di innovazioni?), ma permetterà un nuovo equilibrio, quando la fisionomia della civiltà mondiale sarà entrata in un nuovo ciclo. Insomma, quali opere d'arte create nel tardo Ventesimo secolo e in questi primi anni del XXI saranno discusse e ammirate tra cento anni?
"Oggi - scrive Derrick de Kerckhove - ci troviamo in questo tipo di transizione tra l'innovazione e la stabilizzazione, e non abbiamo ancora trovato il modello adeguato di stabilizzazione psicologica." C'è da aggiungere - parafrasando Theodor W. Adorno - che sarà anche necessario attendere l'eliminazione delle scorie comunicative che accompagnano oggi l'opera d'arte, alterandone come attraverso una lente il valore estetico. Insomma, non ci troviamo su una collina temporale da cui poter guardare da una certa distanza il panorama. Osservo anche che è difficile individuare un preciso fronte sul quale appoggiare una valutazione non aleatoria, vista l'estrema mobilità, multiformità e cangianza delle tecnologie attuali, le quali formano l'ecosistema (la tecnosfera) in cui l'arte si inserisce e in cui viene strutturata come mai è avvenuto in passato con tale intensità.
Sono queste le ragioni fondamentali che impediscono (almeno a me) di tentare qualcosa di più che rapide e non sistematiche incursioni in alcuni degli aspetti delle esperienze artistiche attuali che sembrano più significative, nel tentativo di rispondere almeno parzialmente alla domanda iniziale, alla quale - a dire la verità - sarebbe infatti presuntuoso pensare di dare una risposta esauriente.
Insomma, un fronte strutturato del rapporto arte-tecnologia non esiste; è piuttosto quest'ultima che avviluppa e innerva la prima costringendola ad una sorta di melting pot di significati e ad un esplosione di esperienze e sperimentazioni che sollevano parecchi interrogativi. Di qui, anche, le pressanti e ricorrenti domande sulla fine dell'arte o sul suo statuto.
C'è però un'altra considerazione da fare, nel momento in cui ci si aggira più o meno smarriti nel frastagliato territorio dell'artisticità, assaliti da forme, modalità e proposte di tale quantità e qualità da produrre un disorientamento permanente e da offuscare la lucidità critica. Come ho già avuto modo di dire, è proprio questa anarchia, questa esplosione delle esperienze artistiche, nonché la molteplicità compresente dei linguaggi artistici l'espressione, la risultante dei mutamenti in corso, la loro spia, se mai avessimo bisogno di ulteriori conferme. Per cui le generiche lamentele (non l'esercizio della critica, ovviamente) sul dove va l'arte fanno spesso corpo con quelle riguardanti la decadenza dell'umanità e il ripianto dei bei tempi passati; e con le incertezze generate da una transizione che sembra senza fine. Al netto, ovviamente, delle diffuse speculazioni di mercato.
La maggior parte della saggistica riguardante l'influenza delle nuove tecnologie sull'arte o, almeno, quella che ha goduto di una maggiore diffusione, ha concentrato la propria attenzione sulle tecnologie elettroniche e sui nuovi strumenti di comunicazione e di rappresentazione (le cosiddette ipertecnologie). Non c'è da stupirsi, sia perché in effetti è la nuova capacità di digitalizzare la realtà e di interconnettersi che sono all'origine delle grandi trasformazioni in corso, sia perché - per citare di nuovo de Kerckhove - essendo "la funzione dell'arte [quella di] fare il punto tra la tecnologia da una parte e la psicologia dall'altra", sono proprio le ipertecnologie a ristrutturare il nostro universo mentale (remapping). Tanto da fargli sostenere in un saggio che solo il gruppo degli artisti che lavora nell'ambito della computer image evita di soffrire della schizofrenia esistente tra "il mondo dell'arte, il mercato dell'arte e gli artisti." Tra i tanti analisti che in questi anni si sono misurati sul rapporto tra i nuovi mezzi di comunicazione e di elaborazione e l'arte - sulla scia degli ormai classici lavori di Marshall McLuhan - il lettore potrà trovare in Derrick de Kerckhove e nel suo ancora attuale libro su La civilizzazione video-cristiana, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 232 un utile punto di riferimento per comprenderne lo sfondo storico.
Ma io penso che confinare il rapporto tra arte e nuove tecnologie al solo incrocio con le ipertecnologie sia parziale e ci impedisca di apprezzare altri e non meno sconvolgenti aspetti dell'avanzamento delle conoscenze, che magari lavorano più lentamente dal punto di vista del cambiamento psicologico e interpretativo del mondo. E che, però, hanno non minori effetti nell'influenzare la rappresentazione artistica. Mi riferisco alla scienza nel suo complesso, ma specialmente alla fisica e, soprattutto, alla biologia. Qui, insomma, il campo deve allargarsi alla sfera della decifrazione del mondo, oltre che alla sua ricostituzione artificiale, perché l'inquietudine dell'arte è figlia diretta di tali mutamenti, ma anche perché l'integrazione tra scienza e tecnologia è ormai un dato di fatto.
L'artista o il gruppo di artisti che ricreano un mondo (l'opera) muovono dall'orizzonte generale di una sensibilità i cui componenti sono certamente molteplici, ma tra tutti - oltre alla sfera sociale in senso lato - spiccano quelli che hanno a che fare con la nostra fisicità e con l'idea di dove siamo collocati nella nostra naturalità (ormai artificializzata) e sul come ad essa ci rapportiamo. Insomma, una parte importante delle recenti sperimentazioni artistiche non si comprenderebbe se non integra il paradigma digitale con quelli della genetica e della biosfera.
Come hanno sostenuto Suzanne Anker e Dorothy Nelkin, la scoperta del DNA e l'affermarsi progressivo della genetica come una delle regine della scienza (per quanto qualche ritardatario si ostini a dire che non si tratta di scienza) ha profondamente influenzato l'immaginario artistico come icona e simbolo culturale. A Torinoscienza, nel 2003, è stato sistematicamente esposto questo punto di vista con mostre e con una serie di conferenze. Il fatto è che la genomica ha spostato l'attenzione sul corpo umano, sui fluidi e sulle strutture corporali, sulle implicazioni della bioingegneria. Se vogliamo, si è ripresa la tradizione rinascimentale dell'analisi puntuale dell'anatomia umana e animale (si pensi a Leonardo da Vinci e alle tavole di Andrea Vesalio), ma questa volta in prevalenza a livello molecolare, cercando di manipolare ciò che è ritenuta l'essenza dell'essere umano, ossia il gene. Una panoramica di questa tendenza, però ferma al 2000, si può osservare nel sito della Genomic Art.
È solo con una tale integrazione tra elettronica e genetica, perciò, che possiamo parlare di tecnocultura come ambiente in cui si sviluppa l'arte. D'altra parte, tutte e due hanno un fondamento comune nella teoria dell'informazione. Per queste ragioni, nessun ristretto raggruppamento delle numerose tendenze artistiche in atto può costituirsi da solo in emblema rappresentativo di questo periodo, in una fase estetica predominante. Un'utile e generale ricognizione di questo problema possiamo trovarlo nell'Archivio Attivo Arte Contemporanea, nell'intervista di Francesco Maria Battisti a Sue Golding, filosofo e artista inglese, su Arte e Scienza. È un testo del 1997, ma non sembra precocemente invecchiato.
Nel corso del Novecento nel mondo dell'arte è avvenuto di tutto ma, in particolare, c'è stata la definitiva dissoluzione della forma (almeno nel senso tradizionale), dovuta ad una ragione profonda, ossia - come scrive Gillo Dorfles [Ultime tendenze dell'arte d'oggi, Milano, Feltrinelli, 2001, pp.289] - "quella di scomporre la materia, di distruggere il segno, appunto per ritrovare un segno più genuino, una materia più idonea alla strutturazione di un'arte ancora in divenire." Questo naturalmente, proprio a seguito della rivoluzione tecnoscientifica, anche se Dorfles non sarebbe certo d'accordo con un'affermazione così netta. Il suo libro è stato edito per la prima volta nel 1961, ma è stato continuamente aggiornato e si chiude con il XX secolo. Inoltre è dotato di una breve antologia di scritti e testimonianze di artisti e di un piccolo glossario, assai utili per orientarsi nella selva di tendenze emerse nell'ultimo cinquantennio. Rappresenta perciò una buona base di partenza per una ricognizione del panorama artistico, delle sue ramificazioni e diversificazioni, spesso difficili da catalogare, visto che lo stesso fare arte non ha più un senso univoco e, soprattutto, non si affida più a tecniche e mezzi espressivi canonici. La sintetica conclusione che si può trarre dal libro, e che potrebbe fare da premessa ad un'indagine sull'arte del XXI secolo, è che abbiamo assistito ad un'esplosione di creatività dovuta all'avvento della macchina ma, ancora di più, all'estendersi di una commercializzazione dell'arte che ha spesso esaltato esperimenti ideati senza un preciso intento artistico. Tuttavia, andrebbe intanto chiarito, come insiste spesso Mario Costa, che è la stessa categoria di Arte generale (inventata peraltro nella stagione idealistica e sulla quale non si è raggiunta alcuna solida conclusione fondativa) ad essere messa in questione. Oggi (e già ieri) occorrerebbe piuttosto parlare di pratiche artistiche, "ciascuna delle quali è connessa ad un proprio dispositivo, ciascuna delle quali è capace di produrre un proprio significato che altre non sono in grado di produrre." Siamo alla ridefinizione dell'Arte, come appunto prevedeva Paul Valéry, ma nel senso di una dissoluzione del concetto stesso. Tra l'altro, la moltiplicazione esponenziale della disponibilità di immagini e di produzioni modellate dal design banalizza l'arte e la rende fruibile come mai nel passato, per cui le sue tracce si infiltrano in tutti gli interstizi della società umana.
In queste condizioni, che ne è dell'esperienza artistica e di quella risonanza tra opera d'arte e spettatore che può arrivare alla vertigine, cioè all'esperienza del sublime? Massimo Carboni affronta il problema attraverso una ricostruzione storica del concetto, a partire dai Greci. [Il sublime è ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Roma, Castelvecchi, 2003, pp. 126] Ma è a Kant che Carboni fa riferimento, come in pratica continua a fare quasi tutta l'estetica contemporanea, per cui, accertato che "la sublimità non va cercata nelle cose ma nel nostro animo", va detto che essa non nasce soltanto dal bello (come ha ritenuto l'estetica neoclassica e idealista) "ma anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell'illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità." Affermazione che per molti fonda le esperienze artistiche moderne e contemporanee in tutte le loro parabole e che, ad un certo punto della storia dell'arte - aggiunge Carboni - incrocia l'estetica del brutto "nelle dimensioni dell'orrido e dell'innaturale, fino agli eccessi facili e spettacolari del gore e dello splatter, pratiche "basse", in cui il neogotico è frammisto al terrorizzante; tutti motivi riscontrabili a partire forse da certe poetiche surrealistiche, in alcune tendenze estreme della body art e del teatro sperimentale d'avanguardia, nella letteratura fantastica a sfondo ipertecnologico e in certa cinematografia di consumo dai plateali effetti emotivi." Naturalmente questo nuovo sublime non esclude il bello, ma convive con esso secondo ingredienti psicologici, emozionali, di gusto piuttosto diversi dal passato, che ci fanno ritenere bella un'opera. Tuttavia rimane una differenza di grado: il bello ci cattura, il sublime ci travolge. [Marcella Tarozzi, La bellezza del sublime, in Parol. Quaderni d'arte e di epistemologia, 2004]
Ora, ribadito che quel punto di incrocio tra informe ed estetica del brutto nasce dalla rivoluzione tenico-scientififica di fine Ottocento e del Novecento, cosa diventa l'illimitatezza di cui parla Kant? Diventa, secondo Carboni e seguendo lo sviluppo delle esperienze artistiche contemporanee, "la costitutiva inadeguatezza del linguaggio alla realtà, l'incommensurabilità di fondo tra cosa e parola." Diventa cioè il luogo in cui l'artista cerca di catturare l'inesprimibile. Si compie qui, nel Novecento, il totale rovesciamento dell'estetica dell'antichità classica espressa nello Pseudo Longino, per il quale nel sublime si ricomponeva eros e logos, poesia e pensiero, pathos e razionalità. Questa ricomposizione non è apparsa più possibile alla contemporaneità e il sublime diventa in Carboni (che qui segue Freud) il perturbante, che non può che ricollegarsi alla morte. Vita e morte fondano l'esperienza artistica come i segnali di un oscilloscopio che si incrociano, si sovrappongono e si distanziano di continuo alla ricerca di una possibile fusione che tutto spieghi, senza potersi mai realizzare davvero. È qui che si innesta molto del misticismo dell'arte contemporanea e la ricerca di una ragione altra che sveli le cose nella loro nuda semplicità, così che - citando Nietzsche - costringa il proprio caos a diventare legge e a partorire una stella. La trascendenza riappare allora in modo prepotente nell'arte contemporanea, questa volta non come riferimento e servizio ad una religione ma come religiosità dell'arte stessa. C'è molta assonanza, in una tale traiettoria, tra questo atteggiamento e la razionalità critica, che ricerca nel mondo il senso del mondo e che lo fa non escludendo l'approccio dell'emozione. E qui c'è un nuovo incrocio con la tecnologia, se pensiamo alla rivoluzione compiuta nel Novecento con l'astrattismo, che rappresenta un filone ormai ineliminabile del fare arte e di riproporre tutti gli interrogativi sul significato dell'estetica.
La tendenza della pittura contemporanea all'astrazione, secondo Renato Barilli, non sarebbe dovuta tanto scelte di carattere intellettuale o ad un desiderio di sperimentazione riservato a poche élites, quanto ad un processo di anticipazione delle tecnologie mediatiche (immagini analogiche e digitali), le quali ultime, in particolare, riducono la profondità ed esaltano il contorno e la superficie (il cosiddetto colore à plat). [Perché l'arte contemporanea ha scelto l'astrazione, Conversazioni di storia dell'arte, 2005]
In effetti, c'è una somiglianza straordinaria tra il sistema dell'immagine elettronica, composta di pixel, e i procedimenti dell'arte musiva bizantina, per non parlare, ovviamente, della più vicina e congruente sperimentazione divisionista e pointelliste. Dall'esperienza divisionista si dipartono numerosi filiazioni ed elaborazioni che vanno dal Futurismo a Mondrian, da Paul Klee a Rotko. Mi riferisco insomma a tutti i tentativi di scomposizione o di riduzione coloristica in tessere per rappresentare il mondo oggettivo e soggettivo. Ma, attenzione, è stato giustamente avvertito che il termine astrazione è piuttosto ambiguo, perché anche la rappresentazione naturalistica è un'astrazione: è un tentativo di riproduzione della realtà attraverso un trucco. Trucchi sono i pixel del computer, come le pennellate su una tela; trucco è la prospettiva bidimensionale inventata nel Rinascimento, come trucco è il Cubismo o il ready made. L'obbiettivo è sempre lo stesso, è quello di richiamare alla memoria esperienze o sensazioni esperite attraverso altre vie sensoriali e in contesti diversi. Anzi, a rigore, come è stato ancora osservato e rivendicato da quasi tutto l'astrattismo, è quest'ultimo che è concreto in quanto crea un oggetto, una visione che non esistono al di fuori di se stesso, che non rinviano ad altro che a se stesso. Quella naturalistica è invece una rappresentazione di qualcosa che non coincide con se stessa, che allude ad altro, che sta per qualcosa d'altro. Insomma, è un simbolo, un'operazione di astrazione, appunto.
Per non parlare poi dell'osservazione di Luciano Anceschi di tanti anni fa che "parole e toni e colori e linee sono astrazioni fisiche; e soltanto nell'astrazione si riesce a distinguerli. Nella realtà chi guarda un quadro con gli occhi, lo parla anche verbalmente con se stesso."
Entriamo così anche nel continente della computer graphic - ma forse dovremmo più propriamente parlare di tecnoarte - la quale celebra il trionfo nel Web con un'inondazione di immagini originali o derivate, un diluvio di stimoli visivi non più filtrati e rarefatti attraverso l'acquisto di un libro o la visita ad una mostra. Tutti scodellati dai motori di ricerca in un anarchico e iperdemocratico diagramma di flusso non certo rispondente a criteri estetici. Dove la rappresentazione figurativa sembra sommergere, con la precisione delle sue riproduzioni e la vivacità dei suoi milioni di colori, l'astratto/concreto. Il quale, però, si ripresenta in sequenze infinite come sfondi, templates e free screen savers, con effetti spesso incantevoli.
L'umanità ha appena utilizzato pochi secoli per metabolizzare, rendere visione normale della pittura la restrizione in un quadro più o meno grande ma limitato da una cornice o dai bordi di una tela, che deve ora ristrutturare in modo permanente il proprio modo di vedere nella restrizione di uno schermo da sedici pollici o di un'icona ancora più piccola. In realtà, qui lo sforzo mentale di completamento dell'immagine per quanto riguarda la sua estensione, profondità e collocazione diventa inaudito, per quanto inavvertito.
Però il sogno ora è lì, catturato, riproducibile, manipolabile e anche in movimento, seppure non più fisico. E ora? Ora si è chiamati in causa e tutto si fa più difficile, perché occorre scegliere e, prima ancora, è necessario essere addestrati a scegliere, altrimenti ci si perde e la moltiplicazione esponenziale delle immagini diventa un indistinto rumore di fondo, mentre rischia di subentrare l'assuefazione, l'indifferenza, la banalizzazione, la sindrome dello zapping. È richiesta più cultura, più gusto, maggiore capacità immaginativa e più sensibilità. Il drammatico e irrisolto nesso quantità/qualità, che ha attraversato e attraversa tutta la formazione e l'affermazione delle società di massa e della civiltà industriale e postindustriale, si ripresenta sul nostro desktop, e noi siamo soli. Siamo soli di fronte ad un immaginario fisicamente rappresentato, moltiplicato e per ciò stesso, come ho detto, banalizzato. Siamo nel bel mezzo di un nuovo shock estetico.

Secondo percorso parallelo

Corpi sognanti Body art Damien Hirst Art Now 1 Art Now 2

Riprendiamo lo stesso itinerario, questa volta tenendoci, per così dire, sul lato delle esperienze artistiche, più che della discussione teorica. Ma non prima di osservare che anche Lorenzo Taiuti [Corpi sognanti. L'arte nell'epoca delle tecnologie digitali, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 247] conferma che la ridefinizione in corso dell'arte si presenta piuttosto come un operare creativo, ampliando così l'area di ciò che può essere considerato arte, destinata ormai a democratizzarsi, a portare il proprio ideale estetico nella vita quotidiana. Con ciò, osservo, le avanguardie novecentesche che si proponevano di estetizzare la realtà hanno in sostanza vinto, sia pure su versanti non prevedibili. Anche per Taiuti il canone delle ipertecnologie, che sta ristrutturando le nostre facoltà percettive, va in sostanza integrato con l'espansione della genomica. Tanto da chiedersi: "La creazione di nuovi prototipi genetici entrerà a far parte delle funzioni estetiche come lo studio architettonico nel Rinascimento? Inventare provocatoriamente modelli di animali transgenici può diventare una "funzione d'artista"? E quali limiti si pongono a una esplorazione estetica dentro le biotecnologie?"
In effetti, è ormai da qualche decennio che l'arte si è concentrata su tutto ciò che riguarda una nuova corporalità, dapprima sul versante del trasferimento dell'arte nel vivo del corpo umano e poi nell'assunzione della genetica come terreno di sperimentazione estetica, sotto forma di icona, di indice e di simbolo (Dorothy Nelkin e Suzanne Anker).
Lea Vergine [Body art e storie simili, Milano, Skira, 2000, pp. 293] ha esplorato la più recente espressività artistica attraverso l'uso del corpo e le sue modificazioni o camuffamenti, tendenti a mettere "allo scoperto l'organizzazione mostruosa del reale e tutte le nostre infermità". La tendenza della body art, sembra ormai aver compiuto il proprio specifico ciclo. Perché parlarne, allora, in relazione all'evoluzione artistica del XXI secolo? Perché essa ha avuto un'influenza visibile proprio sullo sviluppo di alcuni stili rappresentativi successivi e perché nel suo voler essere un'anti-arte ha anticipato la realtà nella dimensione oscena delle recenti immagini di tortura e nella manipolazione del corpo umano, come anche nel cercare di coinvolgere il pubblico. Qui il corpo è utilizzato, modificato e stravolto in operazioni artistiche, che rappresentano bene il tentativo di dissolvere la sacralità dell'arte nel vecchio assunto di Marcel Duchamp che "tutto è arte".
Ma nelle manipolazioni fotografiche, nelle performances, negli esercizi al limite della possibilità fisica, in queste associazioni di immagini disturbanti c'è qualcosa di più. C'è il tentativo di banalizzare e contemporaneamente allertare sul sempre più ampio uso della chirurgia estetica, sull'innesto di protesi, sulla medicina ricostruttiva e sulla prospettiva della simbiosi uomo-macchina (il cyborg di cui abbiamo parlato nel precedente Labirinto). Gli esponenti più conseguenti e interessanti di questa tendenza sono rappresentati da Stelarc, un performer australiano che al grido il corpo è obsoleto, sperimenta innesti e protesi biologiche ed elettroniche sul proprio corpo; da Marcel-Lì, artista catalano che percorre sostanzialmente gli stessi itinerari servendosi di mezzi espressivi diversi, ma sempre con l'obbiettivo di illustrare il rapporto tra corpo umano e robotica; e, infine, da Orlan, un'artista francese che si sottopone a interventi chirurgici documentati dalla cinepresa per apportare modifiche al proprio aspetto, alla ricerca di una continua metamorfosi fisica e identitaria.
Ma l'impatto più immediato del discorso biologico e delle tecnologie connesse sull'arte del XXI secolo, è associato a una dimensione internazionale dell'arte (se vogliamo, alla globalizzazione) e alla denuncia di una feroce condizione sociale che rischia di ottundere e di far regredire la nostra sensibilità umana.
Se l'arte, "come la scienza diviene bisogno e derrata internazionale" - affermava ancora Paul Valéry negli Scritti sull'arte del 1934 - allora il movimento degli Young British Artists (YBAs) può essere assunto come emblema dello scenario transnazionale in cui deve essere ormai usufruita e interpretata l'opera d'arte, qualsiasi cosa voglia ormai significare questa espressione. Nonostante gli YBAs non siano più sostenuti da un potente collezionista come Charles Saatchi, essi rappresentano un'ottima sintesi della transizione al XXI secolo. Una panoramica storica di questo filone e degli artisti che vario titolo che vi hanno fatto capo può essere letta nella voce inglese di Wikipedia. Anche se solo alcuni di essi illustrano bene le tesi di questo Labirinto, non c'è alcun dubbio che, nel loro complesso, essi ancora rappresentino il più significativo osservatorio del mutamento del rapporto tra arte e realtà che si avvia a contrassegnare questo secolo.
Qui, in particolare, mi preme segnalare Damien Hirst, forse il più noto, che ha recentemente tenuto con successo una retrospettiva al Museo Archeologico Nazionale di Napoli [E. Cicelyn, M. Codognato, M. D'Argento (a cura di), Damien Hirst, Catalogo della Mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli (30 ottobre 2004-30 gennaio 2005), Napoli, Electa, 2004, pp. 263]
L'estetica di Hirst è un nuovo grottesco, se vogliamo un disturbante stimolo visivo che però non affonda l'ispirazione nella fantasia ma nella genetica e nella sua interazione con la società, specialmente dal punto di vista del commercio ormai universale. Nonostante le sensazioni sollecitate da un primo sguardo, quello di Hirst è un riscatto dal basso materialismo, perché - per dirla con Bataille - qui "il desiderio di vedere finisce col prevalere sul disgusto o il terrore". I due poli attorno ai quali oscilla Hirst sono l'asettico e il brutale, ma sempre attorno al perno della morte e della vita, attraverso corpi dissezionati o imprigionati nella quasi-eternità di un museo zoologico. La violenza dell'operazione artistica echeggia semplicemente la violenza sociale e della condizione umana, così come si è venuta organizzando in società neoliberiste. Anche quando espone la serie dei cabinets, con la banalità del loro ordine geometrico, degli strumenti chirurgici freddi e lucenti, la loro asetticità possiede un che di sinistro. Hirst geometrizza, disinfetta l'allusione alla vita e pietrifica la morte. Anche quando, di fronte al dissezionamento degli aninali non possiamo non pensare ai mattatoi. Qui l'effetto di straniamento raggiunto dall'artista è massimo e colpisce alle radici l'umanesimo tradizionale, quello per cui l'orrendo è sublimato e la realtà è velata da un discorso alto. Qui sono le patologie delle società umane che sono messe in mostra.
L'opera d'arte è tale se ci sollecita, nel senso che è capace di aprire nei nostri circuiti neuronali un processamento che tende a ricercare un senso e, per così dire, a normalizzare entro schemi predeterminati - in quanto frutto dell'esperienza e di facoltà innate - ciò che vediamo. Se questa operazione non riesce, se il circuito non si chiude, se nella nostra mente continua a risuonare un disturbo, allora la nostra attenzione rimane aperta e si avverte un disagio o una curiosità che lasciano irrisolti un interrogativo che continua a circolare nel nostro cervello come il pezzo asimmetrico di una macchina che non riesce a incastrarsi e a funzionare in nessuna parte dell'ingranaggio. Forse, quel pezzo che non trova la sua collocazione allude ad altro; forse è qui che s'innesca la sensazione del sublime. Che è in realtà una messa in quarantena dell'orrore. Come nel caso degli insetti di Hirst, ordinati e diligentemente incollati sulla tela (un'operazione di ordine) che contrastano con la ripulsa che producono normalmente le mosche o con l'idea di felice seppur breve della libertà delle farfalle.
Da questo punto di vista, ho pochi dubbi che si tratti di arte vera - nonostante sia stata e sia sostenuta da potenti configurazioni di mercato - poiché essa, in questo suo carattere disturbante, si addossa una responsabilità morale precisa: quella di svelare la ferocia della realtà e l'alienazione che accompagna l'uso degli oggetti più quotidiani. C'è un mondo parallelo che ci interpella, che richiama la nostra intorpidita attenzione, sollevando ancora una volta il tema della vita e della morte, scavalcando la patina autoreferente e priva di senso prodotta dall'industria culturale e dai cosiddetti reality shows. In Damien Hirst, la violenza nuda della rappresentazione non è un atteggiamento che civetta con la moda del trash o la ricerca dei qualche furbo viottolo per scandalizzare il senso comune, ma è precisamente un avviso al senso comune a specchiarsi e a riconoscersi per quello che è: un velo ideologico che copre e deforma la realtà della vita (biologica, sociale e politica). Anzi, è lo stesso senso della vita inverato nella quotidianità che ne deforma i caratteri, fino alla ferrigna brutalità della carne messa sotto formaldeide, la quale appare come la vera base che sostiene l'avventura umana.
Nella maggior parte degli YBAs e dei giovani artisti che si sono affacciati nel XXI secolo, c'è anche un prepotente ritorno del figurativo, forse grazie all'affermazione della digital art. La facilità di passaggio dal figurativo all'astratto e ritorno, transitando attraverso una rappresentazione alterata, la deformazione o la schematizzazione delle figure e degli oggetti, non è più semplicemente un'affermazione della soggettività dell'artista nel vedere le cose (come ha predicato la gran parte delle avanguardie del Novecento). Essa è il frutto, ormai consolidato, di un tentativo di guardare oltre, di far incontrare soggetto e oggetto spogliandosi da tendenze mimetiche e da eccessivi concettualismi.
Una panoramica più generale delle tendenze generali, pur sempre frutto di una selezione dei curatori, è contenuta nei due volumi trilingue, editi insieme e separatamente da Uta Grosenick e da Burkkhard Riemschneider per la Taschen. Il primo [Art Now. 137 artisti alla svolta del millennio, 2002] e il secondo volume [Art Now. La nuova guida con 136 protagonisti del panorama artistico internazionale, 2005] sovrappongono solo molto parzialmente gli stessi nominativi e, in genere, con la presentazione di opere diverse, sicché il lettore può visitare una galleria di quasi duecento cinquanta artisti, per qualche migliaio di opere; il che rappresenta una selezione significativa di ciò che emerge oggi nel mondo dell'arte.
Difficile perciò, in poche righe, delineare in modo esauriente le tendenze in questo enorme database che è presentato per ordine alfabetico. Qui le immagini alle quali si rinvia sono quelle presenti nel Web.
Una prima, parziale ricognizione segnala alcuni artisti nel campo dell'ambiente-installazioni. Spesso l'estetica del paesaggio si concentra sull'effetto città, quasi a cercare una riposta alla domanda: se il panorama urbano è cresciuto casualmente, come si fa a sublimarlo in una visione d'arte? Eppure l'artisticità dei luoghi esiste annidata nella stessa macchina urbana. Vi accade mai, camminando in una qualsiasi città, di notare un dettaglio che ritenete fuori luogo, sbagliato e che vorreste non ci fosse? Può trattarsi della gente o della combinazione dei colori oppure di una cartaccia che magari non è nel punto giusto per creare un effetto... Insomma, state estetizzando la vostra visione. Nell'insieme, il panorama urbano può persino essere ricostruito con un effetto giocattolo, come mostra il congolese Bodys Isek Kingelez. Oppure con l'effetto assottigliamento di Won Ju Lim, che confina con il sogno o con l'esplosione coloristica di Franz Ackermann.
Altre volte, continuando i vari filoni della pop art o dell'iperrealismo, sono gli oggetti quotidiani, quelli che buttiamo via, come la ricevuta di cassa di un supermercato, ad attirare la nostra attenzione. Se isolati, se estratti dal loro contesto quotidiano e rispondenti ad un certo criterio di armonia, di simmetria e di distribuzione spaziale di scritte pur banali, acquistano una qualità artistica. L'impressione dura un attimo. La connessione sinapitca che ci ha fatto soffermare per un momento a guardarli scompare subito e la nostra attenzione si rivolge altrove. Qui l'arte mima il frammento quotidiano e per farlo non può presentarsi che con un'immagine fotografica. Il passo successivo sarebbe quello di ricostruire nella memoria l'eleganza o la sciatteria con cui la ricevuta fu presentata [Ceal Floyer]. Quasi una performance mentale.
Le opere spinte fino a rappresentare qualcosa che si rappresenta da se stesso, sono una reazione alla dematerializzazione della Rete, come nel caso di Sarah Morris, dell'etiope Julie Mehretu e di Vik Muniz. Se però gli oggetti sono tecnologici, il senso è un altro, è quello di un'affannosa corsa a cercare di fagocitare e sublimare artisticamente i frutti dell'industria, del consumo di massa [Manfred Pernice]. Come anche nel caso della ricostruzione di percezioni visive dei colori e dei pixel o nel tentativo di dare un ordine alla materia, anche quando si presenta sotto forma di disastro [Dirk Skreber].
Dentro l'artificio della città, accanto e mischiati agli oggetti di uso quotidiano, riappaiono i mostri. Ossia riappariamo noi nello specchio, come mostra la fotografa e sceneggiatrice americana Cindy Sherman, che riprende in parte la body art. Alla quale si ricollegano anche John Currin e Elke Krystufek, oppure i più noti Vanessa Beecroft, Paul McCarthy e i giganti di Ron Mueck. Dove il deformante rappresenta una transizione verso qualcosa d'altro e, insieme, uno strappo del velo che copre la condizione umana.

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