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6. Labirinti di lettura
Nel labirinto storico della Chiesa e della modernità

Il rapporto tra cattolicesimo e modernità rappresenta di per sé un labirinto complicato da percorrere, tante e diverse sono le interpretazioni sul tema, sia nel magistero della Chiesa, sia nell'elaborazione di storici e politologi di parte cattolica e laica. Ma la pubblicazione degli atti di questo convegno
[Franco Bolgiani, Vincenzo Ferrone, Francesco Margiotta Broglio (a cura di), Chiesa cattolica e modernità, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 325] ci aiutano non poco a formarci un'idea più precisa di vicende che hanno a che fare con l'attualità politico-religiosa e anche etica.
Si tratta, infatti, di un libro importante per capire cosa c'è davvero di nuovo nel rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno negli ultimi decenni (fino a Ratzinger) e come le varianti più avanzate del cattolicesimo democratico cercano di reinterpretare in questa luce categorie politiche come la democrazia e lo stesso sviluppo della storia negli ultimi secoli. Il testo è infatti arricchito da interventi e contributi di cattolici e di laici, molto interessanti seppure diseguali nella loro portata.

Bolgiani Mozzarelli Rawls

Tutto il libro ruota attorno all'ampia relazione introduttiva di Vincenzo Ferrone, il quale esplora le variazioni delle posizioni della Chiesa, a proposito dei valori e delle esperienze proposte dal mondo moderno, ricordandoci che "la Chiesa non ama presentare le sue secolari vicende in termini di discontinuità, di rotture. Le rivoluzioni, i mutamenti epocali sono fenomeni estranei alla sua cultura intrisa di costanti appelli alla tradizione, all'immobile magistero dei Padri, alle eterne certezze del Depositum Fidei, alla sua simbolica auto rappresentazione agostiniana di popolo di Dio peregrinante nella città terrena." Gli interventi cattolici in riposta allo scritto di Ferrone ruotano attorno al concetto che invece ci sono stati esempi di "rivoluzioni" nella Chiesa. Seguendo alcune delle tesi esposte dallo stesso Ratzinger (quando era cardinale), anzi, il passo successivo è quello già incontrato in altre mie recensioni dedicate al mondo cattolico [cfr. recensioni dei testi di Cesare Mozzarelli, Pietro Scoppola, René Remond e Vincenzo Ferrone, in questo sito]: la modernità sarebbe in realtà figlia del cattolicesimo. Sicché, "anche l'ethos dell'Illuminismo che tiene ancora insieme i nostri stati, vive dell'influenza postuma del cristianesimo, il quale gli ha trasmesso le basi della sua razionalità e della sua struttura interna." (Ratzinger, 1987).
Ma, obietta Ferrone, persino nella giustamente celebrata Pacem in Terris del 1963 "l'ordine morale - universale, assoluto ed immutabile nei suoi principi - trova il suo oggettivo fondamento nel vero Dio, trascendente e personale", sicché è del tutto da rifiutare l'idea che alla base delle società umane ci sia un'autonoma volontà degli uomini. "Certo – continua l'enciclica - non può essere accettata come vera la posizione dottrinale di quanti erigono la volontà degli esseri umani, presi individualmente o comunque raggruppati, a fonte prima ed unica donde scaturiscono diritti e doveri, donde promana tanto l'obbligatorietà delle costituzioni che l'autorità dei poteri pubblici." La critica all'autonomia del diritto positivo, come costruzione puramente umana, è peraltro da condividere qualora esso venga concepito, come accadde a cavallo dell'Otto-Novecento, come assoluto, cioè privo di imperativi morali, giustificando così giuridicamente persino gli esiti del totalitarismo. Ma qui si nega in radice l'esistenza di un'etica laica, persino quando è più rigorosa di quella cattolica, per affermare l'eterno stato di minorità degli esseri umani, bisognosi di un magistero superiore che ne regoli e disciplini il comportamento e la stessa vita politica e sociale. La tesi si appoggia ad una lettura dei disastri avvenuti nel Novecento come prova dell'incapacità dell'uomo di autogovernarsi in assenza di una legge divina mediata e interpretata ovviamente dall'autorità ecclesiastica. L'interpretazione è ancora quella delineata nell'enciclica del 1885 di Leone XII Immortale Dei contro i principi liberali (quelli che stessi che sono ancora alla base delle moderne democrazie occidentali) e nei successivi documenti di Pio XI, nei quali la lotta di classe feroce, famiglie e scuole senza Dio il nazionalismo cieco ed esasperato, miserie e guerre, odi inestinguibili, deriverebbero proprio dal fatto che leggi adottate nelle società umane sono senza Dio e Gesù Cristo. Riprenderò più avanti il nucleo essenziale di questo orientamento nella letturadella storia del Novecento, questa volta messo al servizio di un'interpretazione cattolico democratica e cautamente liberale del rapporto tra religione e società.
Insomma, non ci sarebbe nulla di davvero diverso nel pensiero cattolico prevalente, se non una relativa cautela del linguaggio, dai fondamenti delle idee medievali sulla riflessa santità del potere politico, in quanto subordinato a quello religioso (in quanto "dato da Dio"). Si continua l'insegnamento paolino, sottolinea Ferrone, "della minorità ontologica dell'uomo macchiato dal peccato originale, sull'accusa di aver alzato gli occhi e osato conoscere senza timori." Si riprendono gli insegnamenti del cinquecentesco cardinal Bellarmino sull'esistenza di una potestas più o meno indirecta della Chiesa sulla società civile. "Molto della Chiesa, in sostanza, è nello Stato, ma lo Stato non è mai nella Chiesa", chiosa Ferrone. Come poi si possa conciliare il santo Bellarmino, dottore della Chiesa (nel 1930-31), con l'inquisitore che portò Giordano Bruno al rogo e che notificò a Galileo Galilei la condanna dell'Inquisizione, da lui fortemente voluta, con le scuse espresse da Papa Giovanni Paolo II per la seconda vicenda, rimane uno di quei misteri della supposta continuità e non contraddittorietà della storia ecclesiastica cui si riferiva appunto l'autore principale del libro.
La teoria della potestas indirecta della Chiesa sullo Stato (quanto indiretta lo si giudichi dalle frequenti invasioni di campo avvenute di recente da parte della Conferenza episcopale italiana), viene peraltro confermata a proposito delle decisioni nella sfera etica da parte dei governi e dei Parlamenti nell'enciclica Evangelium Vitae del 1995, quella in cui si parla anche dei pericoli del relativismo, sul cui sfondo sta in realtà un attacco al pluralismo. La supremazia ecclesiastica in campo etico (che, si badi, è un campo senza precisi confini) riposerebbe sulla concezione dei diritti umani come derivati, come fondati nella divinità. E perciò tutelabili davvero e in ultima istanza solo dalla Chiesa.
Questo riconoscimento dei diritti umani, dei diritti dell'uomo, in sostanza, frutto delle rivoluzioni laiche degli ultimi secoli è piuttosto recente da parte della Chiesa (quindici anni dopo la loro proclamazione nella Carta dell'ONU del 1948) e contraddice una lunga raccolta di scritti ecclesiastici, teologici e di encicliche che ne condannavano senza appello la stessa nozione. Tuttavia, nonostante alcune riserve contenute ancora nella Pacem in Terris (a proposito di ragione e di retta ragione, per cui alcuni principi sono dichiarati non pienamente cattolici) si è trattato di una svolta fondamentale, preparata certo fin dagli anni trenta del secolo scorso dalla elaborazione del cosiddetto personalismo cattolico da parte soprattutto della cultura cattolica francese (Mounier, Maritain, e poi Daniélou), ma anche, in parte, dalle encicliche di Pio XI, con le quali cercava di difendere i diritti umani contro i totalitarismi nazista e comunista (più contro quest'ultimo che contro il primo).
Il personalismo si offriva, tra l'altro, come base per un modello organicistico e corporativo della società, negando in radice il diritto soggettivo della tradizione illuminista, pur essendo considerato dai cattolici tradizionalisti come un cedimento, come una specie di cavallo di Troia dell'illuminismo stesso. Ma, come mette in luce Franco Bolgiani nel suo intervento, se la matrice del personalismo è in Kant e nel filosofo francese
Charles Renouvier, allievo di Comte, esso trova la sua più splendida formulazione nel felice aforisma di Mounier "io non sono il mio individuo, io sono la mia persona". Ora, lasciando da parte le soffocanti visioni organicistiche della società è possibile che proprio la definizione di Mounier rappresenti il punto di sutura che supera ed amplia una nozione meramente individualistica dei diritti, e capace di ricollegarsi al contrattualismo liberale di John Rawls e di integrare e correggere gli aspetti storicamente più caduchi della vulgata marxista. Qui potrebbe essere possibile il ricongiungimento entro un orizzonte non trascendentale della visione laica del mondo con quella del cattolicesimo democratico. Ma, osserva Daniele Menozzi, il problema di fondo resta sempre quello dell'autonomia dell'uomo, laddove la stessa
Gaudium et Spes
del Vaticano II, allorché parla di autonomia dell'uomo nell'ordine temporale, la limita come giusta autonomia, dove il termine giusta non è riferito al contesto sociale (riallacciandosi ad una concezione laica di persona), ma al limite posto dal magistero della Chiesa, che rimane integralmente rivendicato (la "competenza delle competenze"). Del resto, il notevole contributo che lo stesso Maritain dette alla formulazione dei diritti dell'uomo della Carta dell'ONU, si arrestò di fronte alla sua rigorosa riserva alla Chiesa del compito "di fissare quando in un aspetto della vita collettiva entra in gioco quella dimensione morale davanti a cui il politico cattolico deve solo fare atto di obbediente sottomissione." Ancora una volta, è la questione dell'autonomia del giudizio lo scoglio principale.
Il conflitto interno alla cattolicità militante tra l'ala tradizionalista e quella più aperta al mondo trovò un primo esito con il Concilio Vaticano II, con la sconfitta parziale dei tradizionalisti. Tuttavia, il confronto non solo non è affatto terminato, ma si è ormai spostato, con gli ultimi pontificati, su un terreno nuovo, quello della "cristianizzazione della modernità", respingendone alcuni degli aspetti ritenuti meno accettabili e cercando di innestarne alcuni rami sul tronco del tradizionalismo ecclesiale. Il papa regnante è la massima espressione di questo tendenza.
Lo storico cattolico Paolo Prodi, chiamato più volte in causa dal relatore, interviene nel dibattito rivendicando con forza la sua rilettura della teoria dualistica del potere ("a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio") come base della modernità occidentale, non solo politica. Una base giuridica che, in Occidente, avrebbe permesso al potere politico di svincolarsi e di rendersi autonomo da quello religioso, aprendosi in seguito all'esperienza democratica. Inoltre, lo stesso Prodi segnala come la nostra civiltà sarebbe in pericolo se perdesse "la coscienza del dualismo di fondo che ne ha determinato le caratteristiche, nella distinzione e nella compresenza della storia umana e della storia della salvezza, nella separazione del potere, sacro e politico, prima ancora che nella divisione dei poteri." Purtroppo, non è questa la storia del cristianesimo romano.
La mia opinione è che le tesi sostenute da Prodi e da altri siano molto raffinate e suggestive (lo riconosce lo stesso Ferrone) ma che rappresentino una proiezioni a ritroso di qualcosa che è emerso con la modernità e contro la Chiesa, costringendo quest'ultima a cercare un nuovo terreno di interpretazione delle forme assunte dalle società umane ma non facendo affatto i conti con la sua precedente storia (la storia sacra sarebbe per definizione immobile). All'inizio, il cristianesimo fu dualista perché non aveva alternative (esistenza del fortissimo potere civile dell'impero romano) e si trattava di svincolarsi dalla tutela obbligata del culto imperiale. Ma da Costantino in poi, e più ancora da Teodosio (che fece del cristianesimo la religione di Stato), sacro e profano si sono abbondantemente sovrapposti e identificati, scambiandosi spesso i ruoli, sicché la storia è in gran parte una storia di lotta tra poteri e, nel contempo, di una loro alleanza organica e non di una loro distinzione. Una lotta per il predominio, insomma, che non è affatto terminata, almeno nel pensiero della gerarchia cattolica.
Peraltro, il paragone tra diverse esperienze religiose storiche viene immediatamente fatto (per esempio da Silvio Ferrari) con l'islamismo, per rivendicare la diversità dell'approccio cattolico alla questione dell'autonomia dello Stato. Ora, se di comparazioni dobbiamo parlare, in un'epoca come questa, sarebbe allora bene ampliare l'orizzonte anche ad altre esperienze religiose di portata mondiale, per scoprire che ci sono esempi di maggiore laicismo religioso (è il caso dell'ateismo originario buddista, del confucianesimo e di alcune correnti induiste), come anche di maggiore fondamentalismo. Inoltre, è solo molto parzialmente vero quel che sostiene Prodi e cioè che la Chiesa non è riuscita ad imporre una respubblica teocratica. Diciamo meglio che, appunto, non ci è riuscita pur avendoci provato spesso e localmente con successo (non su scala europea, certo, ma un occhio al profondo Medioevo non bisogna tralasciare di darlo). Se poi dobbiamo andare a fondo della questione, diciamo che la situazione attuale, specialmente in Italia è, ci sono alcuni aspetti della politica delle gerarchie ecclesiastiche non troppo diversi dall'integralismo di altre religioni e confessioni.
Osserva ancora Paolo Prodi - rivendicando un certo grado di pluralismo e la legittimità di posizioni autonome dal magistero ecclesiastico nella storia della religiosità cattolica – che "la nostra spiritualità e la stessa morale personale e collettiva del cattolicesimo italiano è costruita più su Rosmini e Manzoni che sulle encicliche papali dell'800." Con ciò cercando di svincolarsi da una troppo imbarazzante identificazione del cattolicesimo con le più aspre prese di posizioni della Chiesa contro il mondo moderno. Ma, ribatte nel suo intervento Giovanni Miccoli (uno dei più accreditati storici del cristianesimo), è sbagliato estrarre filoni dal conteso complessivo, perché se è stato giustamente detto "che la realtà della Chiesa non è riducibile al magistero [...] va aggiunto che tale affermazione richiede una serie di precisazioni ulteriori, nel senso che le varie posizioni ed esperienze operanti nella Chiesa non presentano tutte lo stesso peso, la stessa autorevolezza, la stessa ampiezza di coinvolgimento..." È il magistero ordinario della Chiesa la corrente principale che ha spesso e volentieri emarginato ed espulso dalla cultura cattolica più diffusa posizioni ed atteggiamenti di apertura al mondo moderno. Per quanto mi riguarda, me ne dispiace molto, ma non fino al punto di rovesciare retrospettivamente i rapporti di forza così come si sono in effetti espressi e le vicende storiche, falsificando il senso di ciò che è stato. Insomma, i giansenisti nell'ambito del mondo cattolico (specificamente quello italiano) hanno perso e rivendicarne l'esistenza non può servire a costruire una diversa origine e tradizione delle libertà civili. Massimo Firpo aggiunge infatti di essere consapevole della complessità e delle articolazioni storiche del mondo cristiano (protestante e anche cattolico), "ma ciò non autorizza in alcun modo – che si studi il passato o si cerchi di capire il presente – a eludere il fatto (non propriamente irrilevante) che la Chiesa è anche istituzione, gerarchia, magistero, e come tale parla e agisce, insegna e opera nella società, impartendo norme dottrinali e morali." Conclude ancora Giovanni Miccoli, "ciò che è stato elaborato dal Concilio Vaticano II, che ha aperto molti orizzonti e creato situazioni nuove, non mi serve per capire ciò che è avvenuto 100 o 150 anni fa." Tanto più che i fedeli venivano allora definiti sudditi dal catechismo per adulti.
Infine, Paolo Prodi osserva in buona sostanza che dopo tutto quello che è successo nel Novecento non è possibile esaltare acriticamente l'illuminismo. Quel che è accaduto di tragico in quel secolo sarebbe il frutto proprio dell'autonomia di giudizio pretesa dall'uomo e dell'estromissione del sacro dal suo orizzonte. L'osservazione – come abbiamo visto - non è nuova nella tradizione cattolica novecentesca, ma pecca perlomeno di senso della prospettiva. Le ragioni di quel che è successo del Novecento sono infatti piuttosto complesse e, soprattutto, sono il frutto della combinazione dell'avvento delle società di massa e di una travolgente rivoluzione tecnico-scientifica che ha messo a disposizione dell'umanità mezzi di distruzione inauditi. [cfr. il mio saggio Prospettive del Novecento su questo sito].
Vale in questo caso la controprova di un esperimento "mentale". Mi verrebbe da chiedere: per caso le epoche del predominio ecclesiastico, anche secolare, sono state "rose e fiori" dal punto di vista della guerra e delle stragi? A parte la diretta partecipazione della Chiesa ad alcune vicende assai distruttive, se a quel tempo fossero stati disponibili armamenti e tecniche così micidiali, si pensa che non sarebbero state usate grazie alla presenza del sacro nell'orizzonte politico e civile? La massima espressione di una tale presenza si è manifestata nel Medioevo. Vogliamo parlare di ciò che è successo in quell'epoca? Imputare all'illuminismo e non, caso mai, al suo tradimento o travisamento, le tragedie del Novecento appare davvero un'operazione tesa a ricostruire una nuova tradizione storica che giustifichi posizioni politico-culturali attuali e, nello stesso tempo, copra con un velo la pervicace antimodernità del magistero ecclesiastico. Del resto, non c'è alcun bisogno di rifarsi alla nozione di assenza del sacro per interpretare, anche severamente, una parte grande di ciò che nel Novecento è accaduto.

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