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7. Labirinti di lettura
Chiesa extraparlamentare: il controllore autocontrollato

In un certo senso, questo Labirinto è la continuazione del precedente, in cui abbiamo esaminato i percorsi storici del rapporto tra Chiesa e mondo moderno. Ora un agile libretto, che non è una novità editoriale ma che per fortuna è ancora in commercio, ci può aiutare a completare il giro del Labirinto, senza per questo, ahimè, trovare ancora la via di uscita.

Chiesa Concilio

[Sandro Magister, Chiesa extraparlamentare. Il trionfo del pulpito nell'era postdemocristiana, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2001, pp. 114]. In questo testo non c'è contraddittorio, ma Sandro Magister è notoriamente un accreditato vaticanista il cui sito andrebbe (ed è) molto frequentato per conoscere i movimenti meno decifrabili interni alla Chiesa cattolica, specialmente per quanto riguarda la gerarchia ecclesiastica e i suoi orientamenti etico-politici. L'agilità e la brevità del libro nulla tolgono all'essenzialità delle sue argomentazioni. Anzi, è davvero raro imbattersi in un testo che misurandosi con una ricostruzione storica, oltre che con l'attualità, riesca a mantenere quell'asciuttezza, credibilità e completezza dell'informazione che sono le migliori caratteristiche di questo autore.
C'è a mio avviso solo una precisazione da fare, quando all'inizio, parlando del Novecento europeo, l'autore scrive che tutta la famiglia di partiti che si sono denominati cristiani, salvo alcuni intervalli di tempo, "ha dettato legge per un secolo buono". Ora, questo è vero ma solo a partire dal Novecento inoltrato, con la seconda guerra mondiale a fare da spartiacque per un loro ruolo ben più incisivo. Non che in precedenza i partiti cristiani e il Vaticano possano chiamarsi fuori dalle responsabilità che pure hanno avuto nelle vicende del tempo. Del resto, le diverse strategie messe in atto dalla Chiesa nei confronti della modernità sono significativamente messe in evidenza dagli stessi titoli dei capitoli del libro, dove la loro traiettoria è contrassegnata dai seguenti passaggi: dal pulpito al partito, per poi occuparsi di vita miracoli e morte del partito cattolico, e concludersi con un dal partito al pulpito, che segna in pratica un ritorno alla strategia inaugurata da Pio IX e continuata dai successori in un prima fase della modernità. Una strategia in cui la Chiesa si impegna direttamente, senza intermediazioni, nella lotta politica e negli affari pubblici, in nome del suo magistero. Perché, come ha ricordato papa Wojtyla riprendendo Giovanni XXIII, "la Chiesa ha il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell'ordine etico e religioso, ma anche di intervenire autoritativamente [c.vo mio] nella sfera dell'ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell'applicazione di quei principi ai casi concreti." Nulla di molto diverso, nella sostanza, dalla proposizione ventisette del Sillabo di Pio IX in cui si sanciva come errore l'opinione che "I sacri ministri della Chiesa e lo stesso Romano Pontefice si debbono al tutto rimuovere da ogni cura e dominio delle cose temporali." Certo, come si dice, molta acqua è passata sotto i ponti, molte cose sono cambiate e il linguaggio si è adeguato ai tempi, tuttavia la continuità della tradizione rivendicata costantemente dalla gerarchia, come vedremo ancora più avanti, non si limita agli aspetti spirituali e pratici della religione, ma si estende ad una dimensione temporale ovvero di potere che con lo spirito c'entra assai poco.
La Chiesa ha rapidamente assorbito la fine dei partiti cattolici unitari e laddove se ne è presentata l'occasione – come in Polonia, scrive l'autore – il papa si è ben guardato dal proporne la costituzione.
La nuova strategia adottata è singolarmente parallela a tendenze e pulsioni esistenti nella società italiana, per esempio a proposito del successo di chi si presenta come alfiere dell'antipolitica, e consiste nell'indebolire e svalutare il momento politico come massima espressione di un progetto civile, sociale, economico e culturale, approfittando della debolezza ormai irreversibile dei singoli Stati di fronte ai processi di globalizzazione. Sarebbe interessante approfondire questo aspetto, ma andremmo troppo oltre l'ambito del saggio in questione. Sta di fatto che Paolo Donati, un autorevole esponente della cerchia di Ruini e autore di una pericolosa teoria che sta avendo molto successo, per cui la società civile è altra cosa dalla politica e che è quest'ultima a dividerla, scriveva che "la prospettiva del prossimo secolo è quello della società civile che deve riappropriarsi in prima persona delle scelte morali, ed esprimere le indicazioni politiche di volta in volta e su soggetti politici che possono cambiare nel tempo." Dove, se l'idea è quella di una società civile per definizione virtuosa (quella italiana, poi!) siamo di fronte ad una caricatura. E ciò senza nulla togliere al fatto che esiste per davvero una parte della società civile più o meno virtuosa. Ma mentre si sottintende che i partiti politici sono una semplice superfetazione di politicanti, ovviamente la Chiesa e le sue strutture farebbero pienamente parte della società civile. Insomma, alla vecchia teoria andreottiana dei due forni (di destra e di sinistra) ai quali la DC poteva approvvigionarsi a seconda delle convenienze, si sostituisce quella della pluralità dei forni e dell'approvvigionamento just in time, come nei più avanzati sistemi produttivi.
Un secolo e mezzo fa, di fronte al crollo del regime temporale, all'affermazione dello Stato liberale e al lento e contrastato avanzare della democrazia, la Chiesa rispondeva – in tutta Europa, salvo che in Francia - con lo scontro politico-culturale frontale e con il radicamento sociale attraverso una ramificata presenza di associazioni e di organismi direttamente rispondenti alla gerarchia. La formula potrebbe essere sintetizzata così: Dal pulpito alla società. Fu allora che si affermò l'espressione di origine cattolica del Paese reale opposto al Paese legale, che ha fatto rifiorire e ha coltivato tenacemente la storica estraneità degli italiani alle istituzioni e alla collettività organizzata in Stato. Una responsabilità storica della Chiesa che non può essere cancellata e che continua a fare danni nei comportamenti molecolari della società civile e nei suoi diffusi costumi quotidiani. Ma anche questo problema ci porterebbe troppo lontano.
Comunque, proprio l'esperienza dei cattolici acquisita nella sfera sociale, la lenta selezione di gruppi dirigenti coscienti della propria forza e il panico dei ceti liberali di fronte all'avanzare del socialismo, allentarono, prima a livello locale e poi a livello nazionale, il permanente divieto del Vaticano ai cattolici di entrare in politica. La storia dei tentativi di formare un partito cattolico, in primo luogo quello di Romolo Murri, e le resistenze opposte dalla gerarchia ecclesiastica sono noti. Finché la cosa non riuscì al sacerdote Luigi Sturzo con la costruzione del partito polare (Ppi), ma con continue ingerenze e resistenze da parte della Segreteria di Stato vaticana e dei vescovi. Anche quando nel 1921 il Ppi ottenne un lusinghiero successo elettorale, diventando il secondo partito dopo i socialisti per numero di deputati, la rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica (espressione diretta del pensiero del papa e della Curia vaticana) criticò "il profilo e i metodi del nuovo partito cattolico", giudicandoli troppo simili a quelli del partito avversario [ossia ai socialisti]. Il fatto è che la formazione politica di don Sturzo non solo si era dichiarata aconfessionale, ma rivendicava che le proprie decisioni fossero prese attraverso il metodo democratico e non attraverso le istruzioni dirette da parte della gerarchia ecclesiastica. Poi sopraggiunse la crisi del governo Mussolini, che era andato al potere anche grazie alla benevola posizione assunta dal Ppi. Ma ben presto, nel partito cominciò ad emergere una volontà antifascista, cosicché fu abbandonato da molti cattolici conservatori. In seguito al delitto Matteotti il segretario dei socialisti Turati propose ai cattolici una collaborazione tra le due formazioni politiche. De Gasperi, allora segretario dei popolari sembrava possibilista, ma un articolo su La Civiltà Cattolica troncò sul nascere il discorso e poco dopo Pio XI espresse chiaramente la sua contrarietà all'ipotesi. "Il veto vaticano, scrive Sandro Magister, contribuì non poco a far fallire l'alleanza tra i partiti socialista e cattolico." Ossia l'unica alleanza politica che avrebbe potuto fermare il fascismo.
La storia successiva, fino alla seconda guerra mondiale, è tutta all'insegna della diplomatizzazione e non della diretta opposizione politica ai regimi totalitari di destra da parte della Chiesa [vedi il libro e la recensione su la Chiesa cattolica e il totalitarismo].
Con la fine della guerra risorgono i partiti cattolici in Europa, ma è ormai ampiamente documentata la scarsa convinzione delle gerarchie ecclesiastiche sulla nascita di uno strumento politico unitario dei cattolici, che per quanto questa volta non si definisse più aconfessionale, poneva pur sempre dei problemi di intermediazione politica tra il Vaticano e le istituzioni statali. L'esistenza di più partiti di impronta cattolica avrebbe lasciato la Chiesa più libera di muoversi e arbitra delle dinamiche politiche. Tanto è vero che proprio i due più influenti prelati vicini a Pio XII dettero il via libera, tra il 1943 e 1944, alla formazione del Partito della sinistra cristiana "animato da Franco Rodano, un intellettuale vicino al numero uno del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti." È da ricordare che i due cardinali (Ottaviani e Tardini) erano su posizioni fortemente conservatrici. Ma di fronte alla forza espressa dai socialisti e dai comunisti prevalse la linea dell'unità politica dei cattolici, cosicché per decenni la DC è stato l'unico partito democristiano europeo "in cui hanno convissuto una destra conservatrice e una sinistra riformista". (Giuseppe Vacca) Forse anche per questa ragione, la storia della Democrazia cristiana nei suoi rapporti con la Chiesa, specialmente con De Gasperi, è segnata dalla rivendicazione quasi costante di una certa autonomia della politica dalle continue invadenze ecclesiastiche. "L'anomalia del Pci è per De Gasperi la ragione dell'anomalia della Democrazia cristiana – scrive l'autore - rispetto alla tradizione degli altri partiti cattolici. Un partito unico, la DC, come unico è il suo legame con la Chiesa." E proprio per ancorare la stessa Chiesa ad una politica univoca nei confronti della nuova formazione politica, nei suoi principi costitutivi si dichiarava un partito confessionale, "come coalizione di uomini che intendono affermare l'integralismo della loro fede."I gruppi dirigenti, nel primo periodo, avevano per il settanta per cento "ricoperto cariche diocesane o provinciali nelle organizzazioni cattoliche, e quasi un terzo cariche di rilievo nazionale." Del resto anche i militanti più attivi, secondo un'inchiesta del tempo, provenivano per due terzi dall'associazionismo cattolico che aveva quindi funzionato per lungo tempo come palestra e scuola di formazione per prepararsi alla politica. De Gasperi difese comunque, entro i limiti per lui possibili, la sovranità del partito sulle scelte politiche contro le continue incursioni della gerarchia ecclesiastica.
La diaspora politica cattolica inizia sul serio attorno al 1976, quando nel primo convegno nazionale della Chiesa italiana, si dichiara la legittimità di scelte politiche diverse da parte dei cattolici, purché si rimanga coerenti con il messaggio evangelico. "È la revoca, la prima ufficiale, dell'investitura esclusiva data dalla Chiesa alla DC." Con la fine della DC, alcuni anni dopo, conseguenza del crollo dell'Unione sovietica, ma anche dei rivolgimenti tecnologici, geopolitici ed economici, di tangentopoli (e anche della decisione del PCI di trasformarsi in un partito diverso)- tutti fatti che l'autore cita rapidamente - cessa davvero l'unità dei cattolici, per quanto la Chiesa, e in particolare il cardinale Ruini, si adoperassero per ritardare se non per arrestare il processo. Per la Chiesa inizia un percorso inverso nella propria strategia politica. Poiché non era più praticabile lo schema dal pulpito al partito, si torna al pulpito e alla società. Uno schema interventista diverso da quello del passato per le mutate condizioni storiche e, soprattutto, grazie al fatto che i rapporti giuridici tra la Chiesa e lo Stato sono ormai fissati da un Concordato, per cui essa non deve più temere le incursioni delle autorità civili nella sfera ecclesiastica. Come avveniva con la politica antiecclesiastica del primo Stato unitario, quando la sede episcopale di Milano rimase vacante per otto anni e quella di Bologna per ventidue.
Questa nuova strategia, fortemente sostenuta dagli ultimi pontefici e da quello regnante, ha trovato nella CEI il suo braccio operativo. Gli interventi ecclesiastici nella materie più disparate della convivenza civile e anche negli affari pubblici sono andati crescendo, riuscendo davvero difficile catalogarli sotto la voce "spiritualità". Il martellamento è ormai continuo e se i laici sollevano obiezioni, si invoca il principio di tolleranza nei confronti di queste esternazioni come specifica virtù laica che non può essere contraddetta. Quella parte assai rilevante di popolazione che non accetta il "magistero" ecclesiastico deve tollerare questa situazione. Ma un comportamento simmetrico da parte dei laici nei confronti della Chiesa è denunciato come vetero-laico. Il che, naturalmente, non vuol dire nulla.
In altre parole, la denuncia di nuovo clericalismo non avrebbe nemmeno il diritto di essere sussurrata. Qualche giorno fa c'è stato una vera e propria sollevazione di scudi da parte dell'episcopato e della stampa cattolica (ed anche non cattolica) di fronte a critiche circostanziate, fatte con molta civiltà, alla politica del Vaticano in tema di diritti civili e sessuali. La critica alle posizioni del papa è stata in pratica equiparata ad un delitto di lesa maestà pretendendo un'asimmetria di parola e di espressione del pensiero tra laici e religiosi. Una cosa inaccettabile in qualsiasi paese civile. Altre volte si arriva alla banalizzazione del problema. Poco tempo fa, un esponente politico cattolico, di fronte al rilievo della nuova invadenza della gerarchia cattolica, ha osservato che essa ne ha tutto il diritto e che, del resto, anche organizzazioni sindacali e altre grandi organizzazioni sociali dicono la loro sulle questioni istituzionali e politiche. L'interessato non si poneva minimamente il problema che tali organizzazioni non sono autonome dall'assetto istituzionale del Paese, come nel caso della Chiesa; che sono soggette alla Costituzione italiana, al contrario della Chiesa; che i loro rapporti con lo Stato non sono certo regolati da un concordato tra ordinamenti sovrani, come nel caso del Concordato. Forse quest'ultimo comincia a stare stretto allo steso Vaticano? Sarebbe però un errore inaccettabile e un'assurdità se anche i laici seguissero il Vaticano sullo stesso terreno.
Qui si apre, piuttosto, una riflessione (che va oltre quanto scrive Sandro Magister) sul mutamento dei comportamenti dei soggetti in campo. Se la Chiesa può intervenire su tutto, come qualsiasi altra organizzazione sociale o politica nazionale, allora diventa inevitabile una "secolarizzazione" dei suoi rapporti con la società civile e politica. Per cui diviene anche legittimo, per credenti e non credenti, porsi il problema dell'organizzazione interna della Chiesa e della sua rispondenza ai principi sanciti dalla Costituzione repubblicana. Il limite essenziale che da essa viene posto agli organismi collettivi è la dotazione di uno statuto democratico. Se la Chiesa diventa un soggetto tra i tanti, tanto da frequentarne gli stessi ambiti temporali, allora è lecito chiedersi se essa rispetta le prescrizioni costituzionali. La risposta è ovviamente no. In essa non vale il principio repubblicano né democratico, per non parlare della discriminazione sessuale su cui si basa la sua organizzazione, oppure della assoluta opacità del diritto e delle procedure processuali adottate in numerosi casi. A questo punto, sembrerebbe paradossalmente legittimo e affatto irrispettoso promuovere una campagna "elettorale", ad esempio, circa l'elezione e non la nomina dall'alto del presidente della Conferenza episcopale italiana, oppure porsi il problema della parità di genere per l'accesso alle cariche ecclesiastiche, e così via. A tanto potrebbe portare il paradosso della Chiesa che si fa attore politico nella sfera civile, praticando così quel principio di reciprocità che i cattolici chiedono, ad esempio e giustamente, nei confronti di altre religioni.
Naturalmente c'è un confronto interno alla comunità cattolica, anche su questi temi, ma come è ormai prassi consolidata nella storia della Chiesa, esso appare molto cifrato, condotto con passo felpato difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori. In quell'ambito l'attenzione sembra concentrarsi sul senso delle innovazioni prodotte dal Concilio Vaticano II. Dove l'interpretazione oggi esplicitamente prevalente negli ambienti di Ruini pongono l'accento sulla continuità, negando che il Concilio abbia rappresentato una cesura con il passato. Non si tratta solo del tradizionale approccio ecclesiastico che non fa mai davvero i conti con la propria storia, ma di una pietra angolare necessaria per sostenere proprio quella politica di intervento diretto dal pulpito, descritta così efficacemente da Sandro Magister. Se non c'è stata cesura, se le vicende ecclesiastiche non possono essere storicizzate in nome di una compresente continuità che allude all'eternità, allora sono ancora validi, certo aggiornati, gli schemi di aspro confronto con la modernità (o post modernità che dir si voglia) e di invasione di campo organizzati dai pontefici tra Otto e Novecento. Questo sembra suggerire lo stesso attacco – di cui Sandro Magister parla in un suo recente articolo - che il cardinale Ruini ha recentemente portato alla interpretazione che il cattolicesimo democratico ha dato del Vaticano II dichiarando: "L'interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un'interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità". La critica è diretta alla storia scritta da Giuseppe Alberigo di cui è leggibile, al di là dell'edizione monumentale, una sintesi in Breve storia del concilio Vaticano II, Bologna, il Mulino, pp. 201.

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