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3. Meccanica della fantasia:
Non tutti i turchi sono di carne e ossa

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Una cosa inanimata che si muove per conto proprio è autómaton, dicevano i Greci. Se poi quella creatura possiede un apparato meccanico dotato di facoltà che appartengono all'uomo, se cioè emula l'uomo nei caratteri della sua vita inimitabile, il nome di automa le spetta a pieno diritto.
Il primo automa che fantasia ricordi è femmina: quella Pandora realizzata con la creta da Efesto molto prima che iniziasse la storia degli uomini. Di professione fabbro, Efesto aveva forgiato tripodi semoventi per convegni divini, statue d'oro animate che lo servivano come schiave e perfino un colosso di metallo di nome Talos posto di guardia all'isola di Creta, creatura a mezza strada tra l'organico e il metallico, con un corpo di bronzo attraversato in una gamba da una vena sanguigna e in quel punto soltanto vulnerabile. Volendo punire sia Prometeo per aver rubato il fuoco e sia gli uomini che ne beneficiavano, Zeus aveva ordinato la creazione di Pandora: è lei che scoperchia il vaso stipato di ogni sorta di mali che, riversati sull'umanità, compiono la vendetta di Zeus. E menomale che nel vaso, oltre ai mali, c'è la fallace Speranza che, svolazzando anch'essa tra i mortali, impedisce se non altro il suicidio di massa.
Se Pandora, in quanto femmina ottenuta dalla creta, è un ginoide pseudo-meccanico, tutto il mondo antico conta automi favolosi. Ovvio che ad un certo punto ci fosse qualcuno che ne costruisse dei veri. Come Archita di Taranto, matematico del IV secolo a.C. che per primo creò automi reali: una colomba automatica e un cervo volante.
Dalle opere letterarie del Medioevo emergono frequentemente automi prodigiosi, forse pura fantasia ispirata a modelli letterari antichi, o forse descrizione di automi effettivamente osservati. Ma poiché in queste attività meccaniche la creatura sembra voler gareggiare col suo creatore, essi sono percepiti come empi e connessi alla magia. Le storie degli automi medievali sono perciò circondate da un'aura luciferina, che rende satanica ogni figura meccanica.

Gervase             Hawthorne

Ricordiamo soltanto la leggenda del mago Virgilio presente negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury (1213). Vescovo di Napoli, Virgilio aveva costruito una mosca meccanica che per molti anni tenne lontane dalla città le mosche vere. Poiché questo Virgilio non sembra essere mai esistito, la sua mosca è una vera fantasia meccanica. Come la farfalla che Nathanaël Hawthorne colloca nel racconto L'artista del bello (1844): vi si narra la storia di un orologiaio che, alla ricerca dell'assoluto, giunge a isolare la bellezza in una sensibile farfalla meccanica, creatura che scolorisce di fronte al dubbio.

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Hoffmann

I racconti di E.T.A. Hoffmann, scrittore la cui opera mette in primo piano lo spirito fantastico e allucinato del romanticismo tedesco, sono ricchi di invenzioni meccaniche. Nella novella L'automa, che fa parte della collana I confratelli di San Serapione (1819-21), appare il primo serio robot della letteratura. Si tratta di un turco a grandezza naturale, sontuosamente abbigliato e con la fisionomia di uno spiritoso orientale. Chi intende interrogarlo e ottenere risposta deve sussurrare la domanda nell'orecchio destro. L'automa ruota gli occhi, volge la testa e risponde sottovoce emettendo con le parole un alito, e dando così la sensazione che la risposta esca proprio dalla sua bocca. All'interrogazione del postulante l'automa fa seguire un movimento della testa, ma a volte alza il braccio destro in un cenno di minaccia o per rifiutare la domanda con un gesto della mano. Dopo un certo numero di risposte, bisogna infilare una chiave nel fianco dell'automa e ricaricare un congegno di orologeria. Un contiguo sportello si apre su un complicato groviglio di ruote dentate.

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Kurzweil

Nel racconto di Hoffmann, l'automa è turco, come se la fonte dello straordinario, il ricettacolo dell'ignoto, sia ineluttabilmente l'Oriente. Il fatto è che l'automa – macchina razionale – appare sempre come vettore dell'inusitato e del mistero, e questo delinea la sua saporosa contraddizione.
Turco parlante è anche l'automa che appare in un recente romanzo traboccante di meccanismi: La scatola dell'inventore dell'americano Allen Kurzweil. La storia di un ingegnere calato nella Francia dei Lumi e dotato d'inesauribile inventiva, uomo che spende le sue energie nel costruire orologi e – come tutti gli orologiai – anche automi meccanici, diventa una girandola di realizzazioni bizzarre. Tra queste spicca un Salvatore meccanico, ideato per muovere la testa, le braccia e per sollevare gli occhi al cielo. La difficoltà è nel riuscire a trasportare i fluidi, sangue e lacrime, necessari per dare all'automa un realismo ineccepibile. Viene ideato un sistema vascolare di tubicini di gomma con lacrime di olio di balena, finché qualcuno non fa notare che Cristo non pianse sulla croce e che dunque è una bestemmia pensare di far lacrimare l'automa. Rimane il sangue, prodotto con una miscela non coagulabile di cocciniglia. I canali vanno dalla punta dei piedi, trafitti con chiodi, alle mani, ugualmente trafitte, fino alle piaghe della corona di spine. Il serbatoio è controllato da una vite di Archimede collegata a un alberino: ruotandola, un pistone fa uscire il sangue dalle ferite predisposte. Quando però la domenica di Pasqua il capolavoro viene offerto all'ammirazione dei fedeli succede un pandemonio: dopo le esclamazioni di meraviglia per una riproduzione così verosimile, qualcuno aziona il meccanismo. Gli occhi senza lacrime si sollevano al cielo e il sangue comincia a sgorgare, prima dai piedi poi dalle mani e infine dalla fronte. Ma nel momento in cui l'attenzione cala ecco che il sangue continua a defluire sotto la veste del Cristo, scorre finché non ha inzuppato i paramenti dell'altare e macchiato il pavimento di marmo. Un ragazzino urla «il sangue non si ferma!» e i fedeli cominciano a mormorare preghiere e sgranare rosari: l'automa non ha funzionato e ha trasformato un miracolo meccanico in un miracolo reale.
Il romanzo converge sull'invenzione finale, quella del Turco parlante. I costruttori di automi hanno pensato di far giocare a scacchi le loro macchine, di farle suonare, scrivere, disegnare, ammiccare, ma mai di farle parlare. L'ispirazione giunge all'inventore dopo molti anni di meditazione, e proprio da uno dei famosi automi di Vaucanson: l'anatra che mangia, fa quaqua, digerisce ed espelle quel che ha mangiato. Ecco: dal deretano dell'anatra giunge all'inventore – in una simbiosi di meccanica e anatomia – l'idea delle labbra che parlano.
Vestito con un abito ornato di perline, il turco troneggia su una pedana: sguardo torvo, raggianti occhi di vetro, baffetti di seta. L'automa è composto da 2199 pezzi di cui 1789 servono per farlo parlare. Quando il meccanismo è azionato si sentono dapprima dei rintocchi, seguiti da un stridore di ingranaggi. Il turco si muove, batte i piedi, alza una spalla, gira la testa, solleva le sopracciglia, gonfia il petto come per respirare. L'inventore preme un pedale e libera aria che, tramite alimentatori e mantici, risale verso un somiere. Le labbra d'argento si schiudono mostrando una lingua di metallo, e con una lentezza esasperante la voce tanto attesa, leggermente distorta, scandisce quattro sillabe: «Viva il Re!».
1789 non indica soltanto i pezzi che permettono all'automa di parlare, anche l'anno in cui egli pronuncia quelle parole, l'anno della Rivoluzione Francese, il meno adatto per inneggiare a un monarca. Queste parole decretano infatti la fama e la sorte dell'inventore, che viene scaraventato alla Conciergerie, la prigione rivoluzionaria di Parigi, con questa accusa: il turco inneggia a un mostro incoronato e cospira pertanto contro la Repubblica. La giuria però non dichiara colpevole lui, ma la sua invenzione.
Si verifica allora il curioso evento per cui un'invenzione ne uccide un'altra: è infatti la moderna macchina per decapitare di Joseph-Ignace Guillotin che mette a tacere il Turco parlante. Una lama da ottanta libbre scivola lungo le guide e colpisce il collo dell'automa che, essendo forgiato in ottimo acciaio temprato, resiste. Un suono lamentoso si leva dal turco, l'ultimo da lui emesso. Il boia solleva la lama e la lascia cadere per la seconda volta: il nuovo colpo completa l'opera e la testa vociante, spiccata dal busto, ruzzola in un sacco di crusca.

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Pinetti

Sempre alla fine del Settecento fecero la loro comparsa gli automi del celebre mago Joseph Pinetti. Il loro valore di macchine di fantasia sorge dal fatto che appartengono a un tale che si esercita sul palco in spettacoli illusionistici. Si tratta insomma di macchine teatrali, e in quanto tali devono funzionare alla perfezione. Eseguono numeri talmente incredibili da sfidare le leggi della meccanica: un uccelletto meccanico che cinguetta arie su richiesta, una testa che dentro un vaso di vetro risponde alle domande del pubblico, un mazzo di fiori che sboccia a comando. Il pezzo forte di Pinetti è il Gran Sultano (detto anche Piccolo turco sapiente), che il mago non si limita a presentare come macchina ma fa partecipare come personaggio al gioco teatrale. Il Gran Sultano infatti rivela la carta scelta da uno spettatore scuotendo la testa e colpendo una campanella con un martelletto, oppure indica maliziosamente un vecchietto tra il pubblico quando gli viene chiesto chi in sala è il più innamorato. Anche qui, nell'intenzione di sollevare un moto di meraviglia, è usata la figura del turco, concentrato di sortilegi, magie, prodigi.

Nota bibliografica Libri

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