- Femmina da bordello! Meretrice! Strega! -. Tuona il vecchio, agitando la barba come Javeh nelle raffigurazioni dell'antico testamento. - È questa l'ora di tornare?! E io che per allevarti come una fanciulla dabbene ho perfino abbandonato le carte: quattro anni che non gioco più, eppure tu seguiti con la vita sregolata di chi non ha pudore, senza temere il giudizio di Dio e degli uomini!
Gli faccio disperati cenni di stare zitto, ma quando è partito non lo ferma nessuno. Così continua sullo stesso tono per altri dieci minuti, mentre, allibita sulla soglia della nostra porta, la dama benefica che ho intrappolato mezz'ora fa guarda la scena con gli occhi sbarrati.
Alla fine lui si cheta, ma è troppo tardi: la dama ha preso il volo.
- Accidenti a te - dico appassionatamente - se ti eri tappato la bocca prima, a quest'ora eravamo nella lista giornaliera della più pietosa e caritatevole dama di Firenze.
- Dama? Quale dama?
- Quella che io avevo agganciato in piazza del duomo, all'uscita della funzione. Le avevo detto che io e il mio vecchio padre vivevamo di carità, che non avevo trovato lavoro perché sono cagionevole di salute, e, insomma, tutta la tiritera. Ma tu dovevi fare il profeta proprio ora, e
così me l'hai impressionata.
- Tornerà? - fa lui timidamente, tirandosi nervoso la barba.
- Eh, l'hai già rivista! Se torna, quella torna con la forza pubblica, te lo dico io! E magari con la buon costume.
- Sei venuta a casa così tardi, e ne hai trovata una sola? - domanda ancora lui rannicchiandosi su se stesso.
- Non c'è abbondanza di dame benefiche, a Firenze. - rispondo laconica. E poi mi do da fare per ripulire un poco il cesso in cui viviamo, anche se so che è un lavoro inutile.
Il vecchio tossisce, in un angolo, e mi si stringe il cuore perché mentre si gratta vedo che gli sporgono dal torace magre costole a gabbia d'uccello, e penso che non ne avrà per molto: quando esce dal personaggio del "Padre" sembra quasi diventare più piccolo, come un vecchio bambino, e mi dispiace non avergli potuto procurare il tabacco che mi aveva chiesto.
- Mi hai portato il tabacco? - domanda lui, come se avesse seguito il corso dei miei pensieri.
- No.
Il vecchio tace, ora, e si raggomitola sulla sedia sgangherata, come un piccione un po' spennato, le spalle curve e la testa china.
- Fa freddo. - dice dopo un poco.
Già, fa freddo, accidenti alla miseria, e mi viene un fiotto di ribellione verso non so nemmeno io cosa. O meglio, lo so, ma sarebbe troppo lungo spiegarlo.
È novembre e fa già così freddo...
Mi rimetto lo scialle e torno fuori, dove il vento sputa nevischio in faccia ai disperati che sfidano il gelo, e dove le dame benefiche sono sparite del tutto, intente a sorseggiare un tè caldo e a mordicchiare delicatamente biscotti, davanti a un bel fuoco acceso. Ma le lacrime che mi scorrono per le guance e che mi asciugo rabbiosamente, sono provocate solo dal vento, non dall'autocommiserazione: non sono il tipo che si piange addosso, io.
Attraverso San Frediano e vado verso il centro. La mole di palazzo Strozzi è splendida nella sera e mi opprime un poco.
- Ehi, ragazza, vai cercando guai? - chiede bonariamente un poliziotto che, con l'occhio clinico del suo mestiere, mi ha visto veleggiare verso un distinto signore incappottato.
In effetti ero intenta a domandarmi quanto caldo potesse tenere il suo bavero di pelliccia, e quale storia sarebbe stata adatta a fargli scucire qualche soldo. Ma
il tutore dell'ordine ha strappato la mia innocente commedia sul nascere.
Sto per cambiare zona, quando il signore, che ha seguito la scena, dice al poliziotto: - La Signorina è con me, agente: avevamo un appuntamento. - Si toglie un guanto e mi prende una mano, portandosela alle labbra: - Che gelida manina... - canticchia. Poi si interrompe e mormora: - No, sicuramente Puccini è nato dopo.
Ha le dita calde e lisce, e mi viene in mente il povero imbroglione che mi aspetta a casa: ha smesso di giocare non per "allevarmi come una fanciulla dabbene" naturalmente, ma perché ha perduto completamente la sensibilità ai polpastrelli, e finiva col farsi spennare molto più spesso del dovuto.
- Se avesse le dita così... - penso.
Intanto lo sconosciuto mi prende sottobraccio e la lana del suo cappotto è meravigliosamente tiepida.
Ci dirigiamo verso Procacci, la cui vetrina brilla come un'oasi di calore nell'inverno, ed entriamo.
Naturalmente il commesso agita scandalizzato i suoi ridicoli baffetti e marcia su di me per buttarmi fuori, poi si ferma di scatto di fronte al controsenso di una sporca ragazza del popolo che inspiegabilmente è al braccio di qualcuno che lui deve conoscere bene. Infatti fa un
mezzo inchino e rispettosamente gli chiede se vuole il suo solito tè.
Ci sediamo ai tavolini di marmo.
La stufa di coccio spande un dolce, incredibile calore, e io resto istupidita, con la mia rabbia tutta liquefatta e gli occhi sgranati come se avessi due anni e mi avessero offerto le mie prime caramelle.
Per la prima volta guardo il tipo che mi ha schiuso la porta di Procacci: qualcosa di simile a un paradiso. E mi viene da ridere.
- Perché sorridi? - fa lui.
- Perché ho fatto un ardito paragone, signore: ho pensato a Procacci come al paradiso, e a lei come a un san Pietro fiorentino.
- Non sono un santo, davvero. Mi hanno chiamato in tanti modi, ma santo mai. E non sono nemmeno fiorentino. - dice il signore, e mi bacia di nuovo la mano piena di geloni, come se il gesto lo divertisse. Ho visto un attore, una volta, che aveva lo stesso atteggiamento.
Oh, be', so naturalmente che tutto ha un prezzo e che di solito vendo il mio tempo, i miei sorrisi e le mie chiacchiere per molto meno, ma mi sento triste, irragionevolmente: finora non avevo collegato questo miracolo con le solite cose.
Comunque, se gli va di giocare al conquistatore, d'accordo: sorrido all'uomo del mistero, e assumo l'aria professionale. Di solito per un poco va bene e riesco sempre a far finire la commedia "prima dell'irreparabile", come dice il vecchio.
Ma a questo punto lui sembra ritirarsi: ha capito perfettamente, e scuote la testa.
Accidenti: oggi vanno tutte male. Prima la dama e ora questo. Cosa ho addosso, la rogna? Eppure li aggancio così bene: cos'è che poi non funziona?
Getto un'occhiata di rimpianto alla stufa, e faccio per alzarmi: mai stata in paradiso a dispetto dei santi, io. Ma il tipo mi ferma prendendo una cocca del mio scialle e facendomi un sorriso amichevole. Così mi rimetto tranquilla, e penso tra me: - Forse riesco a rimediare un po' di tabacco, questa volta. - E confronto amaramente il torace che si indovina sotto il cappotto di panno del tipo, con quello teneramente incavato, pieno di ispidi ciuffi grigi, del vecchio che mi aspetta a casa. E torna, piena, la ribellione che il calore aveva smussato.
- Stai quieta - dice intanto lui - non voglio niente. La vita è dura per tutti, anche quando dal di fuori non sembra.
L'ho già sentita, questa solfa: meglio poveri ma felici,
che ricchi e infelici.
Già: solo che gli uomini sono tutti infelici. E per lo meno i ricchi sono infelici al caldo.
Bevo il tè che finalmente è arrivato e che profuma di estate, e assaggio i biscottini che il commesso ha appoggiato sul tavolo, in un vassoietto d'argento. E ascolto il vento, fuori, che fa tintinnare la vetrina.
- Una cosa, però, la voglio. - dice il tipo dopo un poco.
Io aspetto di sentire cosa tirerà fuori, perché, come dice il vecchio, la vita è una scommessa perduta, per quelli come me.
- Voglio che tu venga nel mio appartamento, e che tu mi parli un poco.
- Forse si sente solo - penso - forse vuole esercitarsi nella nostra lingua: ha detto di non essere fiorentino, e in effetti articola le parole come uno straniero... - Ma in fondo so che mi sto facendo stupide illusioni.
Ci alziamo e usciamo fuori: qualcosa ha mangiato. Adesso posso anche tornarmene nel mio covo. Ma il freddo mi rende debole, e seguo passivamente il signore, il san Pietro fiorentino, verso un altro tipo di paradiso.
Entriamo al Baglioni, l'albergo più bello di Firenze, e il portiere gallonato guarda il tipo con delusa, esacerbata
aria d'accusa. Probabilmente gli aveva proposto merce migliore, e vederlo rientrare con me, dev'essere uno smacco tremendo.
Rialzo il naso e mi accodo: - Petto in fuori, ragazza - mi dico - fai l'indifferente e infischiatene.
Però l'appartamento mi lascia a bocca aperta: accidenti è bellissimo e c'è un caldo talmente confortante che mi verrebbe da piangere, ma sul serio, questa volta.
Rimango impalata in mezzo alla stanza, con tutti i sensi tesi, e contemporaneamente mi accorgo di diverse cose: che il tappeto deve essere spesso almeno dieci centimetri, per esempio, e che ci sono fiori profumati nei vasi (fiori profumati in novembre!), e che una vestaglia di seta, bellissima, piena di merletti e di trine, è abbandonata mollemente su un divano. Dunque la mia virtù è salva, se c'è anche una dama qui dentro da qualche parte?
Invece il tipo mi indica la vestaglia, poi la stanza da bagno, e mi dice: - Per fortuna non mancano certe comodità, qui, e l'acqua tutto sommato è più pulita di quella che abbiamo noi. Fai un bel bagno caldo: ci sono i sali profumati, e mentre ordino abiti della tua taglia, puoi indossare quella.
"Quella", è la vestaglia di seta.
Mando al diavolo l'orgoglio (non ho mai saputo resistere alle tentazioni, forse perché ne ho avute poche e manco di allenamento). Mi inoltro nella stanza da bagno, grande come tutta casa mia.
L'acqua è calda, profumata. Ci rovescio dentro i sali e forse esagero con la dose, ma non ho la minima idea di quanti se ne usi di solito.
E poi, dopo aver chiuso la porta a chiave, scivolo dentro l'acqua con l'impressione che il paradiso ultimamente sia piuttosto a portata di mano.
Più che altro, per gradi successivi, ne sto assaggiando dosi sempre più massicce.
I geloni mi pizzicano: è un avvertimento. Prima o poi dovrò ricadere sulla terra, e sarà dura.
Eccomi: avvolta in una vestaglia di seta. Liscia sulla pelle come non credevo potesse essere nessuna cosa.
Il tipo mi guarda con approvazione, e lo specchio di fronte, tra stucchi e dorature, mi rimanda un'immagine straniera, e penso stupefatta che sembro quasi bella. Era dunque così facile? Bastavano un bagno, una vestaglia di seta e l'aria felice a rendermi bella?
Il tipo mi fa cenno di accomodarmi sulla poltrona accanto alla stufa: sembra aver capito la mia fame di
calore.
Ci sprofondo con gratitudine: ecco, di nuovo la ribellione è sparita, le mie armi sono tutte spuntate e non servono più contro questo genere di lusinghe.
- Com'è semplice renderci innocui... - penso.
E poi lui dice: - Dal momento che non esistono ancora guide turistiche, parlami della tua città, raccontami la tua vita, mi interessa conoscere più cose possibile. - e sembra un viaggiatore in visita a un luogo sconosciuto, qualsiasi cosa siano le guide turistiche.
- La mia vita non è in vendita - penso. Ma lo penso fiaccamente, indebolita dalla seta e dal calore, e senza neppure accorgermi che ho cominciato, mi trovo a parlargli di quando morì mia madre, e di quando il vecchio mi raccolse, stremata. (-"Io non ho nessuno - mi disse - "tu sei il mio investimento per il futuro"). E di come mi istruì in quello che sapeva e poteva: cioè ad afferrare destramente quello che la fortuna mette a portata di mano, perché può non ripresentarsi mai più; a raccontare balle convincenti alle pie dame; a mostrare un pezzetto di caviglia a certi signori in cambio di un po' di pane e di tabacco, e a volte a mostrare anche qualcosa di più, ma non molto, perché questa è merce che si svaluta velocemente, una volta usata, e ne va
tenuto di conto. - E la nostra - dico al tipo - è una città davvero particolare: una città di aristocratici e mercanti, duro orgoglio e bottega... - poi mi interrompo, è difficile spiegarsi: - Firenze - gli dico ancora - è anche qualche altra cosa: lo sai cosa si ripete in questi giorni a proposito del cambio di capitale?
- Quale cambio di capitale?
- Oh, caspita, ma il re, che dopo Torino aveva scelto Firenze come residenza, e ora invece va a Roma. Dove vivi tu, per non saperne nulla?
- Ah, sì, il re...
- Bene - proseguo - tutti dicono: Torino piange perché il principe parte, Roma ride perché il principe arriva, Firenze città dell'arte se ne frega se il principe arriva o se il principe parte.
Lui sogghigna un poco senza parlare, e c'è comprensione nel suo silenzio.
Io, come una diga finalmente aperta, come una cateratta, continuo a raccontare con incoerenza di me, di Firenze, del vecchio ( - "Adesso sono io a nutrirti - mi diceva - "ma non credere di magiare a ufo tutta la vita: quando avrai quattordici anni dovrai darti da fare tu per la pagnotta"), e questo diluvio di parole finisce per stupirmi, per stupire davvero anche me: non ho mai
buttato fuori tanta roba, giuro, prima d'ora, a parte quella volta che vomitai il pranzo di natale dei fratelli della misericordia. Allora il vecchio disse che fa male mangiare troppo dopo essere stati digiuni tanto tempo. Il tipo continua a tacere e la qualità del suo silenzio continua a essere calda e comprensiva come la stufa del suo appartamento. E sembra davvero interessato.
Alla fine una cameriera bussa alla porta e appoggia sul letto abiti, cappellini, stivaletti, velette, guanti di trina, manicotti di pelliccia, in una serie che sembra non avere fine, e io rimango seduta, esausta, e non so se sono svuotata perché l'acqua ha lavato via dal mio corpo il sudicio che lo proteggeva, o perché le parole hanno lavato via il contenuto della mia anima.
Il tipo mi fa cenno di provarmi qualcosa. La cameriera dice: - Devo rimanere per aiutare la signora?
Ma lui miracolosamente intuisce il mio imbarazzo, la congeda e dice: - La signora non ha bisogno di aiuto.
Poi, quando siamo soli, dopo aver consultato un libro, mi fa vedere con pazienza dove si agganciano i misteriosi indumenti che non ho mai avuto l'occasione di indossare, e mi aiuta anche, premuroso e gentile come una balia, senza fare neppure un gesto meno che rispettoso.
E mi pare che si diverta, ma è il tipo di divertimento che può provare un ragazzo alle prese con il meccanismo di un giocattolo: niente di equivoco.
Per la prima volta lo guardo negli occhi: fino ad ora è stato semplicemente il tipo, il pollo, il cliente da cui ricavare qualcosa, ma ciò che ne ho ricavato è talmente inaspettato, che lui trascende improvvisamente dal personaggio che gli avevo affibbiato, e diventa in qualche strano modo una persona. Già: proprio come me o il vecchio.
Il vecchio...
- Hai del tabacco? - chiedo.
Lui, che a questo punto sulla mia vita ne sa più di me, capisce che sto pensando al vecchio, così usciamo e il vento non penetra dentro questi abiti così caldi e avvolgenti.
Lui acquista pane, tabacco, viveri, abiti, legna, e sembra che i suoi denari siano inesauribili e li spende come se non avessero nessun valore. E siamo seguiti da una piccola folla di fattorini carichi di roba, che assumono un'aria stupefatta e vagamente offesa quando entriamo nello squallido androne di casa. Filano via velocemente, dopo aver depositato legna e fagotti e avere intascato la mancia.
Il vecchio è addormentato, bluastro per il freddo, e io eccitata gli metto accanto il tabacco e poi gli appoggio sopra dolcemente il cappotto e poi la coperta nuova di lana e poi accendo il fuoco e metto il cibo nelle pentole, tutto il cibo che c'è, tutto insieme, e lui si sveglia perché sente profumo di mangiare, e tossisce e strabuzza gli occhi, e resta senza dire nulla, e io rifletto che i poveri non possiedono nemmeno le parole: quante volte ho annaspato come un cane nell'acqua gelida di un torrente, cercando di impadronirmene per spiegarmi quello che sentivo?
Il gentiluomo guarda la stamberga in cui viviamo, ha una bizzarra espressione e non dice nulla. Eppure lui ha denari, vestiti e PAROLE, anche se le pronuncia con uno strano accento.
Già: c'è un grande silenzio, qua dentro, ma io assaporo piano questa felicità di cose buone da mangiare, di caldo, di abiti morbidi e sufficienti sulla pelle, e non riesco a credere che finirà. Ci si abitua così facilmente alle cose piacevoli...
Il vecchio a occhi spalancati palpa la stoffa del cappotto, poi il pacchetto del tabacco, e tossisce, e scorrono lacrime sulle sue guance rugose e si perdono nella barba. Guarda il tipo nell'angolo, e ammicca come
se gli si fosse fatta luce nel cervello, poi dice: - È una brava ragazza, signore, non creda che sia stata di altri: ho badato che restasse intatta proprio perché sapevo che prima o poi qualcuno l'avrebbe saputa apprezzare per quello che vale. Si può dire che l'ho serbata proprio per lei - e gli sorride, sdentato e patetico, e poi gli piglia un accesso di tosse e sputa fuori catarro e lacrime, confuso, senza capire bene la situazione.
E così sembra che io sia passata di mano... oh, vecchio, per un pacchetto di tabacco e quattro vestiti...
Stendo sulla tavola sbilenca lo straccio che ci fa da tovaglia, metto tre piatti, una ciotola, due forchette e un cucchiaio, e accosto al tavolo uno sgabello e la rete del letto.
Il vecchio mangia con furia, come se pensasse che c'è in agguato da qualche parte il gelido risveglio da un sogno.
- Tornerò domani. - dico. E prendo per mano il tipo, conducendolo fuori verso il Baglioni.
Questa volta il portiere non ha l'aria scandalizzata, ma si affretta ad inchinarsi e mi fa strada verso le scale. Accidenti che differenza può fare un vestito!
- Come ti chiami? - chiedo al tipo.
- Chiamami pure Sanpietro - sorride lui - tutto sommato mi diverte l'idea che a qualcuno sono sembrato un
santo.
- Va bene, Sanpietro, ora cosa devo fare? - chiedo bruscamente, e giuro che ho paura, sono nervosa e mi torna quasi freddo.
- Fatti un bel sonno: con tutte le novità di oggi, ne hai bisogno - dice Sanpietro voltandomi la schiena - Io esco: ho alcune cose da sbrigare. Tu dormi tranquilla.
E accidenti mi addormento sul serio, dopo essere rimasta in rigida attesa circa mezzo secondo.
È mattina e sono sempre in paradiso. Sanpietro dorme sul divano, accanto alla mia porta, tranquillo come un neonato. Mi alzo in punta di piedi, riempio la vasca da bagno, mi ci tuffo come il giorno prima, e mi riavvolgo nella vestaglia di seta.
Torno di là, sempre in punta di piedi, ma Sanpietro questa volta pare sveglio, e mi sorride, assonnato, tende un braccio verso di me, e tutto avviene senza nemmeno un problema, e dopo io sono contro di lui, appoggiata, e mi sembra la posizione più naturale del mondo. Come ho potuto, dopo tutti i discorsi che mi ero fatta, mettermi nelle sue mani così facilmente? Eppure me ne sto qui, e l'unica consolazione è che in fondo ho solo pagato un debito. Lui si muove un poco e accomoda
meglio il braccio sotto di me. Gelata dall'imbarazzo penso che adesso dovrò alzarmi, rivestirmi sotto i suoi occhi, e non so come farò.
Chiamo in aiuto l'orgoglio che ho sempre creduto di avere, mi alzo come se fossi vestita, mi dirigo senza affrettarmi verso il bagno e rientro nella vasca, perché voglio cancellare ogni traccia di quello che è appena avvenuto. Mi sento tutta pesta, eppure non sono un fiorellino di serra, accidenti sono forte e rotta a tutte le fatiche, e ho sopportato più roba io negli anni che ho vissuto, che non Sanpietro, credo, ma mi sento tutta pesta lo stesso e penso al vecchio con rancore perché ha permesso che Sanpietro in cambio di un pacchetto di tabacco e qualche vestito mi portasse via... ma via da dove, mi interrogo, da quale esistenza? E in silenzio assolvo il vecchio.
Sanpietro bussa alla porta: - hai bisogno di niente? - domanda. E c'è un tono leggermente ansioso nella sua voce - Sai, non ero del tutto sveglio, prima... - dice in tono di scusa - altrimenti non avrei... Oh, al diavolo, è stato piuttosto piacevole, no? - aggiunge poi. - Mmh... no, questo non avrei dovuto dirlo - borbotta - sto peggiorando la situazione, ma non mi viene in mente nulla di adeguato di fronte alla porta del bagno... - poi
ride nervosamente e forse si allontana, perché non sento più nulla, e mi rendo conto che sono chiusa qui dentro da un sacco di tempo. Così mi asciugo, mi infilo la vestaglia di seta ed esco a testa alta, cercando di non pensare a niente altro che non sia il caldo, o la seta sulla pelle, o la colazione che tra poco arriverà. Si può vivere anche di queste cose, probabilmente. Lui ha la schiena rigida di chi si sente in imbarazzo, e questo stranamente mi rassicura: dopotutto qualcosa in comune l'abbiamo.
Sono spaventata: invece di accettare ciò che mi capita con semplice gioia, continuo a scattare per nulla. Basta che Sanpietro dica mezza parola, e io mi inalbero come una cavalla punta da uno sciame di vespe. Prima o poi, se non riesco a dominarmi, Sanpietro mi prenderà con due dita e mi ributterà nel rigagnolo fangoso dal quale mi ha pescato. Il mio guaio so qual è: ho accumulato troppa rabbia. Mi basta un pretesto da nulla per esplodere. Spesso non mi serve nemmeno un pretesto. Inoltre, siccome ho anche paura di perdere tutto questo, le mie esplosioni non servono per scaricarmi, ma aumentano la tensione che mi domina e mi innervosiscono sempre di più. E ho anche un altro problema che non potrò nascondere a lungo.
- Calmati - dice Sanpietro dolcemente - ho bisogno che tu sia tranquilla, perché devo dirti qualcosa.
- Ci siamo - penso - è la fine. - Dimenando il sedere con arroganza mi avvio verso la camera da letto.
- Dove vai? - fa lui un poco stupito.
- Sono una specie di vipera, lo so, e mi levo di torno. Così forse imparerai a cercarti compagnia nel tuo ambiente, invece di raccattare femmine in giro! - dico amaramente.
E mentre gli volgo le spalle perché non voglio che veda le lacrime nei miei occhi, sento un bizzarro suono soffocato che riconosco dopo un momento, quando diventa una lunga, incredibile risata: Sanpietro ride.
Con la faccia rigata di lacrime resto immobile sulla soglia della camera. Mi sale alle orecchie una bruciante ondata di rabbia. In questo momento sarei capace di ucciderlo.
E poi lui dice con l'allegria nella voce: - hai davvero creduto che stessi per darti il benservito? Ma no, volevo dirti tutta un'altra cosa, te lo assicuro. Come ti è potuta venire in mente una cosa simile? Va bene Davide Copperfield, i Malavoglia e via piangendo, ma che accidenti di società avete, e cosa diavolo pensi di me, per credermi capace di liquidarti?
- Non conosco nessun Davide Copperfield, nessun Malavoglia, e non penso niente - rispondo - non mi hai mai chiesto di pensare a niente.
Sanpietro non ride più: - Già - dice triste - devo controllare la cronologia. Forse li hanno scritti dopo...
- Dopo che cosa? - domando - Scritto cosa?
Il caldo della rabbia mi ha asciugato la pelle, e non c'è traccia di lacrime sulla mia faccia quando mi volto verso di lui. Lui che non dice nulla e che infine mi tende una mano, il palmo aperto come quando si saluta.
- In origine il gesto - mi aveva spiegato una volta - serviva per dimostrare che chi salutava non nascondeva nessun pugnale.
Fuori la neve si accumula sui vetri, sono le quattro e mezzo del pomeriggio, la lunga notte di gennaio è appena agli inizi.
- Senti - dice Sanpietro - tutte le volte che ci provo, succede qualcosa per cui non ci riesco, ma devo parlarti di una cosa, ed è un pezzo che voglio farlo.
- Anch'io. - decido bruscamente.
- Va bene - fa lui con un gesto galante e un mezzo inchino - precedenza alle signore.
Be', non c'è modo di cambiare le cose, e in ogni caso,
per quanto duri una partita, arriva sempre il momento di buttare giù le carte.
- Aspetto un bambino. - dico.
Lui apre la bocca come un pesce preso all'amo, e probabilmente è così che si sente. Sanpietro è rimasto a corto di parole.
- C'è sempre la ruota degli Innocenti - lo consolo.
- Stai scherzando! - sussurra. E non so se allude al bambino o alla ruota degli Innocenti.
- No. - rispondo. E il diniego si attaglia ad entrambe le possibilità. La neve preme morbida contro i vetri: un inverno così, a Firenze, era un pezzo che non si vedeva.
- Novembre, dicembre, gennaio... - fa lui meditabondo - sei venuta qui a novembre... da quando?...
- Da dicembre.
- Perché non me l'hai detto subito?
- Non ero sicura che tu volessi saperlo.
- Perché? - fa ancora lui.
Perché, perché... perché lui non mi vuole bene, io lo so. Non me ne vuole nel modo giusto. Una donna queste cose le sa, e io adesso sono una donna. Ma come faccio a dirglielo? È sempre gentile, mi riempie di regali, fa all'amore con me e rifornisce il vecchio di tutto ciò che gli serve. Inoltre sopporta i miei scatti di nervi senza
dire nulla. Eppure lo so: è come un uomo che parla con un neonato. Il neonato si esprime col pianto, con le mani, con i piedi, con la pelle, col sorriso. E l'uomo, su un altro piano, pensa che è tenero, che è grazioso, e bada magari che non gli manchi nulla, ma nessuno dei due sa la lingua dell'altro. L'uomo non conosce la strada che porta al cuore del neonato, e il neonato non è capace di arrivare alla mente dell'uomo. Sono entrambi desolatamente fermi agli estremi di aspettative diverse: mancano loro gli strumenti, il veicolo, una strada comune da percorrere per raggiungersi. Come potrei dirgli che non mi vuole bene?
- Tu non mi vuoi bene. - dico. E mi sembra di sentire la voce del vecchio: - Non si butta la merda per aria - dice sempre - perché poi ricade giù.
Così incasso la testa tra le spalle e aspetto la ricaduta.
Sanpietro è moderatamente stupito: - E tu me ne vuoi? - domanda.
C'è una festa nel salone del Baglioni: tepore, voci, allegria. Ne veniamo catturati senza neppure esserne pienamente consapevoli, e dopo un poco siamo tutti amici: clienti dell'albergo, ufficiali, madame e damigelle. Eleganti uccelli neri, gli uomini: sottili zampe a tubo e
senza neppure il becco giallo, ma snodati e fragili in un certo senso, mentre appoggiano i piedi sulle punte come se la mise serale imponesse anche delicate movenze da ballerini. Gaie e colorate le femmine della specie, in servizio permanente: intente a spandere gioia e al diavolo la fatica, tanto il conto si paga sempre in fondo.
Io bevo troppo champagne, le bollicine rosa mi solleticano il naso, dolci, frizzanti, nuove per me: forse è per questo che parlo troppo, ma mi si è chiarito un concetto, magari perché l'alcool mi ha incendiato il cervello: io, per essere davvero serena, devo cancellare tutte le cose ingiuste che ho vissuto: - Perché tutti - dico ad alta voce - sono capaci di cambiare il futuro. Io invece dovrò cambiarmi il passato.
Intorno pavoncelle e aironi neri mi guardano e ridono nella soffice, facile confidenza che rende questa festa simile a un'isola perduta tra le correnti del quotidiano.
- Non è possibile - zampillano fresche le loro voci, con l'inconfondibile accento della verità.
- Qualcuno di voi ci ha provato? - mi intestardisco.
- Non ce n'è bisogno: si sa che non è possibile.
Sanpietro sospira, un poco sbronzo anche lui forse, e dice rivolto non so a chi: - Vecchio Socrate, il metro di giudizio della gente non è cambiato dai tuoi tempi: anche
tu ce l'avevi con chi giudicava valide le cose solo dal numero di chi le faceva...
- Se per voi fa testo la folla - dico io - ebbene, l'inferno deve essere pieno di chi vorrebbe cambiare il passato...
- L'umanità è piena di cicatrici - mormora Sanpietro - teorema di Lavell "Non c'è crescita armonica per chi si trascina dietro i traumi dell'infanzia". Corollario di Papini "Per annullare l'aggressività, occorre eliminare i motivi che l'hanno provocata".
Io non conosco Lavell e Papini, ma sono anch'io piena di cicatrici, e le voglio cancellare. E intorno il brusio delle conversazioni si alza di tono, e la gente ride e parla, sotto le fragili luci dei candelabri, con la lieve esaperazione di chi sa che la festa sta per finire, ed è incerto tra il desiderio di trovarsi finalmente nel proprio letto, e la voglia che l'isola perduta resti eternamente alla deriva, intangibile alle leggi del vivere quotidiano.
Poi vince la stanchezza: tutti ci avviamo verso il guardaroba. Ma per un attimo io e Sanpietro siamo stati vicini e ci siamo capiti: lui ha continuato il discorso che avevo cominciato, e io poi l'ho concluso.
O forse non ho concluso niente e parlavamo di cose differenti, e la vita è solo un arruffato gomitolo con tanti fili che nessuno di noi riesce a mai dipanare.
- Qual'era Socrate? - chiedo a Sanpietro - quello biondo, o quello col naso a becco?
- Oh, Socrate è un mio vecchissimo amico - dice lui - ma non era presente, stasera. - E quando siamo rientrati nel nostro appartamento mi dà un libro e mi dice che è del suo amico. Ma io non so leggere.
Questo è un aprile incantato, un aprile chiaro, pieno di brividi: le foglie nuove, l'erba, le gonne, sono sollevate da un vento gentile che non porta polvere o nuvole da temporale. Firenze è chiara, dolce, arida e dorata, del colore della pietra accarezzata dal sole. Il cielo è chiaro, dolce, leggero come una leggera ragnatela di seta. Mio figlio invece è una dolce macchia opaca che mi appesantisce e mi snerva: non voglio pensare a lui finché non so se potrò tenerlo, eppure mi sorprendo a parlargli come se potesse capire: - Piccolo - gli dico - nella vita c'è sempre la maniera di cadere in piedi, basta non arrendersi e cercare di truccare un poco. Come dice il vecchio: con il gioco delle dita si fa bella la partita... - e poi mi viene da ridere perché gli propino pari pari gli insegnamenti da baro imbroglione che ho ricevuto dal mio educatore. D'altra parte non ho avuto altri modelli. E questo aprile continua a essere chiaro, dolce,
vertiginoso come se stesse esemplificando la vita, e volge velocemente verso la conclusione, ed è già maggio, e poi giugno e poi, in un giorno di fine luglio che il sudore quasi mi acceca, Sanpietro mi raccoglie mentre con le braccia strette al ventre cerco di trattenere mio figlio nell'unico luogo sicuro che posso offrirgli.
- Adesso - mi dice piano Sanpietro - adesso vieni con me - e poi mormora - non c'è un accidente di ospedale degno di questo nome, Florence Nightingale è di là da venire, di antibiotici non se ne parla nemmeno, se qualcosa va storto non potrò perdonarmelo finché campo... - e la sua voce è così seria e grave, che mi scuote dalla opaca disperazione che mi avvolge, e mi alzo un poco, goffamente, sulle ginocchia, e lui mi aiuta senza impazienza, come sempre, mentre una fitta mi fa gemere e mi aggrappo a lui perché c'è solo lui vicino a me, e anche se non mi vuole bene, di lui mi fido.
Come un lampo mi attraversa un pensiero: è così che riuscii ad addomesticare l'unico gatto che abbia mai posseduto: nel vicolo che per lui era un percorso a ostacoli tra un calcio e l'altro, imparò a riconoscere il mio piede perché era l'unico che non lo colpiva.
- Sono come un gatto, per te... - dico sottovoce. E poi
non c'è più tempo di dire o pensare nulla, perché mio figlio nasce, e sono sopraffatta da una felice, smemorata stanchezza, mentre lo stringo tra le braccia, piccino, bagnato, con gli occhi serrati al mondo, tenero e disarticolato, la mia prima bambola, il mio implume cacciatore di topi, perché lo sanno tutti che i figli dei gatti...
- Dio è morto, Marx è morto, e anch'io comincio a non sentirmi troppo bene - mormora Sanpietro scuotendo la testa.
- Come hai detto?
- Nulla, citavo un tale che si chiama Woody Allen...
- Chi è?
- Probabilmente un profeta: chi altro se non un comico può fare il profeta in un mondo paradossale?
Smetto di porgergli ascolto: ho sempre saputo che parliamo linguaggi diversi e che non conosciamo le stesse persone.
Poi lui prende il bambino, lo lava delicatamente, e in una specie di folgorazione mi accorgo di amarlo, per la gentilezza che dimostra verso mio figlio.
Quando il cucciolo è pulito, asciugato e coperto, Sanpietro mi si avvicina con una bacinella e una grossa spugna di mare, e comincia a prendersi cura di me,
nonostante i miei tentativi di impedirglielo.
Ci addormentiamo, io e il piccolo, esausti entrambi: lui per la fatica di nascere, e io per quella di vivere.
Mentre la stanza si dilata nella nebbia del sonno, sento Sanpietro che ride forte, con esultanza: - Chi diavolaccio l'avrebbe mai detto - dice con un tono incredulo e felice - che avrei generato un figlio nella Firenze dell'Ottocento?! Mi avevano assicurato che non era possibile, ma evidentemente ciò che c'è tra un uomo e una donna trascende tutte le leggi, comprese quelle temporali; o forse in ogni passato da cancellare esiste un seme di speranza per il futuro...
Mi sveglio perché c'è un angoscioso rumore nella stanza: è il bambino. Sanpietro è chino su di lui: - Sta male - dice.
Cerco di alzarmi. Tutta la felicità è scomparsa da questa stanza, risucchiata via dall'affannoso respiro del piccolino.
- Questo cambia tutto - mormora Sanpietro - ora devo portare via il bambino... - poi si china su di me: - Mi senti? - dice - io devo andare via, da un medico che farà vivere il piccino. Non sono in grado di portare anche te: tu appartieni a un tempo diverso, e moriresti nel trasferimento. Ho cercato di dirtelo tante volte,
ma non ne sono stato capace. E non sarò in grado di tornare: ognuno di noi può fare solo un viaggio, lo capisci? Veniamo da molto, molto lontano: cambiare il passato, questo è il nostro sogno: cancellare le ingiustizie perché l'umanità cresca libera da pregiudizi e diventi adulta nella maniera migliore... questo è quello che vogliamo, noi che stiamo approdando sull'ultima spiaggia bruciata del suicidio collettivo, spinti da risentimenti e impulsi che affondano le radici nell'infanzia della nostra storia... e una sera che avevamo bevuto, ho creduto che tu lo avessi intuito. Mi senti? Non ho più tempo, adesso, devo portarlo dove potranno curarlo... - mi scuote un poco, con urgenza - capisci? - ripete.
- Tu vai lontano e porti con te il bambino - riassumo, cercando disperatamente di non crederci.
- Sì, è così.
- E non vi rivedrò.
- No, mi dispiace.
- Lui starà bene?
- Starà bene, te lo giuro su tutto ciò che ho di sacro: lo terrò più caro della mia vita.
- Starà davvero bene? - chiedo ancora, ottusa e straziata.
È finita così la mia avventura nei quartieri alti di Firenze.
È finita con noi che cercavamo di dirci qualcosa, ognuno convinto che l'altro capisse; ed eravamo su due strade parallele, con un unico, tenero, piccolissimo ponte: uno stanco bambino di cera, oh, così immediatamente amato, che ascoltavamo mentre cercava di respirare.
È finita con questo vuoto al posto del cuore.
Eppure a volte, in certe primavere fiorentine, quando il fiume canta e perfino i santi di pietra delle chiese sembrano voler rivestire carne e sangue per condividere la dolce, ingannevole tentazione della vita, una strana idea mi coglie, e vado come una pazza verso la stazione, e racconto a tutti i viaggiatori la mia storia, perché se è vero che ognuno di Loro, chiunque Essi siano, può fare un solo viaggio, allora anche per mio figlio verrà il momento di partire, e può darsi che scelga Firenze, proprio come fece suo padre.
Il vecchio ha giocato la sua ultima mano cercando di imbrogliare fino in fondo, ma non ha retto il peso della neve dell'ultimo inverno: si è schiantato come un legno cavo, ed era leggero nello stesso modo. Chissà se con le dita meno rovinate sarebbe riuscito a barare.
Senza di lui ho poco da fare, e mentre conto le stagioni, sogno un uomo e un ragazzo che mi sorridono e mi parlano di profeti che non conosco, e intanto, vestita di stracci all'uscita della stazione, continuo a raccontare a chi arriva e a chi parte la mia storia: se il mio sogno valica il tempo e riesce a seguire la crescita di un bambino perduto, tenuto tra le braccia una volta sola, la mia storia, mi domando, riuscirà ad arrivare altrettanto lontano?