46. Bioculture:
Un'avventura spaziale

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In una fredda notte d’inverno, lontano dal riverbero luminoso delle città, può capitare di alzare lo sguardo e rimanere stupiti dai miliardi di Soli che ardono a distanze immense, espandendo la loro luce su un’infinità di pianeti tra cui è sufficientemente verosimile che possano essere presenti specifiche forme di vita. Così, in continuità di tempo è probabile che nei più remoti angoli dell'universo organismi dotati di linguaggi simbolici anche più elaborati dei nostri ripetutamente si interroghino sulla caducità del loro divenire o sul perché si trovino sospesi in uno spazio infinito dove ogni evento sprofonda in abissi di silenzio.

Darwin

Condannati a restare isolati tra terre straordinariamente lontane, ciascuno cerca di immaginare le sembianze di vita presenti in altri mondi, e soprattutto quante esse possano essere simili alle proprie. Ma lì dove la ragione impone la scrupolosa osservazione dei dati, che non hanno ancora accertato l'esistenza di alcuna forma di vita extraterrestre, la fantasia trascina verso inverosimili avventure alla scoperta di civiltà aliene, esemplificate sul modello delle nostra. Vista la perdurante difficoltà tecnologica che ci consente di visitare a mala pena qualche desolata landa del sistema solare, l'attesa di possibili incontri ravvicinati suggerisce fantasiosamente che questi debbano in genere aver luogo sul nostro pianeta. I visitatori provenienti da spazi siderali assumono nell'immaginario collettivo sembianze di raro dolci e profetiche, più spesso spietate e terribili, dotate comunque di menti più complicate delle nostre.
Come per gioco inventiamoci uno di questi incontri e assumiamo che un'astronave penetri silenziosa i nostri spazi in una tiepida giornata settembrina e, inavvertita, si posi all'imbrunire tra le pannocchie di un campo di mais, nei pressi di una grande cascina. È quasi l'ora di cena e anche lì ognuno s'affretta a traghettare, in sazietà, verso la parte finale del giorno, con la voglia di assopirsi al propinato programma televisivo, o con l’intenzione di fare una passeggiata serale con gli amici. L'agguato è fulmineo e istantaneo; in breve tutti gli abitanti della cascina, avvolti in una nube soporifera, sono trasferiti come inermi fagotti nella macchina spaziale. Durante la notte nulla trapela all’esterno, non un rumore, una luce, una traccia che riveli cosa stia accadendo all’interno. Il buio accentua il mistero mentre il consueto chiacchiericcio degli animali notturni martella il tempo che scorre. All’alba con la stessa istantaneità di un raggio di luce che fa capolino tra le nubi e poi scompare alla vista, l’astronave si dilegua verso spazi siderali. È già giorno avanzato quando l’assenza a scuola dei ragazzi della cascina mette in moto i pensieri; ci si interroga e si rafforza il sospetto che qualcosa di strano possa essere loro successo. Ai timori fanno seguito le certezze. La vista che si mostra ai soccorritori è orripilante: i corpi nudi degli abitanti della cascina giacciono ammucchiati nell'erba con una espressione nei volti che testimonia gli ultimi terrificanti momenti di vita. I segni dei bisturi chirurgici sono presenti in tutti i corpi delle vittime ma sopratutto colpisce l'accuratezza dei tagli sulle loro calotte craniche che lasciano intravedere parti di cervello e spingono a distogliere lo sguardo anche di chi è avvezzo a visioni cruente. Oltre alle tracce lasciate sul terreno dalla grande macchina spaziale, gli investigatori sono attirati da un supporto informatico che una delle vittime stringe tra le mani, avendolo probabilmente sottratto fortuitamente ai propri carnefici. Sono le registrazioni di un esperimento scientifico realizzato nella notte, con scrupolosa metodologia, sulla pelle degli abitanti della cascina. Dalla ricostruzione che se ne è fatta più o meno potrebbe essere andata così.
Gli alieni, che si desume conoscessero molto bene gli abitanti della Terra, si proponevano di evidenziare negli animali appartenenti alla specie Homo sapiens, a loro più prossimi in quanto dotati di linguaggi simbolici, se i neuroni uditivi erano attivati solo da stimoli ambientali oppure si relazionavano anche ai movimenti di orientamento degli occhi. Sembra una bizzarra curiosità ma essendo formulata da menti aliene, per principio più argute delle nostre, occorre accettarla come certamente importante e necessaria.
Le vittime furono poste a sedere in una sedia di costrizione per primati e trasferiti in una gabbia di Faraday, dove furono costretti a fissare una fonte di luce alternativamente rossa, gialla e verde. I soggetti, alla comparsa del verde, dovevano sempre essere pronti a rilasciare una leva posizionata di fronte a loro, impiegando il braccio del lato opposto a quello dell'emisfero da dove sarebbe stata registrata l'attività neurale; il rosso segnalava l'attesa e il giallo la preparazione al rilascio. Appena appresa questa semplice regola, ad ogni soggetto, senza distinzione di sesso o di età, fu applicato sulla testa, mediante quattro viti e del cemento acrilico, in condizioni asettiche, un perno di acciaio inossidabile; contemporaneamente gli fu inserita sotto la congiuntiva oculare una spira in acciaio, rivestita di teflon, per permettere la registrazione dei movimenti oculari; altri fili in acciaio, pure essi ricoperti di teflon, furono inflitti nei muscoli della nuca per l’annotazione delle attività neurologiche. Anche la corteccia prefrontale e l'area del cervelletto furono intaccate dall'inserimento di minuscoli registratori. Gli stessi movimenti delle orecchie furono monitorati attraverso l'applicazione di una spira fissata, all'inizio della seduta sperimentale, con sottili nastri autoadesivi ai padiglioni auricolari. Le vittime, imprigionate sulla sedia per primati, col capo impedito di qualsiasi movimento, furono sottoposti a una cascata di stimoli uditivi già registrati e somministrati attraverso quattro altoparlanti posizionati a una distanza di novantanove centimetri a destra e a sinistra da loro, due davanti e due dietro, con una angolazione di quarantasei gradi rispetto alla linea interemisferica.
Le vittime, presumibilmente atterrite, non potevano indirizzare lo sguardo verso la fonte dei suoni che erano prodotti da apparecchiature elettroniche o da strumenti a percussione ed erano frammisti a urla, gemiti, apertura e chiusura di porte, scalpiccii, colpi di martello, voci non note e orripilanti vocalizzazioni di animali. Le luci si accendevano, irregolari e impreviste, davanti a loro e tutto l’universo affettivo era ormai sfumato in una manciata di impulsi visivi e sonori. Sembra che la morte sopraggiunse in maniera indolore, almeno così era riferito nel supporto informatico ritrovato in mano a una delle vittime, anzi era precisato che tutte le fasi sperimentali avevano rispettato gli standard stabiliti dalla Comunità Intersiderale e le leggi vigenti nel paese di provenienza degli alieni (era riportata una sigla); essi regolavano in maniera precisa gli interventi invasivi su organismi anche dotati di linguaggi simbolici ma che comunque non appartenevano alla loro specie, indubbiamente più complessa. I corpi vennero abbandonati sull’erba mentre gran parte del cervello delle vittime, sezionato in fette di poche decine di micron, fu incasellato in teche dai supporti magnetici e seguì gli alieni.
Qui finisce la storia e fortunatamente si tratta di pura fantasia; indubbiamente noi preferiremmo che un possibile incontro con individui di altri mondi somigliasse molto a quello descritto da Spilberg in ET. In una scena indimenticabile, al momento della loro reciproca scoperta, il ragazzo ed ET si fissano sbigottiti, poi un crescendo di espressioni del viso, di gestualità e di imitazioni vicendevoli suggellano l’avvio del dialogo tra palpitanti emozioni.
Gli sperimentatori alieni del racconto precedente non seppero o non vollero guardare le espressioni del viso di quegli esseri umani che invocavano pietosamente commiserazione; scambiarono la loro rassegnazione nella accettazione della prova come cortese collaborazione offerta da consenzienti vittime sacrificali nell’interesse di un bene superiore. Era bastevole che gli oggetti delle loro ricerche non fossero percepiti come contenitori di istinti da dissezionare a proprio piacimento ma come soggetti in grado di vivere forti emozioni, forse meno elaborate di quelle degli alieni dalle menti più complesse ma comunque ugualmente autentiche. Le espressioni facciali delle vittime imponevano che non si travalicasse mai quel confine che separa la curiosità della conoscenza dal rispetto dei sentimenti dei soggetti indagati. Purtroppo gli alieni consideravano se stessi legittimamente diversi dagli umani, ma a questo univano un giudizio di merito che limitava l’agire etico e morale al solo loro ceppo. Forse, se fossero stati più accorti, avrebbero ricavato dal loro viaggio sulla Terra più informazioni utili alla loro stessa convivenza non tanto manipolando i neuroni degli umani quanto osservando i loro errori. Avrebbero così forse appreso come gli umani, comportandosi nei confronti delle altre specie come gli alieni avevano fatto con loro, avendo sterminato le specie a loro più simili, continuando a vessare quelle ancora viventi, comprese quelle a loro più prossime come i primati, abbiano finito con l’allentare quelle ragioni etiche della convivenza che hanno già portato tante disgrazie sulla Terra e che continuano ad impedire il superamento della violenza che tutti attanaglia.
Come breve nota conclusiva occorre precisare che purtroppo esperimenti del tutto analoghi a quelli prima fantasiosamente attribuiti ad alieni sono giornalmente condotti da esseri umani su concrete scimmie.

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