22 Cultura & Società
Le tre sorelle
articolo di Giovanna Corchia

Libro     Le tre sorelle
Anton Pàvlovic Cechov
Editore Einaudi
Anno 2007
294 pagine

PARTE PRIMA

Una caratteristica di Anton Cechov (1860-1904) è la sua angoscia, il suo agnosticismo, una sensazione disperante che le forze migliori dell'uomo si perdano miseramente perché non trovano uno scopo a cui applicarsi.
Lo stesso Cechov scrive all'amico Suvòrin queste riflessioni: "Noi descriviamo la vita qual è e niente altro, non abbiamo scopi né prossimi, né remoti, e la nostra anima è vuota. Non abbiamo ambizioni politiche, non crediamo alla rivoluzione, non crediamo all'esistenza di Dio, non abbiamo paura degli spettri, e io personalmente non temo né la morte, né la cecità. Colui che non vuole niente, non spera niente, non ha paura di niente, non può essere un artista. [...] Non mi accadrà... di gettarmi nella tromba delle scale, ma non cercherò nemmeno di cullarmi nella speranza di un avvenire migliore...".
Siamo nel cuore di una crisi profonda dell'umanità, dopo l'ubriacatura romantica e idealista. Ma in Cechov vi è una capacità di comprensione umana, le cui componenti sono l'amore e la pietà.
Il Teatro d'Arte di Mosca è l'istituzione che rese celebri le commedie e i drammi di Cechov. Nella regia di pionieri come Stanislavskij ci si allontanava da tutto ciò che era gigionismo, declamazione, esteriorità, per una esigenza di verità: il teatro, come tutte le altre forme d'arte, è uno specchio del mondo.
Nasceva un nuovo, genuino teatro: "arte tutta calcolata, precisamente, per una rappresentazione scenica, da cui ogni notazione, impercettibile alla lettura, avrebbe dovuto assumere il suo pieno valore". (1)
Il mondo di Cechov è formato da uomini comunissimi, come lui stesso li definirà, immersi nella meschinità, monotonia, rassegnazione, tragica banalità della vita. L'esistenza pesa nel suo scorrere vuoto. I sogni ad occhi aperti non sono che pure illusioni, perché i suoi personaggi sono degli inetti, bloccati, schiacciati dalla consapevolezza del vuoto.
Cebutykin, uno dei personaggi del dramma Le tre sorelle dice queste parole: "E forse noi crediamo soltanto di esistere, mentre in realtà non esistiamo affatto. Io non so nulla, e nessuno sa nulla" e, intanto, beve e perde al gioco. Ecco non sapere se si esiste non esclude il tormento di voler sapere, come nell'ultima battuta del dramma. È Olga, una delle tre sorelle a pronunciarla, abbracciando le altre: "La banda suona così allegramente, così gioiosamente, e sembra che tra poco anche noi sapremo per che cosa viviamo, per che cosa soffriamo... Oh, se potessimo saperlo! Se potessimo saperlo!"(2) Intanto la musica si affievolisce, Cebutykin canticchia, mentre legge l'immancabile giornale. Ma legge veramente o è un gesto ripetitivo, monotono? E poi aggiunge, quasi in risposta alle parole di Olga: "Che importa, che importa!" Olga ripete ancora la sua invocazione disperata: "Oh, se potessimo saperlo... Se potessimo saperlo!"
Nella lettura del dramma ho avvertito più volte una vicinanza tra i personaggi di Cechov e Vladimir e Estragon, personaggi di Beckett, in Aspettando Godot: nei due casi il dialogo non è che un dialogo nel vuoto, un parlare per parlare quasi per nascondere la paura del silenzio. (3)
Sin dall'inizio del dramma Le tre sorelle si avverte che non ci sarà nessun cambiamento, nessuna rottura della situazione iniziale, nonostante gli indizi siano favorevoli: è maggio, una bella giornata, Irina è tutta vestita di bianco ed è il suo compleanno. La sconfitta è già avvenuta, la tragica vita inutile dei personaggi resterà immutata, condannati a vivere senza sapere perché.
Ecco un breve scambio verbale tra Vladimir e Estragon in Aspettando Godot, che si ripete più volte :
Estragon: Andiamo via
Vladimir: Non si può
Estragon: Perché?
Vladimir: Aspettiamo Godot
Estragon: Già, è vero. Allora cosa si fa?
Vladimir: Non c'è nulla da fare.
Bloccati anche loro come Olga, Mascia, Irina, il fratello... Il dialogo si spappola, si frammenta in tante isolate tessere che però formano un mosaico in cui è rappresentata la condizione esistenziale dei personaggi, il senso di vanità della vita.

LE TRE SORELLE

Personaggi

Andrèi Sergèich Prozòrov
Natàlia Ivànovna, sua fidanzata, poi sua moglie
Olga, Mascia, Irina,sorelle di Andrèi
Fjòdor Ilích Kulíghin, insegnante di ginnasio, marito di Mascia
Alexandr Ignàtevich Verscínin, tenente colonnello, comandante di batteria
Nikolài Lvòvich Túzenbach, barone, tenente
Vassílevich Soljònij, capitano in seconda
Ivàn Romànovich Cebutykin, ufficiale medico
Alexèi Petròvich Fedòtik, sottotenente
Vladímir Càrlovich Rode, sottotenente
Ferapònt, vecchio usciere dell'Amministrazione Provinciale
Anfissa,la balia, vecchia di ottant'anni

ATTO PRIMO
Sognare Mosca

In casa Prozòrov si sta apparecchiando, è una bella giornata di maggio, precisamente il cinque, data del compleanno di Irina, la più giovane delle sorelle, tutta sorridente nel suo abito bianco. Olga, con la divisa azzurra dell'insegnante, ricorda che è il primo anniversario della morte del padre, ma Irina vuole proiettarsi nel futuro. Mascia, la sorella sposata, in abito nero, è intenta a leggere. Nella piccola città di provincia dove abitano – molto simile a Tagatog, la città natale di Cechov – l'esistenza scorre monotona; l'unico, apparente segno di vita è la presenza di una guarnigione militare e l'annuncio dell'arrivo di un nuovo comandante, Verscínin. Persino la stazione è lontana, quasi a sottolineare maggiormente l'isolamento di quel luogo. Spesso, negli scambi verbali tra le tre sorelle è espresso il loro sogno più grande: andare a Mosca, abbandonare quel luogo così simile a una prigione. Irina si esalta nell'annunciare il suo grande sogno di lavorare, una parola magica che dovrebbe rinvigorire lo spirito come un bicchiere d'acqua calma la sete nell'arsura. La ragazza ha solo vent'anni ed è già schiacciata dalla noia, come il giovane tenente Túzenbach che aspetta l'arrivo della tempesta perché spazzi via la noia. Tutti sembrano ricordare il compleanno di Irina e le porgono i loro doni. Compare anche l'atteso nuovo comandante, Verscínin, degno di ammirazione perché viene da Mosca. Il vecchio ufficiale medico sente sin dall'inizio la sua inutilità, anche se ricorre a volte all'ironia quasi a difendersi, come quando si mette a canticchiare: "Solo per l'amore/ la natura ci ha messo al mondo". L'ultima ad arrivare in quella casa dove apparentemente regna la spensieratezza è Natascia Ivanovna, la borghesuccia, per le tre sorelle, per ineleganza e imbarazzo manifesto a stare in società. Invitata, è a disagio e vorrebbe allontanarsi, corre a consolarla Andrèi e, inaspettatamente, le dichiara il suo amore e le chiede di sposarlo. L'impressione che se ne riceve è l'esaltazione di Andrèi nel pronunciare quelle parole appassionate più che la sincerità delle parole stesse. Un altro personaggio che si aggira per casa è Vassílevich Soljònij, capitano in seconda, che fa spesso il verso al tenente Túzenbach, innamorato di Irina.

ATTO SECONDO
A Mosca! A Mosca! A Mosca!

Sempre nello stesso interno, è sera e Natascia si aggira per la casa, controlla tutto come se ne avesse preso in mano la gestione; scambia qualche parola con Andrèi, si dice preoccupata per Bobik, il figlio, annuncia l'arrivo di Ferapònt, l'usciere vecchio e sordo,dell'Amministrazione Provinciale, dove lavora il marito, per una firma da apporre su un documento. Andrèi, incapace di qualsiasi decisione, proprio lui che sogna di essere un professore dell'Università di Mosca, un dotto di fama mondiale, è chiuso in una noia mortale – la noia regna in quella casa. Inizia uno scambio verbale con il vecchio usciere che continua a ripetere: "Come? Non capisco". Ma proprio la sordità dell'altro permette ad Andrèi di manifestare tutte le sue frustrazioni, la timidezza che lo blocca, le sue paure tra cui il riso beffardo che può suscitare negli altri. Come vorrebbe anche lui essere a Mosca, confondersi nell'anonimato della folla
L'attrazione di Mascia per Verscínin è dettata da un'illusione, non si sa quanto ferma, di uscire dalla monotonia di una vita senza sbocchi, il loro filosofeggiare non è che un dialogo nel vuoto. La grossolanità delle persone che li circondano, i loro limiti e il vagheggiamento di un futuro diverso, più bello e splendente... Verscínin arriva a sottolineare un aspetto del carattere del russo che continua a lamentarsi di tutto perché niente è alla sua altezza ma, poi, lo si vede precipitare molto in basso. Perché? Si apre qui uno sprazzo di sincerità, una denuncia delle contraddizioni dell'uomo: sogni di grandezza e inettitudine, impotenza, rassegnazione, mancanza d'impegno per evadere dalla prigione in cui si trova.
Spesso sul volto di Mascia appare un sorriso, quasi una manifestazione d'ironia, d'incredulità per i contenuti di quel filosofeggiare, di consapevolezza della prigione in cui si trova. Assistiamo ancora a delle manifestazioni della metamorfosi di Natascia che cerca di scimmiottare le cognate, rimproverandole, a volte, per un linguaggio poco raffinato, esibendosi in buffe frasi in francese, non prive di strafalcioni. Tutti sanno che ha un amante, Protopòpov, il presidente dell'Amministrazione Provinciale, e questo nell'indifferenza di Andrèi, come se lo ignorasse o non gliene importasse nulla. Andrèi e Cebutykin sembrano capirsi, parlano, tra l'altro, del matrimonio per concludere che, sposati oppure no, la noia prende tutti, niente cambia. Di Verscínin si sa, sin dall'inizio, che la moglie tenta spesso il suicidio, senza che questo causi veri drammi.
È Carnevale, dovrebbero arrivare le maschere, ma non arrivano. Sola, quasi a farsi coraggio Irina esclama: "A Mosca! A Mosca! A Mosca!"

ATTO TERZO
Anche noi ce ne andremo!

In casa si raccolgono abiti per le vittime di un incendio che si è propagato nel quartiere: gesto di solidarietà, rottura della monotona quotidianità o altro? Comunque serve per scuotersi dalla noia. Natascia, la signora, non sopporta più la vecchia balia Anfissa, un inutile peso in casa, inoltre irrispettosa nei suoi confronti. A causa sua Anfissa trova un'altra sistemazione nella scuola di cui Olga è diventata direttrice; la vecchia è molto contenta ma Natascia ha vinto. Credo che sia la borghesuccia il personaggio che non ispira nessuna forma di umana pietà.
Il dottor Cebutykin, come già in altre occasioni, esprime in un lungo monologo la consapevolezza della sua nullità: "Di quel poco che sapevo venticinque anni fa oggi non ricordo nulla. Proprio un bel nulla. Forse non sono neppure un uomo e faccio semplicemente finta di avere mani, piedi, testa; forse non esisto nemmeno e soltanto mi illudo di camminare, di mangiare, di dormire. Oh, se potessi non esistere!"
Verscínin è il primo ad annunciare che la brigata lascerà la città per una lontana destinazione e si rifugia poi nel suo filosofeggiare sulla speranza, sull'avvento di un futuro più o meno lontano in cui non ci saranno più tre sole persone esemplari come le tre sorelle, ma tanti altri che hanno fatto propri i loro ideali. Mascia lo ascolta e canticchia: è il suo modo di difendersi da illusioni senza peso, per nulla consolatorie. Mascia, la più consapevole di una vita senza sbocchi, aggiunge che tutto è inutile, superfluo in quel posto, anche la buona educazione ricevuta, la conoscenza di tre lingue: inutile, tutto è inutile. E poi che delusione quel marito scelto perché si pensava alla sua professione d'insegnante come a qualcosa di stimolante, segno di maturità, invece Fjòdor Ilích Kulíghin è un uomo vuoto, che ha il solo scopo di piacere al suo direttore, che parla per luoghi comuni, che si auto-convince di essere amato.
Tutto è ancora più nero e la sconfitta ancora più palpabile: Andrèi ha ipotecato la casa per debiti di gioco e i sogni delle sorelle sono scomparsi, spenti. Irina, disperata, stanca, si chiede perché continua a vivere: "Aspettavo sempre di andare a Mosca e là sognavo di incontrare il mio vero amore [...], ora invece è chiaro che son tutte fantasie".
È ancora Mascia che confessa alle sorelle di essersi innamorata di Verscínin, forse ha paura della partenza annunciata: la città tornerà ad essere un deserto ancora più deserto. Sin dall'inizio non si fa illusioni, consapevole della sconfitta; forse, per questo, indossa un abito nero. Ecco le sue parole:
"Quando si è avuta la sensazione di poter gustare la felicità ma questa è subito svanita, allora si diventa sempre più aridi dentro".
La rassegnazione che si è insinuata dappertutto porta Irina ad accettare come futuro marito il barone Tuzenbach. Ma niente al mondo è più bello di "Mosca: Andiamo, Oja! Andiamo!" Mosca è forse come Godot, che i due clown beckettiani aspettano, senza che Godot si presenti mai. Mosca, come Godot, non può essere che una parola magica, pronunciata per riempire un vuoto, il silenzio che può cadere su tutto.

ATTO QUARTO
Per che cosa viviamo, per che cosa soffriamo... Oh, se potessimo saperlo! Se potessimo saperlo!

Andréi spinge in cortile un carrozzino: un'immagine desolata e desolante, come anche le sue parole sottolineano: "La città rimarrà deserta, ci sentiremo come sotto una cappa di piombo". Lo confermano anche le parole di Mascia: "Tutte le nostre speranze sono svanite. C'era una volta una campana, che era costata tanto lavoro e tanti denari, e migliaia di persone si sforzavano di issarla sul campanile, ma ad un tratto la campana cadde e si spezzò. Così, senza una ragione. Così è stato per Andrèi."
Solo per Andrèi o per tutti loro? Il mosaico della loro vita non si è mai armonizzato, le tessere non stanno bene insieme. Una vita frantumata. Segue un duello tra Soljònij e Túzenbach, che ha abbandonato la divisa per iniziare una nuova vita, nobilitata dal lavoro – lavorare è una parola chiave, quasi un rimedio alla frustrazione di una vita senza scopo. Cibutykin, il medico che non possiede alcuna nozione di medicina, assisterà i duellanti. Poco importa se Andrèi – forse è il solo momento in cui esprime un giudizio che lo nobilita – pensa che partecipare a un duello, anche solo assistervi, è immorale, Cibutykin pensa che non cambi proprio nulla perché "noi non esistiamo, nulla esiste al mondo; crediamo di esistere ma non è vero... Che differenza c'è?" Tuzenbach abbraccia Irina all'oscuro di tutto, prima di affrontare il duello da cui non tornerà. Troviamo ancora il vecchio usciere Ferapònt che scambia delle battute con Andrèi, ma le parole vanno nel vuoto: il vecchio non sente e Andrèi trova così il coraggio di confessare la sua impotenza anche se conclude con un tono di speranza: domani forse sarà un altro giorno. Verscínin parte prendendo congedo da Mascia con parole insulse, vuote, guardando in continuazione l'orologio. E Mascia si esprime così: "Come suona la banda! Se ne vanno, ci lasciano; uno ci ha lasciato davvero, per sempre, e noi restiamo sole, per ricominciare daccapo la nostra vita. Bisogna vivere... Bisogna vivere." Mascia sa della morte in duello del barone e, con amarezza, sottolinea la loro condanna: essere condannate a vivere. Olga aggiunge: "Vivremo! Sembra che tra poco anche noi sapremo per che cosa viviamo, per che cosa soffriamo... Oh, se potessimo saperlo, se potessimo saperlo!" Domani non è un altro giorno e, se lo è, non sarà meno ripugnante di oggi. Perciò non ci sarà nessun cambiamento. Ma questo è chiaro sin dall'inizio.

(1) S. D'Amico, in Civiltà letterarie straniere: sintesi storico-letteraria: antologia: testimonianze figurative di S. Guglielmino, Bologna, Zanichelli, 1976, pp. 550 [fuori commercio]
(2) Cechov era convinto di aver scritto una commedia gaia e leggera, invece essa era stata accolta come un dramma. Perciò, dopo un iniziale rifiuto, Le tre sorelle fu definito un dramma
(3) S. Beckett, Teatro, Torino, Einaudi, 1967, pp. 349 [ed. in commercio 2005]

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