5 Cultura & Società
Samuel Beckett
Finale di partita
articolo di Giovanna Corchia

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Beckett Samuel Beckett
Finale di partita
Einaudi
Anno 1990
48 Pagine

BECKETT, IL SILENZIO IN SCENA

Il compito che si prefigge fin dagli esordi è distruggere «la materialità arbitraria» delle parole. L'influenza di Dante si fa sentire anche nei romanzi maturi. Era specialmente attratto dalla muta figura di Belacqua che, nel Purgatorio, «sedeva e abbracciava le ginocchia». Non permise mai che la sua voce fosse registrata.

LA LETTERA INEDITA
« COME LE PAUSE NERE DI BEETHOVEN »

Caro Axel Kaun,
mi diventa sempre più difficile, per non dire insensato, scrivere nell'inglese «ufficiale». E sempre più la mia lingua mi appare come un velo che bisogna lacerare per giungere alle cose (o al Nulla) che dietro si nascondono. La grammatica e lo stile: sono divenuti caduchi come un costume da bagno dell'epoca Biedermaier o come l'imperturbabilità di un gentleman. Una larva. Speriamo che venga il tempo, e già è giunto, grazie al cielo, almeno in certi circoli, in cui il miglior uso della lingua sarà con la più alta bravura mal usarla. E poiché non si potrà eliminarla d'un tratto, bisogna almeno nulla trascurare che possa contribuire al suo discredito. Trapanare in essa un buco dopo l'altro, finché ciò che si rannicchia dietro – che sia qualcosa o nulla – cominci a trasudare, non posso rappresentarmi compito più alto per uno scrittore d'oggi.
O deve la letteratura rimanere sola su un vecchio cammino disertato dalla musica e dalla pittura?C'è forse qualcosa di così sacro da paralizzare nella «innaturalità» della parola, che non si troverebbe negli elementi delle altre arti? C'è mai qualche fondamento per cui questa materialità terribilmente arbitraria della superficie della parola non possa essere dissolta, come ad esempio la superficie del suono, inghiottita da enormi pause nere, nella 7ª Sinfonia di Beethoven, che fa sì che per interi movimenti non possiamo nient'altro percepire che un vertiginoso abisso di silenzi tesi a annodare, sul senza fondo, un sentiero di corde sonore?
[...] Sul cammino dunque di una desiderabile Letteratura della non-parola, qualsiasi forma di ironia nominalista può davvero essere uno stadio necessario. [...] Un precipite distruggere nomi, in nome della bellezza.

Samuel Beckett

Lettera scritta in tedesco; edita in «Disjecta», London 1983. Traduzione di Christine Jacquet Pfau e Carlo Ossola.

Il dramma dell'Antipurgatorio, né dannazione né redenzione, anime smarrite, buttate sulla riva. Questi i canti e i personaggi che più hanno affascinato Beckett, e su tutti uno: colui che «sedeva e abbracciava le ginocchia / tenendo 'l viso tra esse basso»; in simile posa tanti suoi personaggi, anch'essi immobili, stretti a «le corte parole». Lo stare di Belacqua, senza «martìri» e senza suffragio, è l'emblema che Beckett ha tenacemente prediletto.
«Clov, bisogna che tu riesca a soffrire meglio di così, se vuoi che si stanchino di punirti – un giorno» . (Finale di partita)

Negli anni Cinquanta, Beckett si fa costruire una casa a Ussy, sui rilievi lungo la Marna. Vi si chiude, legge l'Infinito di Leopardi: «Sempre caro mi fu quest'ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte / de l'ultimo orizzonte il guardo esclude». Si taglia fuori dal paesaggio, sbarra l'orizzonte, lo rende impossibile, annulla una parte del cielo. Ciò ch'egli vuole è il silenzio, il muro, e – all'interno – uno sguardo che si accechi per meglio vedere. (da Il Sole/24 Ore)

FINALE DI PARTITA

Persone (1)
Nagg
Nell
Hamm
Clov

(1) Persone invece di Personaggi è, forse, dovuto al francese, lingua scelta da Beckett come originale, per poi passare all'inglese. In francese personne ha due significati fuori dal contesto: nessuno e persona e l'autore ha, forse, giocato su questa ambiguità.

Tutto si svolge all'interno di una stanza spoglia: due finestre molto alte da terra, le tende tirate all'inizio; una porta che dà sulla cucina in cui non entreremo mai, dove si rifugia Clov, quando Hamm non lo chiama con il fischietto; un quadro appeso con la faccia contro il muro; due bidoni della spazzatura, coperti da un lenzuolo; nel mezzo Hamm, su una sedia a rotelle, le ginocchia coperte da un lenzuolo, il viso nascosto da un fazzoletto insanguinato, il fischietto appeso al collo. Entra Clov e attraversa la stanza in lungo e in largo spostandosi da una finestra all'altra, il passo incerto, vacillante. Le sue parole: «Finita, è finita, sta per finire,sta forse per finire.[...]Non possono più punirmi». Parole che sentiremo ripetere spesso, ora dall'uno, ora dall'altro, senza che la fine arrivi a metter fine alla punizione, quale punizione? Forse quella di vivere. Hamm, che forse dormiva, si sveglia, si scopre, ha, sotto il fazzoletto, gli occhiali, è cieco. Esclama: «S'è mai...mai visto un dolore più...più alto del mio?» Fischia e chiede a Clov, che accorre, di farlo alzare: alzare, cosa significa? Farsi portare in giro per la stanza, rasentando i muri, è questo il suo giro del mondo, un mondo prigione, per poi ritornare al centro, centro della terra! I loro scambi verbali non servono a comunicare ma a sottolineare le loro angosce, l'impossibilità di dare, trovare un senso alla loro esistenza...Ogni giorno come il giorno prima e così per sempre. Hamm chiede spesso a Clov: «Non ne hai abbastanza, tu?» Clov: «Certo! Di che cosa?» Hamm: «Di questo...di questa cosa». «Questo»è la vita, la loro. E loro sono l'umanità intera!
Hamm chiede ripetitivamente a Clov di ammazzarlo, con il suo «calmante» e Clov gli risponde sempre che non è ora, che non conosce la combinazione della dispensa. Solo verso la conclusione del loro inutile agitarsi, senza che nulla succeda, Clov gli risponde che non c'è più calmante, che è finito... E allora, che fare? Che fare? La morte potrebbe metter fine alla loro non esistenza, ma è impossibile ricorrervi: l'uno e l'altro resterebbero soli, ancora più soli, senza la presenza-assenza dell'altro.
Sembra che sia Hamm a procurare il cibo a tutti: possiamo , forse, trovare nel suo nome una specie di onomatopea: Hamm, la pappa... E, da un bidone, si affaccia, aggrappandosi ai bordi, Nagg, il progenitore, il padre di Hamm. Ha fame, e Clov che è sempre nella sua cucina di tre metri per tre metri per tre metri – una cella, si direbbe – gli porta un biscotto rinsecchito. Dall'altro bidone tira su la testa Nell, faccia molto bianca, cuffia di pizzo: è la moglie di Nagg. Si scambiano effusioni senza riuscirci; sono, forse, morti, o vecchi-spazzatura, tenuti là a testimoniare che tutto si ripete all'infinito, senza cambiamento.
Hamm si spazientisce del loro continuo parlare, vorrebbe tornare a dormire, per sognare, dice; si dice inseguito, da chi? Questi nemici invisibili, chi sono? Ricordano molto i nemici di Estragon (uno dei clowns di Aspettando Godot), quelli che lo picchiano mentre dorme: incubi...E Nell riprende il pensiero di Nagg: «Non c'è niente di più comico dell'infelicità». E poi ancora: «Sì, sì è la cosa più comica che ci sia al mondo», però, aggiungono, a furia di ripeterlo è come una vecchia barzelletta: non fa più ridere. E continuano a parlare, riprendono una storia che si sono raccontati mille volte, quella del sarto a cui era stato commissionato un bel pantalone a righe; ma, tutte le volte che il cliente andava a ritirarlo, il sarto rinviava la consegna, il lavoro richiedeva tempo. Spazientito, il cliente gli ricorda che Dio ha creato il mondo in solo sei giorni e il sarto gli chiede se ha mai guardato bene che schifo di mondo c'è stato dato, mentre i suoi pantaloni, c'è da esserne orgogliosi! Questa storia se la sono raccontata la prima volta in barca sul lago di Como, il giorno del loro fidanzamento: avevano riso tanto da rischiare l'annegamento. (In Beckett ogni indicazione di luogo è puramente casuale, in genere, è legata per assonanza alla parola che precede).
Portato in giro da Clov sulla sua sedia, che dovrebbe avere ruote di bicicletta, ma non ce ne sono più, accosta l'orecchio al muro, picchia su e esclama che di là, nell'altro inferno c'è il vuoto come di qua...Chiede spesso a Clov di guardare fuori con il cannocchiale per descrivergli quello che vede: il mare, i gabbiani, il lontano orizzonte, il sole al tramonto, ma Clov non vede nulla se non tutto nero, senza luce. Poi c'è la storia della pulce, forse una piattola nel pantalone: bisogna farla fuori, potrebbe ricostituire l'umanità...E giù a cospargersi di povere insetticida.
Hamm ha sempre bisogno di parlare, il suono della voce serve, forse, a rassicurarlo: le pause, il silenzio, il vuoto, il nulla sono i veri protagonisti della pièce. E così inizia a raccontare una lunga storia che lo accompagnerà sino alle ultime parole dette: una storia confusa, piena di contraddizioni, tempo e spazio indefiniti, come sempre in Beckett. Ha bisogno di spettatori ed ottiene da Nagg, il padre, il piacere di ascoltarlo, in cambio di una caramella, un confetto, meglio. C'è qualcuno che si avvicina al narratore (è il racconto), strisciando, chiede cibo per sé e per un bambino che dice di aver lasciato da qualche parte... Poi, stremato, chiede a qualcun altro di continuare la storia, di dargli la battuta, sempre per riempire il silenzio nell'attesa di chi? Di che cosa? Nulla, nulla, non succederà mai nulla. Ogni tanto Hamm chiede a Clov di scoperchiare i bidoni, però non è che un gesto senza senso, sempre per paura del vuoto, della difficoltà di riempirlo. Chiede se è giorno o è già notte, la risposta è che è sempre giorno, un giorno senza luce. Chiede anche che gli si porti il cane e Clov arriva con un cane di pezza, senza una zampa... Una battuta che viene pronunciata, rovesciata rispetto al luogo comune conosciuto: «Si piange per non ridere», ma di cosa si può ridere: di essere venuti al mondo? Ecco altre parole su cui riflettere: «La fine è nel principio, eppure si continua». Hamm, diciamo, è il filosofo, un po'come Vladimir, l'altro burattino di Aspettando Godot, Clov, invece, è il rinunciatario, colui che vorrebbe disertare, come gli suggerisce Nell. La parola disertare nasce per associazione, soprattutto sonora, con deserto. Comunque anche lui non riesce ad andare via anche se più volte l'annuncia. Perché Clov non lo mette nella bara- bidone? - ecco un'altra richiesta di Hamm. Non ce ne sono più, sono finite: condannato a restarsene là! Clov guarda ancora dalla finestra, racconta a Hamm che forse c'è un bambino, che si avvicina, che si allontana, non si sa. Finalmente Clov annuncia: «Ti lascio». E su richiesta canta una canzone che sembra esaltare l'amore ma, poi, non è che uno sputo sull'amore stesso. Clov pronuncia ora una frase chiave: «Io mi dico...qualche volta, Clov, bisogna che tu riesca a soffrire meglio di così, se vuoi che si stanchino di punirti...un giorno. Mi dico... qualche volta, Clov, bisogna che tu sia presente meglio di così, se vuoi che ti lascino partire...un giorno. Ma mi sento troppo vecchio, e troppo lontano, per poter formare nuove abitudini. Bene, e allora non finirà proprio mai...». Clov va verso la porta, guadagna l'uscita, come si dice. Hamm è solo, il fazzoletto aperto davanti a sé, le sue parole cadono nel vuoto, pronuncia : «Vecchio straccio! (Pausa) Tu...resterai con me» (Pausa. Si avvicina il fazzoletto al volto)
«La terra si è spenta, benché io non l'abbia mai vista accesa».

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