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13. Labirinti di lettura
III. Il trono, l'altare (e al-minbar)Settimo percorso
arcipelago islam- seconda parte -
Ritorna al sesto percorsoIn questi percorsi ho più volte appoggiato la tesi di una non uniformità dell'islam, contro le letture unidimensionali spesso adottate da commentatori e ideologi occidentali. Ora, la lettura di un libro di Massimo Campanini e Karim Mezran, Arcipelago Islam. Tradizione, riforma e militanza in età contemporanea [Bari-Roma, Laterza, 2007, pp. 210] ci fornisce un panorama abbastanza dettagliato della storia più recente e dei diversificati movimenti esistenti in ambito islamico.
Si tratta di un testo che non fa suo un punto di vista di critico nei confronti della religione e che per questa ragione presenta, a mio avviso, qualche astrattezza in alcune definizioni preliminari - come ho già scritto nel caso del solo Campanini, a proposito di democrazia e islam, di cui ho parlato nel precedente quarto percorso. Per esempio, gli autori definiscono l'islam come espansione nella sfera del sociale "non necessariamente nella sfera del politico", che è una distinzione utile per dal punto di vista analitico, ma scarsamente consistente dal punto di vista di un giudizio d'assieme, a meno che non si abbia una nozione riduttiva di ciò che è il politico. Così come è molto problematico che si possa parlare dell'ideologia islamica come ideologia in senso buono, "cioè di una concezione onnicomprensiva della realtà che guida la prassi storica e sociale degli uomini", senza mettere in evidenza l'effetto di schiacciamento che proprio questa onnicomprensività opera sulla pluralità dei ruoli umani.
Poiché nel libro viene poi sviluppato il tema della religione che da "scienza astratta di un Dio la cui essenza rimane inconoscibile", si trasforma in antropologia, ossia in "scienza concreta dell'uomo che lotta per i propri diritti", con una valorizzazione assai interessante che gli autori fanno di questo filone religioso-culturale esistente nell'ambito dell'islam, mi chiedo come si possa pretendere di tenere separata questa antropologia dalla politica. Infine, mi sembra piuttosto temeraria e poco credibile l'affermazione che "religione e politica non sono state mai (o pressoché mai) mescolate nella pratica della gestione degli stati islamici".
Ciò detto, vanno segnalate alcune fondamentali distinzioni che gli autori introducono nel paragonare l'islam ad altre religioni, come il cristianesimo e, in particolare, il cattolicesimo. L'islam non ha una ortodossia (almeno non nel caso della maggioranza sunnita) e, quindi un dogmatismo identificabile con una dimensione sacerdotale. Da questo punto di vista, piuttosto che un'ortodossia, nell'islam esiste una ortoprassi, ossia quello che si fa nella concretezza della vita quotidiana importa di più di quello che si crede. Il che lascerebbe ampi spazi alla libertà di interpretazione religiosa e poco spazio al comportamento incoerente del credente rispetto a ciò che crede. Si tratterebbe perciò di una religione con una scarsa tolleranza per le doppie morali, così in uso nell'ambito cattolico. Per quanto, la cronaca contraddica ampiamente il fatto che tale indirizzo sia rispettato, per lo meno a livello di gruppi dirigenti. Insomma, l'islam sarebbe una religione teocentrista e non teocratica, persino nel caso degli sciiti, la cui credenza sarebbe meglio definita come ierocratica, ossia "un sistema in cui gli esperti di scienze religiose godono di particolare autorità".
L'ingombrante, pervasiva e soffocante presenza della divinità, che innerva le società islamiche, teocrazia o teocentrismo che siano, è comunque confermata. Tanto più se, come ci ricordano gli autori, "per il concetto islamico hanno maggior valore il gruppo e la Comunità dell'individuo" e se si considera che, "in linea di principio, non esiste diritto naturale nell'islam, poiché l'origine del diritto è rivelata"; così da non giustificare, certo, ma da dare una spiegazione alla lapidazione, che d'altra parte non è pena coranica, mentre lo è la fustigazione. Confesso che non per questo tiro un sospiro di sollievo.
Tutto è cominciato, per così dire, con la crisi dell'islam e con il sorpasso dell'Europa tra XVI e XVI secolo. Gli autori elencano i vari fenomeni che accompagnarono la decadenza islamica, ma non si soffermano a cercarne una spiegazione, forse anche perché ciò li avrebbe portati un po' troppo lontano dagli obbiettivi del libro. Tuttavia, la mancanza di questo tassello fondamentale, se nulla toglie alla perspicuità delle pagine successive, mantiene per forza di cose l'analisi in un ambito descrittivo al termine del quale il lettore – questa è la mia impressione – non disporrà ancora di una chiave interpretativa esauriente. Sta di fatto che tra XIX e XX secolo "l'Europa sfidava la tradizione islamica proponendo le nuove categorie di nazione, popolo, libertà, democrazia e secolarismo". La forza politica, economica e militare, nonché il fascino esercitato da queste idee, promossero un riformismo islamico, che non si propose tanto di modernizzare l'islam, quanto di "islamizzare la modernità". Un tentativo che in qualche modo continua a riproporsi ancora oggi, come abbiamo visto nel caso Tariq Ramadan e come vedremo più avanti nella rassegna dei movimenti islamici fatta da Campanini e Mezran.
Qui c'è uno snodo fondamentale della questione su cui interrogarsi e anche una riflessione da fare nel confronto tra cristianesimo e islam. Voglio dire che una delle idee fondamentali del Corano è che Dio avrebbe inviato altri profeti all'umanità, prima di Maometto (Mosé, Gesù), ma che le successive interpretazioni e deviazioni degli uomini avrebbero tradito la verità originaria. Per cui Allah avrebbe ritenuto necessaria una nuova e definitiva profezia, ordinando l'assoluta intangibilità della nuova Parola e fondando su ciò l'identità del musulmano. Per cui, qualsiasi novità che si presenta nella storia deve essere interpretata solo alla luce del libro sacro. Il cristianesimo (specialmente il cattolicesimo) non nega un approccio simile, ma ha avuto la flessibilità o l'accortezza di rendere indivisibili la sacralità e la verità della Parola originaria con il magistero successivo della Chiesa, come crescita legittima della fede. Per cui l'interpretazione del Vangelo ha assunto uno statuto diverso, fondato su un sia pur tenue approccio evolutivo. Questo manca del tutto nell'islam.
Tanto è vero che il movimento salafita iniziato alla fine dell'800 (da salaf, antenati) e che è largamente maggioritario, per modernizzare si rivolse al passato, invitando a tornare alle fonti della purezza originaria, a quelle fonti che si presumeva avessero a suo tempo fatto grande l'islam e che avrebbero contenuto tutta la razionalità e la modernità di cui i musulmani avevano bisogno. Come se, ricollegandosi al periodo della nascita e della prima espansione dell'islam e accantonando tutte le tradizioni e le prescrizioni successive che ne avevano sfiancato l'efficacia, come per incanto l'islam potesse risorgere a nuova vita e riacquistare l'antico predominio. Generalizzando molto, questa a me pare la scelta dominante in tutti i riformismi islamici, anche successivi, moderati o radicali, i quali hanno tentato e tentano di conquistare il futuro con la testa voltata all'indietro. L'antica grandezza esercita un'attrazione ipnotica irresistibile, oltre ad essere una torsione intellettuale obbligata, che i religiosi strumentalizzano e da cui gli intellettuali non riescono a liberarsi, salvo in alcuni casi assolutamente minoritari. Inoltre, è proprio questo ossessionante principio di autosufficienza, così caratteristico dell'islam, che rischia di sbarrare la strada al dialogo, alla reciproca fertilizzazione delle idee e a una evoluzione globale positiva.
Sta di fatto che, con il tempo, l'attrazione iniziale dei paesi musulmani nei confronti dell'Occidente si mutò in diffidenza e anche in un atteggiamento conflittuale. Per i nostri autori, le cause principali di questo mutamento sono state due: "in primo luogo, la percezione che l'Europa non era solo fonte di progresso e di scienza, ma anche di sfruttamento coloniale e di imperialismo culturale; in secondo lungo, il timore che appunto, l'imperialismo politico e culturale europeo avrebbero sradicato i musulmani dalle loro radici civili, religiose e sociali". La storia dei rapporti che nel Novecento hanno segnato il binomio Islam-Occidente è peraltro magistralmente descritta nel libro di Robert Fisk, Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese racconta cent'anni di invasioni, tragedie e tradimenti, che ho citato più volte.
Molto interessante e illuminante è la storia della cosiddetta seconda ondata del riformismo islamico, che parte all'incirca dagli anni Trenta del secolo scorso, incentrata soprattutto sui Fratelli musulmani egiziani e sulle loro diramazioni in altri paesi. Un movimento il cui successo è dovuto in gran parte alla "rigida ed efficiente organizzazione gerarchica" e al "loro radicamento sociale". In effetti, oltre ai motivi religiosi di fondo del movimento (i Fratelli musulmani erano convinti "del valore politico della religione e anzi affermavano che l'Islam non conosce potere spirituale che viene riassorbito dal politico"), la loro ideologia "si muoveva di fatto verso un socialismo islamico che non era dissonante dal socialismo arabo nasseriano." Secondo Sayyd Qutb Ibrahim Husayn Shadili, un intellettuale inizialmente laico, tuttora molto letto e seguito, condannato a morte nel 1966, l'Islam è, tra l'altro, "la religione dell'unificazione tra tutte le forze dell'essere; non per nulla è la religione della Unicità (tawhid): unicità di Dio, unificazione di tutte le religioni nella religione di Dio, uniformità del messaggio trasmesso da tutti i profeti dall'alba della vita [...] L'Islam è la religione che unifica l'atto del culto e l'atto sociale, il dogma e la Legge, lo spirito e la materia, i valori economici e quelli essenziali, l'aldilà e l'al di qua, la Terra e il cielo". Insomma, è una religione o ideologia totalizzante che è, contemporaneamente un'arma di lotta contro l'Occidente, inteso anche razzialmente. Altrove, Qutb, esponente di spicco dei Fratelli musulmani, piegatosi progressivamente verso un radicalismo sempre più acceso a causa delle delusioni politiche e delle sconfitte subite dal nasserismo, ha infatti scritto che "l'uomo bianco è il nostro primo nemico, sia che egli si trovi in Europa, sia che si trovi in America. Ciò richiede che noi teniamo conto di noi stessi e che ci poniamo come pietra angolare nella nostra politica estera e anche in quella interna. È necessario che i nostri figli nelle scuole accrescano i loro sensi e aprano le loro menti agli oltraggi dell'uomo bianco e al suo progresso e alla sua cupidigia. È necessario che il traguardo della nostra educazione sia l'emancipazione dall'influenza dell'uomo bianco. Non soltanto politicamente o economicamente, ma socialmente, sentimentalmente, intellettualmente."
Qutb viene considerato come una delle fonti intellettuali di Osama bin Laden ed era, ci ricordano gli autori, "fortemente avverso all'idea di progresso che, a suo avviso, domina la civiltà occidentale". Del resto, secondo Qutb, l'obbedienza ai governanti sarebbe dovuta fintantoché "il governante riconosce che il governo appartiene a Dio soltanto e quindi applica la Legge di Dio", tanto da essere all'origine, sembra della prima teorizzazione moderna del martirio per cause politiche, come via d'accesso al paradiso. Quello che potremmo chiamare una specie di rigorismo calvinista di Qutb, però basato sull'assoluta prevalenza della comunità, attaccava i fondamenti stessi e le origini del pensiero occidentale, a cominciare dalla civiltà greca e culminando con la condanna di Darwin, il quale avrebbe "trascurato che l'ordinamento del mondo dipende da una volontà trascendente e che nessuna cosa opera disordinatamente e a caso". Ancora un esempio di assoluta incomprensione religiosa dell'evoluzionismo, che non opera affatto a caso né tanto meno disordinatamente. La creazione sarebbe invece "ininterrotta, continuamente rinnovata e inesausta". In altre parole, Qutb assegna ad una divinità una funzione che viene svolta dalla natura e che è spiegabile senza ricorrere a cause trascendenti.
L'ispirazione a Qutb e ad altri pensatori o teologi medievali (ancora il medioevo!) produsse la radicalizzazione dell'islamismo degli ultimi decenni del Novecento – scrivono Campanini e Mezran – con una moltiplicazione di tendenze il cui segno unificante risiedeva in un rovesciamento dell'originaria ispirazione dei Fratelli musulmani, secondo i quali l'islamizzazione della società doveva procedere dal basso. I nuovi movimenti islamisti teorizzavano l'islamizzazione "dall'alto, imposta con la violenza, a prescindere dall'assenso o meno di chi la subiva". Gli autori passano così in rassegna quasi tutto lo scacchiere geopolitico musulmano esaminando le tendenze e i caratteri dei più noti movimenti e degli esponenti di maggiore spicco, che sarebbe troppo lungo tentare di riassumere qui.
Certamente, le politiche neoliberiste e di aggiustamento strutturale imposte dalla autorità monetarie internazionali in quegli anni, costringendo gli stati ad abbandonare le già limitate politiche di welfare esistenti, hanno favorito l'affermarsi di un "vasto network di associazioni caritatevoli, scuole ed enti di beneficenza" gestiti dai movimenti islamici di varia tendenza. Le politiche estere occidentali hanno poi spesso spianato la strada al radicamento del terrorismo. Non è qui il caso di ripercorrere i casi dell'Afganistan, della Palestina, del Libano e, più recentemente, dell'Iraq. Ma, avvertono gli autori, guai a confondere tra loro i diversi movimenti esistenti. Il radicamento sociale di Hamas o di Hizballahha molto poco a che fare con un'avanguardia sradicata come Al-Qa‘ida.
Gli autori prendono poi in esame le nuove tendenze esistenti, cominciando dagli islamisti moderati, che non sono pochi né privi di influenza. Moderati nel senso che rifiutano la violenza come metodo, ma anche nel senso che, pur ponendosi l'obbiettivo dello Stato islamico, tuttavia stabiliscono un rapporto positivo con la democrazia, con la scienza, tentando un'attualizzazione dei valori dell'islam. Alcuni di loro sono Rashid al-Ghannushi Khriji, tunisino; 'Abd al-Salam Yasin, marocchino; gli egiziani Muhammad Miwtalli al-Sha'rawi e Yusuf al-Qaradawi: quest'ultimo è "un personaggio molto mediatico, vive nel Golfo, tiene una rubrica televisiva seguitissima e le sue opinioni fanno scuola in tutto il mondo arabo". Viene preso in esame anche il pensiero di Tariq Ramadan.
Molto interessante anche il capitolo sugli esponenti della teologia islamica della liberazione, presenti sia nel sunnismo che nello sciismo. Questi pensatori sostengono il carattere rivoluzionario dell'islam e per questa ragione potrebbero essere considerati come costituenti di una sinistra islamica. In questi pensatori (uno per tutti l'egiziano Hasan Hanafi che punta alla trasformazione della teologia in antropologia) "gli uomini sono di fronte a Dio in orizzontale, su un piano di parità, senza subordinazione verticale del povero al ricco, del nero al bianco, del debole al potente" e la trasformazione della teologia in antropologia significa che "non tanto importa sapere chi è Dio, quanto importa liberare la creatività umana per costruire una teologia della terra, una teologia della liberazione". Insomma, "Dio diviene il progresso realizzato nella storia o lo sviluppo della Comunità. Perciò ogni teologia che ammette una concezione gerarchica del mondo è conservatrice e di destra."
Va detto che, in genere, questi nuovi teologi di sinistra non sono meno antioccidentali degli altri, ma hanno una scarsa influenza popolare.
Infine Campanini e Mezran esaminano il femminismo islamico. Anche in questo caso "l'obbiettivo del pensiero islamico femminista è quello di conciliare l'Islam e il rispetto dei diritti delle donne musulmane, attraverso il recupero dei valori originari della religione." La rilettura del Corano (qualche accenno lo abbiamo visto con Fatema Mernissi) si sforza di distinguere i valori senza tempo dei principi etici e sociali del Libro da ciò che invece "va contestualizzato in risposta a precise circostanze storiche". Condivido l'osservazione degli autori sull'importanza di questo filone, perché esso "è potenzialmente capace di modificare il rapporto del fedele con la religione laddove suggerisce una lettura alternativa al testo sacro, che deriva dall'assunzione di una responsabilità critica autonoma." Si tratterebbe di un bel passo in avanti per uscire dall'ipnosi religiosa in cui si aggirano quasi tutti gli altri islamisti. Le brevi biografie delle femministe musulmane più importanti, tracciano un panorama discretamente completo di questi movimenti, come quella dell'afroamericana Amina Wadud che nel 2005 ha condotto la preghiera del venerdì senza velo (ma a New York); come quella di Nadia Yasin, marocchina; come quella della libanese Afaf Hakim.
In conclusione, gli autori suggeriscono alcune linee guida utili ad evitare che le organizzazioni terroriste, largamente minoritarie e marginali nell'insieme del mondo musulmano, possano avere qualche possibilità di successo grazie agli errori dell'Occidente. Intanto, occorre evitare l'identificazione infondata e automatica tra gli islamisti, tradizionalisti o meno, con il terrorismo. In secondo luogo occorre evitare di pretendere di scegliere chi sono i musulmani buoni e chi i cattivi "a seconda di quelli che sono gli interessi dell'Occidente.""Ciò – aggiungono – porta in primo piano il problema della democrazia", circa la quale esprimono l'opinione "che si debba favorire una via islamica alla democrazia, che potrà non corrispondere pienamente con i criteri della democrazia occidentale." E qui mi permetto qualche perplessità, perché vorrei che venisse chiarito, piuttosto in dettaglio, che cosa della democrazia verrebbe considerato occidentale e perciò non acquisibile. Un accenno degli autori al fatto che nell'islam i diritti universali sono da porsi "più sul piano della comunità che su quello dell'individuo" mi mette immediatamente in allarme. L'affermazione di Campanini e Mezran non è giustificabile con il fatto che "il liberalismo, in Islam, non vuol dire liberismo – la categoria che oggidì più riscuote successo in Occidente." Una parte dell'Occidente sa bene questo e non si può fare finta (anche tra gli islamici) che non esiste una lotta politica in corso proprio su questo punto. Ma tutto ciò non autorizza a dire che combattere il liberismo significa sposare giocoforza un comunitarismo governato dalla religione, come vedremo nel percorso immediatamente successivo.Ottavo percorso
la questione dell'identitàIl tema dell'identità è apparso di continuo durante questi percorsi e mi sembra che mai come in questi ultimi tempi esso sia invocato a proposito e a sproposito, a testimoniare un radicale cambiamento delle condizioni geopolitiche, la rottura di antiche certezze e di usanze consolidate, la perdita di orientamento sociale e i mutamenti demografici, il cambiamento dei modi di produrre e la crisi dei compromessi sociali storici (almeno nel mondo più sviluppato). Probabilmente è proprio il fatto che il lavoro costituisce uno dei più penetranti mezzi di auto riconoscimento della propria identità e il fatto che sia diventato così strutturalmente labile, liquido - per usare un'espressione che Zygmunt Bauman riserva all'intera categoria della modernità attuale – probabilmente è stato proprio tutto ciò che ha favorito l'aumento delle incertezze e una maggiore frammentazione sociale dei comportamenti.
Da un lato, ci sono le interpretazioni, come quella di Luca Tosti, che ho citato nel terzo percorso dell'ottavo Labirinto, secondo cui il senso di una ricerca (di senso, di identità e così via) è nella ricerca stessa. Perciò, "il punto di arrivo finisce per il prospettarsi come un nuovo punto di partenza, ma verso terre totalmente inesplorate"; insomma che "le risposte che non sollecitino altre domande non sono risposte". Un atteggiamento che mutua un abito mentale scientifico e laico, che però richiede una formazione e un esercizio continuo della razionalità e delle capacità critiche. Dall'altro, ci sono gli atteggiamenti che ho chiamato le manie dell'assoluto, con la più tranquillizzante e quieta abitudine delle risposte definitive, che scaricano gli esseri umani dalla responsabilità personale. In mezzo ci sono le gradazioni più varie dell'uso della questione dell'identità che in vario modo mettono tra parentesi il fatto che identità e persona, identità e autonomia, identità e contesto socio-economico e culturale sono declinati in modo assai vario e multiplo. Quando, come spesso accade, la questione dell'identità non equivale a un richiamo all'ordine, a serrare le fila di fronte ad un nemico reale o supposto, facendo scattare contro quelli che non rinunciano a ragionare l'accusa di debolezza, se non addirittura di tradimento. Vecchia ferraglia oggi tornata in auge.
Naturalmente, sono molti i contributi e le diverse prospettive che sarebbe necessario prendere in considerazione per parlare della questione dell'identità. Ma in relazione al carattere di questi Labirinti multipli, centrati sul tema della religione e delle sue pretese assolutistiche, il libro di Amartya Sen, Identità e violenza [Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 221] fa al caso nostro più di altri saggi.
Si tratta di un libro importante, come tutti quelli del Premio Nobel per l'economia nel 1998, che decolla quasi impercettibilmente, di gradino in gradino analitico, allargando progressivamente lo sguardo per illustrare il concetto di quanto sia abusivo e micidiale il tentativo di chiudere la persona in una identità univoca o egemone, perché "l'imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell'arte marziale che consiste nel fomentare conflitti serrati." È storia, anche recente, il fatto che un gran parte delle guerre e delle atrocità commesse derivino dall'illusione di una identità univoca e senza possibilità di scelta.
L'avversario principale di Amartya Sen è il comunitarismo, ossia quel filone antropologico e politologico che ritiene l'identità comunitaria non solo positivamente prevalente, ma anche in qualche modo predeterminata, senza tenere conto né del modo di essere anche più intimo delle persone, né della libertà di scelta che dovrebbe essere alla base di una vita democratica, né del fatto che le identità di ognuno di noi sono in realtà mutliple. I comunitaristi adottano così un riduzionismo e un determinismo tanto più pericolosi in quanto applicati ad argomenti storico-sociali e politici. Magari si tratta delle stesse persone che sono pronte ad accusare di riduzionismo e di scientismo i metodi usati dalla scienza per accumulare conoscenza. Amartya Sen, usa una metafora molto efficace: "la tentazione di ricorrere al determinismo culturale spesso assume la forma catastrofica di ancorare al ruolo della cultura una nave che corre a tutto vapore."
Ma l'autore non esenta nemmeno la scienza economica e, in particolare, la teoria economica prevalente dall'accusa di essere artificiosa e unilaterale, in quanto totalmente indifferente all'identità, inventandosi la figura dell'uomo economico (homo oeconomicus) che rappresenterebbe l'agente razionale che è alla base del funzionamento del mercato. Un'astrazione che viene spesso pagata concretamente molto cara, come ha documentato anche Joseph E. Stiglitz.
Per la teoria comunitarista, purtroppo in ascesa negli ultimi anni, l'adesione al gruppo "tende spesso a considerare l'appartenenza alla comunità come una sorta di estensione dell'io all'individuo". In buona sostanza, l'individuo non avrebbe accesso a concezioni dell'identità indipendenti dalla comunità e, inoltre, nella comparazione dei diversi fattori "l'importanza della identità comunitaria risulterebbe evidente." Tornano qui, in qualche modo, anche le osservazioni di Jervis sulla persona plurale di cui abbiamo parlato nel terzo percorso e persino i dati neurobiologici e della psicologia sperimentale che dovrebbero essere a nostra disposizione nell'interpretare il funzionamento della nostra individualità. "Se il circuito comunitario è stretto e chiuso – osserva Sen - la libertà di scelta non esiste perché non si hanno alternative." Le cronache sono piene di tragedie in cui la piccola comunità familiare, più o meno larga, oltre a quelle più vaste, sono responsabili di comportamenti inaccettabili e di vere e proprie tragedie.
I comunitaristi, in buona sostanza, chiudono e suddividono le popolazioni in tanti compartimenti, ognuno dei quali corrisponde a una diversa civiltà, in genere identificata su una base religiosa. Non starò qui a richiamare il solito Huntington e la sua "percezione piuttosto nebulosa della storia." Il pericolo maggiore, annota saggiamente Sen, è poi nel fatto che in questo modo l'Occidente tende a dare una risposta al fenomeno terrorista particolarmente inefficace. E pericolosa, aggiungo, per le stesse democrazie occidentali. L'autore lamenta, ad esempio, che gli esponenti del clero islamico vengano senz'altro assunti come i portavoce dell'intera galassia musulmana, come già denunciano Fatema Mernissi e altri esponenti dell'islam moderato. In tale modo si cancellano milioni di individui che, nell'ambito dell'islam si battono, pagando spesso di persona, per godere di una maggiore libertà di pensiero, di comportamento e per avere diritti politici e sociali.
Uno dei pregi del saggio di Amartya Sen è che riporta alla realtà il discorso culturalista estremo praticato dai comunitaristi (che assegna cioè alle culture non solo una dinamica autonoma dai processi sociali e economici, ma in qualche modo anche una prevalenza), per esaminare le condizioni strutturali delle società che vi sottostanno e che l'accompagnano (e, in una certa misura, che le condizionano). In primo luogo, per quanto possa essere fondamentale, per l'autore la cultura "non è l'unico elemento che determina la nostra vita e la nostra identità. Anche altri elementi, come la classe, la razza, il genere, la professione, la politica, posso avere un ruolo. E un ruolo molto importante." Qui, peraltro, andrebbe sviluppata una riflessione specifica sulla religione come fattore identitario, perché esiste una grossa differenza tra quelle identità plurime e "l'appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità" – come ha detto Gustavo Zagrebelsky in un recente convegno. Il che comporta finanche dei problemi per l'esistenza di una corretta democrazia.
In secondo luogo, assumere le culture come qualcosa di organico e omogeneo significa non avere la minima idea né delle società a cui ci si riferisce, né di come funziona e si sviluppa in realtà la convivenza sociale. Mi pare che valga, anche in questo caso, la solidità di un approccio evoluzionistico, che esige la varietà e la variabilità, piuttosto che l'ossificazione e la chiusura; e non c'è ragione di ritenere che il corso per così dire naturale delle culture risponda ad altri criteri. Caso mai, quando non vi risponde esse scompaiono, come è accaduto per tante specie animali.
Ma, saggiamente e in modo equilibrato, tornando alla questione islamica identitaria, l'economista osserva come "per contenere la grossolana e oscena generalizzazione che accusa gli individui appartenenti alla civiltà islamica di essere depositari di una cultura bellicosa", sia piuttosto consueto che "si affermi al contrario che la cultura islamica è una cultura di amicizia." Una foto impietosa di modi di ragionare che hanno rinunciato alle analisi differenziate e comparative per rifugiarsi, in un caso e nell'altro, nell'ideologia. Se si imbocca questa strada, non si potrà certo sostenere che la cultura del cristianesimo, storicamente parlando, sia un cultura di pace. Ma nemmeno il suo contrario. La semplificazione culturale, insomma, non serve a niente, non serve a capire ciò che abbiamo di fronte, non serve a comprendere le dinamiche sociali. Serve solo al fatto che "fondamentalisti religiosi e semplificatori culturali occidentali procedono in realtà a braccetto, agli uni e agli altri serve una divisione della realtà in bianco e nero." Quasi che la religione determinasse da sola tutte le decisioni che si prendono nella vita (il che è, per l'appunto, quel che vorrebbero i fondamentalisti religiosi) e quasi che ognuno di noi non esprimesse una serie molto complessa di identità il cui ordine di importanza ai nostri stessi occhi deriva dai fattori più vari. Non ultima l'educazione che abbiamo ricevuto. Il fatto è che, in un caso e nell'altro, "la classificazione unica conferisce un ruolo di comando ai personaggi dell'establishment all'interno delle rispettive gerarchie religiose". E rinforza anche il loro controllo politico e sociale.
Se poi mettiamo a confronto Occidente reale (quello dei comportamenti economici, sociali e della politica estera che vengono di fatto praticati) e Occidente presunto (quello delle dichiarazioni di principio e delle costituzioni scritte), assieme all'origine di alcuni principi universali, quale quello della libertà, scopriamo – sottolinea l'autore – che "non c'è niente di specificamente occidentale nel giudicare la libertà un bene prezioso". Anzi, se l'Occidente continua a pretendere di essere il depositario esclusivo dei valori democratici, associandolo nei fatti a comportamenti di potenza e di prepotenza, il rischio è che "la reazione più naturale nell'opporsi all'invadenza occidentale consiste nel buttare via il bambino con l'acqua sporca"; ossia, nel considerare la democrazia una insidiosa e blasfema idea occidentale. Non serve ripercorrere qui gli esempi che Sen porta a sostegno della sua tesi, compresi i casi di esperienze democratiche nate, anche in altre epoche, in paesi non occidentali, e i casi di mancata coincidenza tra culture e religioni, le cui comparazioni mostrano come gli alfieri dello scontro di civiltà siano piuttosto superficiali, oltre che pericolosi.
Ciò detto, l'autore passa a esaminare il rapporto tra la libertà culturale e le priorità che si assegnano al multiculturalismo. La diversità culturale è certamente un valore, ma se concentriamo la nostra attenzione sulla libertà, inclusa quella culturale, allora non possiamo ignorare che la diversità culturale non può essere assoluta. E ciò in quanto "perorare la diversità culturale perché è quello che gruppi diversi di persone hanno ereditato dai loro predecessori", nonostante le apparenze, non è un argomento a favore della libertà culturale. Specialmente se alla persona non sono stati forniti gli strumenti critici e conoscitivi per poter scegliere. In questo caso si tratta piuttosto di un conformismo forzato quando non di un conservatorismo. È qui che si consuma una paradossale convergenza tra certi ambienti di sinistra e il tradizionalismo di altre culture. A questo proposito, anche Amartya Sen, come gli autori di cui abbiamo in precedenza parlato, attacca la politica multiculturale della Gran Bretagna, in cui si costituisce in sostanza una specie di federazione delle comunità, ognuna delle quali conserva al suo interno e ripete schemi di comportamento e usanze originari. L'adozione di una tale politica rende difficile ai membri della comunità chiusa di sfuggire alla coartazione delle proprie scelte (dovuta alla pressione sociale circostante e familiare) e le scuole di impronta religiosa e etnica non fanno altro che prendere dei bambini e dire loro: "Questa è la tua identità e non potrai avere altro." Si tratta di una tesi simile a quella sostenuta dal politologo Giovanni Sartori in Pluralismo, multiculturalismo e estranei [Milano, Rizzoli, 2000. pp. 126], secondo il quale "il multiculturalismo non è una prosecuzione ed estensione del pluralismo ma un suo capovolgimento che lo nega".
In coerenza con la tesi che il culturalismo non può spiegare tutto né essere autosufficiente, Amartya Sen affronta poi il capitolo della globalizzazione passando in rassegna alcuni dei fattori che sono alla sua base. In questo modo, sarà poi più agevole risalire dalle cause di tante distorsioni all'adozione di politiche appropriate.
Intanto, va detto che il sentimento di appartenenza globale esiste, anche se non è abbastanza diffuso, e che – quali che siano le critiche che vengono mosse alla globalizzazione - il movimento dei non global esprime proprio questo sentimento di appartenenza, anche se oggi non è più così vivace. Un sentimento importante, perché esso è la base primaria di un'etica universale condivisa.
C'è qui, al di là delle troppo facili formule del tipo glocal (globale e insieme locale), un confronto tra ciò che è provinciale e ciò che è globale e che rischia di fare danni ulteriori nei paesi meno sviluppati. Se, per esempio, si dice che la globalizzazione va combattuta in quanto implica una occidentalizzazione, si deve sapere che si tratta di una tesi regressiva che ha danneggiato il mondo postcoloniale, perché spesso si tratta invece di idee e pratiche che ritornano dopo secoli nei paesi che le hanno inventate. Se l'Europa avesse a suo tempo resistito alla globalizzazione della scienza, se cioè non avesse accettato di essere invasa dalla matematica, dalle scienze e dalle tecnologie indiane, iraniane, cinesi e arabe, sarebbe oggi "molto più povera – economicamente, culturalmente e scientificamente." Amartya Sen è per una civiltà aperta. E se la globalizzazione suscita critiche e resistenze, "non è perché l'umanità sofferente abbia desiderio di rinchiudersi nel suo guscio", ma perché la globalizzazione così come è non è abbastanza aperta, è a senso unico e questo senso è tutto a favore dei "dominanti del processo [che] non sono affatto intenzionati a dividerne più equamente i frutti."
Toccare questo argomento significa scatenare i fondamentalisti del mercato, i quali sono molto bravi a parlare dei sacri confini della patria quando coincidono con quelli della loro vigna, come diceva anni fa Ghirighiz, un personaggio dei fumetti di Lunari. La domanda da fare, secondo Amartya Sen non è se dalla globalizzazione tutti guadagnano (il che non è peraltro nemmeno vero), ma se la distribuzione del guadagno sia equa e accettabile. E a questa domanda non si può rispondere: "Allora sei contro il mercato!" Né più né meno di quando alle donne che ritengono un assetto familiare iniquo e sessista non si può rispondere "se pensi che l'attuale divisione familiare sia ingiusta nei confronti delle donne, perché non vivi al di fuori della famiglia?" Ovviamente il nocciolo della questione non è famiglia sì famiglia no, ma le sue disuguaglianze interne "rispetto ad altri assetti possibili."
In realtà non esistono "gli effetti del mercato, sempre uguali a prescindere dalle condizioni che governano i mercati stessi". Ci sono nel mondo molti modelli di proprietà, le risorse sono distribuite in un certo modo, le strutture sociali e normative sono diverse, le ragionii di scambio, i prezzi, la distribuzione del reddito, il modello dei consumi sono differenziati. Perciò, i mercati non agiscono in solitudine, secondo ferree regole autoreferenti. Per non parlare delle asimmetrie informative di cui parla Joseph E. Stiglitz e delle barriere commerciali che i paesi più ricchi alzano, frenando le esportazioni dei paesi più poveri. I quali sono magari costretti a cedere le materie prime a prezzi imposti. La globalizzazione non significa semplicemente aprire i mercati, come predicano tanti accademici e politici, ma significa anche la "creazione di assetti istituzionali più giusti ed equi per la distribuzione dei guadagni prodotti dai rapporti economici." Insomma, "l'economia di mercato globale è buona o cattiva quanto buone o cattive sono le compagnie che frequenta".
È a questo punto che Sen comincia a tirare lentamente le fila dell'analisi strutturale, prendendo in primo luogo in esame il problema della povertà nel mondo e il suo supposto rapporto con la violenza, che spesso viene agitato per indurre i paesi più ricchi a comportarsi meglio per evitare guai politici peggiori. L'autore osserva, in primo luogo, che il problema dovrebbe essere visto dal versante dell'etica piuttosto che da quello della politica, e poi annota che l'indigenza può ovviamente indurre a comportamenti che sfidano le leggi e le regole costituite. "Ma non necessariamente – aggiunge – dà alle persone l'iniziativa, il coraggio e l'effettiva capacità di fare qualcosa di estremamente violento". Un morto di fame può essere piuttosto demoralizzato e troppo debole per protestare e combattere. Ma se non c'è un collegamento diretto tra povertà e violenza, sarebbe sbagliato pensare che non ne esista alcuno. "Una cosa dobbiamo capire con chiarezza – conclude su questo punto – e cioè che la povertà, l'indigenza, l'abbandono e le umiliazioni associati a squilibri di potere sono in relazione, in un arco di tempo lungo, con un'inclinazione alla violenza legata a conflitti che traggono linfa dal risentimento contro i potenti di un mondo composto da identità divise". È questa situazione diffusa in una fascia di popolazioni e di paesi, nei quali si ha la sensazione o la certezza che il processo globale li sta lasciando indietro, che si sta subendo un trattamento ingiusto e in cui magari c'è ancora il ricordo delle traversie coloniali subite o dei tradimenti dell'Occidente, che si genera quella muta accondiscendenza, in gente peraltro pacifica, nei confronti del terrorismo.
Ora, esistono ovviamente modi diversi di reagire all'ingiustizia e alle disuguaglianze, ma la strada più semplice e recentemente più percorsa per sfruttare il malcontento fino all'ingresso nella tragedia è quello di canalizzarlo verso un principio di identità, "aprendo spazi di reclutamento a quella che viene spesso considerata violenza di ritorsione." Disgraziatamente, i contrasti politici ed economici "sono fatti in modo da combaciare – come un sottotema – con le differenze di appartenenza religiosa." È da questo versante che è più sensato e corretto risalire al tema del ruolo e del carattere delle religioni, se non vogliamo rimanere impiccati a controversie teologiche e a diatribe pseudo-culturali, senza capire che l'islamismo radicale si pone a cavallo tra slanci religiosi e rivendicazioni economiche e sociali.
Dopodiché, Amartya Sen torna ad esaminare il problema del multiculturalismo e della libertà a cui aveva accennato all'inizio del saggio. Si tratta di un tema non facile, oltre che di grande attualità, perché al suo incrocio rischiano di scontrarsi concezioni che hanno dei fondamenti apparentemente similari, basati sull'apprezzamento di società tolleranti, prive di intossicazioni identitarie. Gli approcci prevalenti al multiculturalismo sono essenzialmente due. Il primo concepisce la promozione delle diversità come un valore in sé; il secondo mette l'accento sulla libertà di scelta e di decisione, nel senso che apprezza la diversità, la varietà in quanto liberamente scelte.
Lo sviluppo come libertà è un tema caro all'autore, che lo ha trattato in altri saggi, e a proposito del quale sostiene che non c'è crescita senza democrazia; dove ovviamente tale crescita non si intende in senso riduttivamente economicistico. Da qui nascono due domande fondamentali:
- se gli esseri umani debbano essere classificati in base alle culture di nascita, non scelte, dando loro la priorità, oppure se valgano anche "altre affiliazioni legate alla politica, alla professione, alla classe, al genere, alla lingua, alla letteratura, ai coinvolgimenti sociali e a molte altre cose";
- se "dobbiamo valutare la bontà di un sistema multiculturale da come lascia in pace gli individui di origine culturale differente, oppure da come mette in grado questi stessi individui, attraverso le opportunità sociali di istruzione e partecipazione alla società civile e al progresso politico ed economico del paese, di compiere scelte ragionate".
Il no dell'autore ad un multiculturalismo che non fornisca fin dall'infanzia gli strumenti per esercitare libere scelte, per apprendere a ragionare, imponendo una cultura della comunità come recinto, è chiaro e molto netto. Così come è chiarissimo l'altro no ad un multiculturalismo che "insistesse sul fatto che l'identità di una persona debba essere definita dalla sua comunità o dalla sua religione".
Invitare in buona sostanza i cittadini ad agire attraverso la comunità – anche come sottoinsieme di un società più vasta - equivale a dare in mano ai leader religiosi e politici lo strumento per mettere in secondo piano definizioni più ampie e plurime di identità, che sfuggirebbero al loro controllo, e significa concepire la società come un insieme di segmenti isolati, come una federazione di culture al cui interno le persone sono di fatto ingabbiate. Ancora una volta, Amartya Sen ricorda l'errore della politica inglese, grazie alla quale viaggiano l'una accanto all'altra un insieme di comunità etniche che difficilmente si incontrano e si influenzano. Ciò che deve essere evitata è perciò la confusione tra multiculturalismo con libertà culturale e monoculturalismo plurale con separatismo a base religiosa. Se si accetta tale distinzione, allora sarà anche più facile capire se talune rivendicazioni di diversità nascono o meno dal mirare a una tale separatezza, oppure accettano di navigare nel mare aperto della libertà di scelta e del rispetto della persona, a partire dalla sua educazione
Se, in altre parole, l'invocazione alla libertà per rispettare le diversità non nasconde la volontà di conculcare diritti fondamentali per favorire un'angusta egemonia della comunità o, peggio, comportamenti criminali. Come nel caso del fratello di Tariq Ramadan, Hani, sulla cui vicenda Farian Sabahi, osserva: "Un'ambiguità [quella di Tariq Ramadan, che sostiene la legittimità del velo alle donne] che nel caso di suo fratello Hani, non sembra esistere affatto. Allontanato dall'insegnamento per avere sostenuto il valore della lapidazione delle donne colpevoli di adulterio, Hani Ramadan ha accusato le autorità di attentare alla sua libertà di espressione". O come nel caso della recente condanna a trent'anni del padre e dei cognati di Hina Saleem, la ventenne pakistana sgozzata e sepolta nell'orto della casa a Brescia perché "voleva vivere all'occidentale". A parte l'episodio di una madre (snaturata) della ragazza, che ha dato in escandescenze, scagliandosi contro la corte e difendendo il marito, è inaccettabile qualche flebile voce levatasi dalla comunità locale con l'invito a rispettare la diversità.
Peraltro, sarebbe interessante approfondire, magari in altra sede, il concetto di meticciato come possibile categoria di interpretazione più onnicomprensiva dei rapporti e del mescolamento in corso tra popolazioni e culture rilanciato da un saggio recentissimo del cardinale Angelo Scola, anticipato su La Repubblica del 23 novembre 2007. Il cardinale muove naturalmente da una concezione della storia inaccettabile per un laico, nella quale è Dio a guidarla secondo un preciso disegno, "cui le movenze contraddittorie della nostra libertà e la libertà della potenza della libertà del maligno non può, alla fine, resistere". Una concezione tradizionalmente contraddittoria della teologia cristiana, che viene coperta con il concetto di mistero, come vedremo a proposito di etica nell'ultimo percorso. Ma quello che interessa qui non sono le motivazioni religiose del cardinale, quanto gli effetti, anche giuridici di una tale impostazione. Riprendendo una proposta di Giuseppe Mirabelli, ordinario di diritto canonico e diritto ecclesiastico, consigliere del Vaticano e già Presidente della Corte Costituzionale, il cardinale parla di un passaggio da "un meticciato dei diritti" a "un diritto del meticciato". Vorrei capire bene cosa significa e in che misura esso rappresenti un passo in avanti sulla strada dell'integrazione, ma non della diversità dei diritti di cui parlava Savater, al di là del fatto che non si può non concordare con l'ecclesiastico che le trincee delle identità sono del tutto illusorie.
Contro l'idea di una identità unica delle persone, d'altra parte, Amartya Sen porta alcuni esempi di vicende orribili di cui è stato testimone, così come tutti siamo stati testimoni di massacri giocati sulla rivendicazione di identità esclusive, specialmente fomentate e invocate da chi orchestrava gli scontri. Eppure, l'approccio comunitarista era originariamente nato da un'esigenza condivisibile, ossia quella di considerare gli esseri umani in modo più completo, esaminandone le caratteristiche anche all'interno di un contesto sociale – commenta l'autore. Come su un altro versante, ma collegato – aggiungo –, l'idea di persona non si può ridurre a quella di individuo, ma deve esprimere tutta la complessità delle sue interrelazioni sociali e culturali, oltre che la pluralità delle sue identità. Purtroppo, in seguito, è prevalsa una visione sempre più ristretta di comunità, con un'amputazione del tipo di quella compiuta dall'economia, per cui gli individui sarebbero "membri di un'unica comunità per ciascuno." Continuo a insistere sul fatto che mentre nelle scienze naturali il riduzionismo è un metodo per avvicinarsi progressivamente alla conoscenza dei fenomeni studiati, nel caso delle scienze sociali e della politica, adottare lo stesso approccio significa, nel migliore dei casi, tentare di incasellare a martellate entro uno schema realtà assai complesse e, nel peggiore, andare incontro a carneficine e a comportamenti barbari.
Cosicché, l'autore si pone una domanda retorica e cioè perché mai, mentre è chiaro perché i fondamentalisti islamici tentino di escludere dai musulmani tutte le identità non coerenti con la loro ideologia, non è affatto chiaro perché quelli che intendono opporvisi cadano in una vera e propria trappola, ossia quella di "affidarsi esclusivamente all'interpretazione e all'esegesi dell'islam invece di ricorrere alle tante altre identità dei musulmani diverse dalla fede religiosa." Perché, se mi è permessa una veloce e certamente troppo schematica risposta, "quelli" dovrebbero rivedere il peso assegnato ai propri interessi di breve e medio periodo a favore di quelli a più lungo termine e di una visione più larga e inclusiva di umanità; perché conviene alle gerarchie di altre religioni e alle politiche conservatrici tentare di stringere la cittadinanza attorno alla coppia amico-nemico, piuttosto che mettere in campo politiche differenziate e non populiste; perché si dovrebbe riordinare il rapporto tra priorità interne e priorità esterne e rivedere la distribuzione delle risorse, correggendo tra l'altro la polarizzazione sociale sempre più accentuata verificatasi negli ultimi decenni.
Insomma, ci ricorda Amartya Sen, è prevalsa una interpretazione tutta comunitarista e parareligiosa negli ultimi conflitti. Primo tra tutti in Iraq, dove gli occupanti hanno subito adottato una politica impostata sulle differenze confessionali che "ha gettato benzina in abbondanza su un incendio già divampato." Il tutto è frutto di quell'approccio iperidentitario, di quella operazione di miniaturizzazione degli esseri umani, che cerca di impedire l'emergere di un sentimento di appartenenza globale e di contrastare la faticosa ma necessaria conquista di una democrazia globale che non usi soltanto il paraocchi dell'economia.
Anche se non mancano recenti critiche e elaborazioni teoriche contro l'idea di un'etica universale, identificata come un processo che porta alla violenza, come nel caso di Judith Butler, in Critica della violenza etica [Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 180], ci si può piuttosto e più concretamente chiedere che razza di etica globale può venire fuori da un approccio basato sulle identità religiose. In questo caso è certo che ne scaturirebbe un'etica armata e sopraffattrice, quali che siano le dichiarazioni di intenti e persino le buone intenzioni degli attori interessati. Se, più che una morale, si può trarre una indicazione prescrittiva da tutta la faccenda esaminata finora, in questo e nei precedenti Labirinti su questo tema, è che bisogna tenere rigorosamente fuori la religione dalla sfera politica e istituzionale e, soprattutto, dai rapporti internazionali e tra comunità diverse, anche per riuscire a portare alla luce i problemi reali. Del resto, la rilevanza pubblica della religione, per la sua diffusione sociale, è assicurata dalle libertà costituzionali e dai diritti umani.
Che Cesare torni ad essere Cesare e non Teodosio o Maometto. Laddove Teodosio (e non Costantino) fu l'imperatore che elevò il cristianesimo a religione di Stato, mentre il Profeta non fece alcuna distinzione tra sfera politica e sfera religiosa. Semmai, Costantino, dopo averne riconosciuto la legittimità, eliminò tutti gli altri rami del cristianesimo: è stato lui il vero fondatore dell'ortodossia.Torna in biblioteca
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