Linguaggio psicopatologico e problema linguistico di Van Gogh
di Ornella Milani

Tornate all'articolo principale su Van Gogh

PROBLEMA DELLA SEMANTICITA' DELL'ARTE FIGURATIVA.

Littrè scrisse che "espressione è l'azione di esprimere, di far comparire al di fuori, di rendere i propri sentimenti". Essa ci presenta l'intiera realtà psichica, profonda, di ogni individuo e ne rende lo stile unico e irripetibile. Il linguaggio, il riso, come il gesto e la mimica, sono dei mezzi attraverso i quali si realizza l'espressione, ma, disse Minkowska, non sono ancora l'espressione che si apre su un mondo tutto suo, irriducibile ad altri fattori. Essa ci "parla", ogni volta, pur ripetendosi sotto forme identiche, con la stessa freschezza e lo stesso sapore di novità e questo avviene perché è l'attuazione di un movimento vivo e dinamico che tende a unificare sempre l'esprimente e l'espresso, così diversi, nella loro natura. Se essi non si raggiungessero, l'espressione come "monismo vissuto" non avrebbe senso di esserci.
Questo bisogno di "buttar fuori" ciò che si sente, che si avverte dentro di noi, ha una portata cosmica, bisogno ugualmente intenso sia negli umili come nei grandi. È un modo d'essere e di realizzarsi dell'uomo, è il segno distintivo della sua creatività, un modo di "declinarsi nel mondo e prendere coscienza di se stessi e della nostra condizione", che ci introduce alla presenza di ciò che è autentico. Come scrisse Calvi: "tra il vuoto espressivo della natura inanimata e il silenzio della presenza dell'amore, si distende tutta l'espressività, a cominciare da quella corporea."
Il mezzo più compiuto e potente attraverso il quale l'espressione si manifesta è senz'altro il linguaggio, esso ci presenta, con la sua capacità metaforica, tutta la ricchezza della vita, ci permette di comunicare e di informare, attraverso segni convenzionalmente accettati e facilmente codificabili.
Ma il tratto più inaccessibile di esso è quell'elemento affettivo, così inerente ad ogni parola, all'esistenza di una significazione che le è propria.
Il nostro linguaggio è soprattutto come espressione che nasce, la comunicazione è "una differenziazione evolutiva dell'espressione" grazie appunto ad una convenzione di segni nell'espressione verbale e dell'intenzione di comunicare sia da parte del trasmettitore che del ricevente.
L'intenzione di significare può aprirsi in una molteplicità di manifestazioni espressive e comunicative o invece ripiegare,verso quella che Husserl chiama "pura esperienza interna". Ci sono situazioni ben determinate nella comunicazione:

1) Il trasmettitore ha l'intenzione di comunicare, il ricevitore è capace di ricevere il messaggio e di rispondere.
2) Il trasmettitore non ha l'intenzione di comunicare, egli monologa o si esprime in qualche altra maniera, secondo la sua fantasia, ma il ricevitore ha l'intenzione di entrare in comunicazione ed è capace di interpretare le manifestazioni espressive del trasmettitore.

In psicopatologia poi c'è un altro caso da prendere in considerazione, cioè il malato che trasmette, ha l'intenzione di comunicare, ma non riesce a farlo più secondo la regola, proprio in quanto malato, mentre lo psichiatra ricevitore ha l'intenzione di ricevere tale comunicazione:
ma questo è un caso particolare e ha bisogno di un discorso molto diverso.
Una lingua vivente non potrà mai ridursi a un codice cristallizzato, come avviene nella lingua matematica, ogni nome possiede "quell'alone semantico "di cui ci parla Piro, un valore affettivo cioè vissuto soggettivamente e difficilmente comunicabile. Pur essendo dunque costruzione storica e sociale, la lingua ha un'origine che si perde nella notte dei tempi; si è venuta costruendo forse con una meravigliosa inconsapevolezza se all'epoca greca ci si domandava se era un dono degli dei o le cose portassero già scritti su di sé i loro nomi Finora tuttavia la linguistica si è sempre occupata molto poco della stilistica lasciando per lo più tale compito alla storia della letteratura e all'estetica.
Gli effetti fluttuanti delle creazioni del linguaggio artistico sono stati spesso respinti dalla corazza storico-grammaticale dei linguisti. Il filologo è indifferente, per non dire ostile all'arte, mentre la stilistica si trova proprio al confine fra il punto di vista linguistico e quello estetico
Il De Saussure aveva approfondito la distinzione fra "langue "come lingua comune, fatto sociale, sistema linguistico di segni, e "parole", come uso individuale.
Aveva cioè distinto tra "le trèsor des signes et des rapports entre signes et tant que tous les individus leur attribuent les memes valeurs "e "la mise en ouvre de ces signes et de ces rapports pour l'expression de la pensèe individuelle".
Aveva così dischiuso alla rigorosa indagine sistematica il dominio linguistico dell'espressione affettiva, pur accentuando il primo aspetto:comune, sociale, di sistema. Il Bally pose a oggetto della nuova disciplina lo studio della "langue de tout le monde, comme moyen d'expression et de action".
Esludeva così l'esame delle parole dello stile individuale, dell'accento personale della lingua letteraria, spiccante soprattutto nell'opera di poesia.
Lo stile individuale ha avuto il suo instauratore in Karl Vossler che dall'Estetica (1902) di B.Croce aveva derivato l'identificazione del linguaggio con la teoria della poesia e dell'arte.
Già nella scienza nuova (1725) di G.B.Vico, c'era l'esortazione a ricercare "le origini delle lingue nei principi della poesia".
Secondo l'affermazione del Croce poesia e linguaggio non essendo due ma uno "lo studio della poesia non può farsi prescindendo dal linguaggio del poeta, che espressamente o per sottinteso è sempre tenuto presente, né quello del linguaggio prescindendo dalla poesia, e neppure si può distinguerlo in due parti come a dire generale e particolare, sul motivo lirico della poesia e del linguaggio in cui si fa concreto, e simili. Ogni riferimento che si faccia o che sia mai fatto alla poesia è riferimento al suo linguaggio che non è con lei, dal quale non si può separarlo come esso non le si può aggiungere."
L'esperienza linguistica si differenzia, per certi caratteri preminenti, da quella estetica – figurativa.
Nell'espressione linguistica dell'artista si riflette qualcosa della sua anima: lo sforzo di cancellare i contorni, di esprimere vaghe impressioni, di concepire simbolicamente e rendere poetica ogni realtà ha per effetto un distacco da tutte le proporzioni oggettive e una preferenza per quelle che distruggono i confini e ingrandiscono lo spazio. Altre le anime altro il significato del mezzo espressivo, come si suol dire "oratio vultus animi "ogni stile linguistico è l'estrinsecazione necessaria dell'anima individuale:ritmo di parola e anima, per cui risulta evidente che la stilistica, ossia la scissione dell'elemento linguistico dall'opera d'arte, debba sparire risolvendosi nell'analisi totale dell'opera artistica.
Ducasse scrisse. "Art is essentially a form of language, namely the language of feeling, mood, sentiment, and emotional attitude".
Quando si parla di espressioni artistiche figurative è discutibile se si possa considerare linguaggio anche la pittura. Le manifestazioni plastiche infatti non hanno quella caratteristica mediatrice di segno ( relazione triadica di segno – oggetto – interprete ) indispensabile perché rientrino nella definizione generale di linguaggio e anche in quella più particolare di linguaggio naturale.
"Il carattere semantico dell'arte figurativa potrebbe essere quindi espresso conclusivamente anche col dire che essa è l'unica arte rigorosamente intraducibile perché in essa, non avendo luogo il linguaggio, non ha senso parlare di traduzione "e ancora "quando giungiamo di fronte ad autentiche opere d'arte, ogni spiegazione è denominazione di quel genere l'argomento del quadro e il titolo che gli ha dato l'autore ci appare superflua e ci infastidisce."
Calogero potrebbe affermare tutto ciò solo in quanto l'espressione estetica – figurativa non è esperienza linguistica, se si tiene presente la definizione di linguaggio come sistema di segni codificabili e convenzionalmente accolti dall'uso comune. In questa asserzione tuttavia ci deve essere anche implicata la definizione che a – semantico corrisponde a non – linguistico. La semantica studia il generale processo di significazione, referenziale ed emotiva, e abbraccia il campo percettivo, linguistico, segnico, simbolico, espressivo. Il significato dunque, abbraccia una prospettiva molto più ampia del linguaggio, in quanto sottende non solo le manifestazioni puramente segniche, ma coincide con l'intera struttura emotiva, conoscitiva, psicologica del soggetto.Uno sguardo, un colore, a volte, possono dire molto di più una lunga ed evoluta perifrasi.
Scrisse Cassirer che l'uomo è "un animal symbolicum", teso, come è per sua natura, a significare.
Ora per Calogero la semanticità appare connessa esclusivamente al linguaggio, per cui essendoci nelle manifestazioni espressive figurative immediatezza asegnica, conclude "semantico è ciò che è collegato con un determinato strumento linguistico, asemantico ciò che non è collegato con quello strumento ".
Il processo di significazione nella sua universalità è una struttura molto complessa, ecco perché le arti figurative risulteranno senza dubbio non linguistiche ( cioè non segniche )ma non asemantiche.
Il significato emotivo infatti, così vicino agli aspetti espressivi del linguaggio, è spontaneo e lo cogliamo empaticamente ed è per questo che la comunicazione di esso è così difficile e relativa.
Esso è difficilmente spiegabile, legato com'è alle componenti d'atmosfera individuali e variabili.
Spesso nel linguaggio artistico esso si palesa con la creazione di una determinata atmosfera espressiva. La significazione emotiva, come quella referenziale quando trapassi dalle forme più semplici a quelle più complesse dei contenuti del pensiero, si diffonde e si stempera nell'insieme della vita espressiva del soggetto.
Ogni stile è intimamente legato all'atmosfera emotiva del suo creatore, a quell'insieme di sentimenti poco chiari, a quel substrato inconscio, che i segni evocano, nel colore, nel ritmo, nel timbro del linguaggio.
C'è una progressività dalla semplice espressività emotiva in intenzionale alla comunicazione emotiva intenzionale. Il linguaggio della poesia, della religione, delle espressioni artistiche appartengono a quel tipo in cui ci può essere nell'individuo un'intenzione di comunicare anche in rapporto alla componente emotiva: egli userà, in questo caso, dei mezzi linguistici, ma anche non linguistici (un timbro particolare, parole più suggestive).
Si può senz'altro attribuire la qualifica di "significato" alle componenti emotive, in quanto in essa potenzialmente c'è comunicabilità sia pur parziale ed empatia.
Alcuni aspetti non comunicabili, che sono del tutto individuali, non possono certo rientrare in una definizione teoretica del linguaggio, pur rimanendo nell'ambito di una semantica intenzionale.
Il modo di esprimersi di ognuno presenta un tipo particolare d'intenzionalità e questo è di fondamentale importanza per considerare il problema del significato, legittimando la diversità dell'uso espressivo e comunicativo, che esprime un diverso modo di aprirsi al mondo, cioè d'intenzionare.
Il rinunciare a forme di espressione prettamente bilinguistiche in favore di quelle non linguistiche non infrange l'unità di comunicazione ed espressione, ci troviamo di fronte ad un diverso indirizzarsi espressivo, ma l'intenzione di significare non viene mai a cessare.
Questo accade anche ai soggetti autistici, che si rivolgono all'uso di forme desemantizzate dal punto di vista linguistico: ma questo è un discorso che sarà approfondito e appreso in seguito.-
Le manifestazioni espressive, portatrici di significato e d'intenzionalità non devono necessariamente divenire comunicazione, per essere linguaggio, c'è sempre insomma una continuità fra esperienza linguistica (segnica) e figurativa, proprio per la continuità del processo di significazione.
Così anche Panowsky non ha alcuna riserva nel parlare di significato delle arti figurative ed accetta la distinzione fra le due sfere di esso (referenziale – fattuale, emotivo – espressivo) e ritiene che il significato dell'opera d'arte possa venir analizzato tenendo conto di una certa stratificazione in rapporto alle diverse caratteristiche del soggetto e contenuto. Quando ci si trova di fronte ad un'opera d'arte, la consideriamo come un sintomo di qualcosa d'altro, interpretiamo dei valori simbolici, che spesso l'artista ignora e che possono divergere da quello che l'artista si proponeva di esprimere.
Egli infatti dando forma a un suo contenuto interiore non aveva nessuna intenzione di comunicare, per l'artista il dialogo con l'altro, sia pur ambiguo e indecifrabile, comincia quando l'opera è ultimata.
Interpretare un'opera d'arte è un po' violare il volto della sfinge, ed è la nostra un'interpretazione del tutto soggettiva e irrazionale, condizionata dalla particolare weltanschauung di ognuno, che "deve essere corretta sempre da uno studio del modo in cui, individuando i principi di fondo che rivelano l'atteggiamento fondamentale di una nazione e di un'epoca, di una classe, di una concezione filosofica e religiosa, mutando le condizioni storiche, muta di pari passo la maniera di esprimere queste tendenze generali dello spirito umano".
I sintomi culturali, cioè i simboli, acquistati attraverso un'analisi iconografica, ci permettono di conquistare la conoscenza di quel soggetto intrinseco e contenuto dell'opera d'arte.
Panowshy distingue in questo modo tre gradi di soggetto o significato, da quello "primario o naturale "che si apprende per identificazione di pure forme, riconoscendo rappresentazioni di oggetti naturali in certe configurazioni di oggetti naturali, di colori, di esseri umani, o certi blocchi di marmo particolarmente modellati, oppure cogliendo caratteristiche d'atmosfera ricche d'espressività, come il carattere doloroso d'una posa.
Questo rappresenta il primo momento, in cui un'enumerazione ci dà una descrizione preiconografica dell'opera d'arte: ed è ora che il significato corrisponde semanticamente al significato referenziale ed emotivo di tutto ciò che percepiamo. Questo significato è quello che ha più importanza per l'analisi semantica: c'è infatti una partecipazione immediata, che non ha bisogno di una traduzione linguistica, e che, sotto certi aspetti, equivale ad un'espressione percettiva diretta, sebbene ci sia una più ampia presenza di elementi emotivi, legati all'intera situazione esistenziale del soggetto.
Nel soggetto secondario o convenzionale c'è un diverso tipo di significato che ingloba le storie e le allegorie, corrisponde all'analisi iconografica si avverte qui un passaggio da un atto interpretativo del campo non linguistico a quello linguistico.
L'atto interpretativo fondamentale dell'ultimo livello è costituito dall'analisi iconologia per cui si apprende il significato intrinseco o anche contenuto, individuando quei motivi, fondamentali, ricreati dalla personalità di una artista, condensati nella sua opera.
Ora in questo processo di stratificazione designato da Panowsky è facile osservare come il significato emotivo sia preponderante: fattori ambientali e culturali possono intervenire nel creare una particolare sensibilità e predisposizione verso l'opera d'arte e la risposta dell' interprete è sempre prevalentemente emotiva e viene a costituire l'aspetto specifico della significazione nelle arti figurative.
Ecco perché dunque bisogna centrare il discorso della differenza fra esperienza linguistica ed esperienza artistico – figurativa sulla significazione emotiva.
Quando avvertiamo infatti soprattutto la componente emotiva nel linguaggio, è allora che la mediazione segnica viene ad assumere meno importanza.
La preponderanza di elementi emotivi di significazione fa sì che l'esperienza artistico – figurativa molto vicina a quella del vivere immediatamente delle situazioni senza traduzione linguistica, senza alcuna interposizione di elementi intermedi.
Di semanticità o "quanto meno di una comunicatività delle opere, in assenza di un vero e proprio codice interpretativo che ne permetta la codificazione" ci parla anche Dorfles.

La semanticità è da questo autore intesa come "attributo applicabile ad una situazione segnica, che sia fornita di tale proprietà temporaneamente, soltanto per una investitura nostra o di altri "per cui il processo di semantizzazione esiste "non come dato di fatto, ma come dato situazionale e potremo ammettere l'improvvisa scomparsa di tale qualità significativa o la sua provvisoria messa tra parentesi".
"Tale significato può scaturire dalle forme, dai colori, dalla tessitura, i movimenti, la direzionalità, i momenti di equilibrio, la distorsione formale equivalgono ad altrettanti momenti significativi".
C'è in Dorfles una teoria molto interessante sul passaggio, al giorno d'oggi, dall'ontologia al semantico, dallo studio delle essenze a quello delle significanze.
Nell'estetica moderna, infatti, si assiste ad un processo di affrancamento dell'uomo dalle realtà naturali, derivato da una nuova conoscenza scientifica.
L'intera base metafisica si è trasformata: al posto della classica ontologia oggettuale, sorge oggi una non classica ontologia funzionale. L'identità essere e coscienza, che rappresentava il nucleo di tutta la speculazione metafisica tradizionale, è sostituita ora dalla "natura metafisica del segno". Come scrisse Bense l'uomo d'oggi ha "ein Bewusstsein starter, unfassender Intergration".
Nell'estetica moderna l'espressione di bello non è più attribuita dunque a oggetti, ma a segni, mentre nell'estetica classica, come è noto, c'erano "le cose, date per se stesse, che erano belle, come la luna, il sole, il vento la rosa. Nell'estetica moderna le cose diventano belle solo attraverso il segno che per esse si trova."
Anche in Bense si accenna al valore simbolico dell'arte per cui sono i segni estetici come i colori, i suoni, i rapporti cromatici e formali, anziché gli oggetti rappresentati, a dover essere interpretati.
Di "azione simbolica "si parlò anche con la scuola del New Criticism, che partiva dalle premesse formulate dfa Richards, che sulla scissione fra significato emozionale e referenziale. Alla base di ogni interpretazione dell'arte si pose la funzione simbolica di essa, definendo ancora una volta la distinzione fra linguaggio poetico e comune o scientifico.
Tale distinzione, fra l'altro, era già stata avanzata da Carnap, che aveva avvicinato le espressioni artistiche alle altre espressioni emozionali ricordando la nota teoria di Bergson, per cui il riso, come atto psicologico, è una forma di linguaggio.
Che l'arte sia linguaggio, che sia un complesso segnico è ovvio secondo l'opinione di Charles Morris:già il fatto che l'arte, secondo l'antica dottrina greca fosse "mimesi" affermava che era un segno, per Morris comunque i segni sono di natura particolare, detti cioè "iconi", immagini che "imitano "solo nel senso che disegnare significa comprendere in se stesse degli oggetti denotati".
L'arte viene ad essere per questo autore quel linguaggio che serve alla comunicazione di valori, attraverso una struttura simbolico – metaforica, "vero materiale comunicativo al pari della lingua parlata, capace di concettualizzazione".
Questo non significa tuttavia che il vero trasmesso dall'arte sia da considerarsi con il vero scientifico o logico. Le qualità emotive e percettive hanno una grande importanza "l'arte non fa se non incidentalmente delle asserzioni attorno ai valori, essa presenta dei valori all'esperienza diretta".
La maggior parte degli studiosi americani considera l'arte come un linguaggio emozionale, abbiamo già letto un'affermazione di Ducasse, per il quale l'arte non è che il linguaggio delle "attitudini emozionali ".
Anche per il Richards, l'arte era investita di funzioni simboliche ed emozionali: in questo modo ci offre una verità soltanto relativa.
Nasce da ciò il problema se l'arte sia solo un linguaggio emozionale o anche referenziale , capace cioè di dire delle verità. È da ricordare e da tener presente come molto spesso sia quasi impossibile escludere completamente il valore referenziale in certe opere d'arte.
Dewey, nella sua polemica con B.Croce, rifiutò la ipotesi che l'arte fosse da considerarsi come una forma di conoscenza: egli ci parla invece di supercomunicazione, di conoscenza sublimata, frammista com'è ad elementi non razionali, "ogni arte possiede il suo particolare medium, e tale medium è particolarmente adatto per un tipo di comunicazione... un medium in quanto distinto dal materiale grezzo, è sempre un tipo di linguaggio e perciò di... comunicazione".
Uno dei compiti essenziali dell'arte è la comunione di espressione e comunicazione.
"L'arte è un tipo di linguaggio più universale di quanto non sia il parlare... il linguaggio dell'arte deve essere acquisito... non è affetto dagli accidenti della storia, che differenziano i diversi generi dell'umano parlare".
Così anche per Weitz il valore di un'opera d'arte non è legato al suo valore referenziale, "in ogni opera d'arte un quoziente linguistico e uno più universale, incomunicabile, in senso linguistico stretto, e solo intuibile nella sua accezione simbolica".
Concludendo l'espressione plastico – figurativa, come comunicazione non verbale, appare più libera dell'espressione verbale, e più singolare, in quanto può acquistare, in determinate circostanze, un valore vero e proprio di comunicazione, cioè di linguaggio, intendendo tale termine in un ‘ accezione molto ampia.
Studiosi di tale problema come Bobon, Maccagnani e Yung considerano l'attività artistica un ‘ espressione, una catarsi, una comunicazione ed è in questo senso che si può parlare di linguaggio.
"Linguaggio in una prospettiva molto vasta, esistenziale, che tiene conto di un'apertura verso il mondo, di ogni spinta espressiva, mentre naturalmente non lo può essere in senso tecnico, dal punto di vista dell'analisi del linguaggio, in quanto manca quella mediazione segnica tipica di ogni linguaggio.

2)
LINGUAGGIO PSICOPATOLOGICO E PSICOPATOLOGIA DELL'ESPRESSIONE.


Dall'autobiografia di Renèe nel "Diario di una schizofrenica "si legge. "scrivevo in una lingua e cioè nel mio linguaggio segreto, usando espressioni e parole che sorgevano improvvisamente in me e che io stessa costruivo, perché non mi sarei mai sentita il diritto di scrivere con parole vere... non usavo le parole abituali perché il mio dolore e la mia desolazione non avevano un oggetto reale ".
Sono un'impressionante testimonianza di un mondo disperato e impotente, che si dissolve progressivamente e il linguaggio tende ad una incomprensibilità totale.
Gli studi dedicati al linguaggio psicotico sono stati orientati finora al linguaggio schizofrenico, forse perché la schizofrenia è la condizione in cui vi è una vera e propria metamorfosi semantica.
Dare una definizione di schizofrenia è quasi impossibile. gli psichiatri chiamano schizofrenici coloro che presentano una metamorfosi della personalità, che presentano sintomi di un mutamento pauroso che genera angoscia, un senso di "sprofondamento "di "crollo".
Improvvisamente e gradualmente il soggetto si sente trasformare, sdoppiare, annullare e intorno a lui si fa il vuoto, il buio e il silenzio. Le frasi e le parole hanno una rispondenza interiore particolare, misteriosa, irreale, incomunicabile.
Secondo Piro la schizofrenia non è che "un modo d'essere, un'esistenza fallita, travolta e costituisce così una tragica ed estrema possibilità umana".
Occuparsi di linguaggio schizofrenico non è che il tentare di risolvere l'unità di uno stile, lo sforzo di cogliere un significato.
Lo stile schizofrenico appare caratterizzato da certe peculiarità quali un accentuato astrazionismo, frequenti generalizzazioni, la significazione emotiva deformata, bruschi salti semantici, forme d'incoerenza, d'espressione contratta, telegrafica.
Studiosi come White, Arieti e Tanzi interpretano il linguaggio schizofrenico sulla base del pensiero arcaico o paleologico. Il modo di pensare del malato appare molto simile a quello del primitivo e del bambino, c'è in questi lo stesso carattere di sincretismo e di olofrasticità.
Si potrebbe ricordare la teoria di Piaget sul parlare egocentrico del bambino, chiuso nel suo mondo, tanto quanto il paranoide lo è nel suo In questo caso si assisterebbe ad un processo di regressione, che Rank spiega anche in rapporto all'interpretazione dei miti e delle leggende, dal punto di vista psicoanalitico.
Sia Arieti sia Tanzi non hanno preso in considerazione il fatto che nella personalità umana c'è sempre un sottofondo d'irrazionalità, per cui gli aspetti magici – paleologici non si ritrovano soltanto nei primitivi e nei bambini, ma in ognuno di noi e la psicosi non fa che portarli in evidenza.
Anche Bobon osserva che non si può parlare di regressione, a un livello infantile e primitivo, ma di affioramento di componenti sorpassate, latenti nella nostra psiche.
Volmat ha compiuto uno studio sull'arte psicopatologica in comparazione fra Ame primitiva e schizofrenica: "il n'entre pas dans notre but de comparar, de juger d'un certain nombre de similitudes et de differences, mais de trouver là un voie d'abord, une nouvelle compèhension de la pensèe dèlirante"...
Calmieri e Frighi si occupano del linguaggio psicotico, da un punto di vista della teoria della comunicazione.
La comunicazione è il primo compito del linguaggio che viene leso Non c'è sempre nella schizofrenia l'intenzionalità a comunicare, egli parla piuttosto per rassicurare se stesso, chiuso nel suo mondo allucinato e distorto. Il malato si crea così un suo contesto privato dove le abbreviazioni, le elissi, le definizioni contribuiscono a diminuire la redundancy.
La trama logica del linguaggio normale presenta delle smagliature prodotte da un processo incomprensibile di decodificazione, per cui la grande frequenza di figure retoriche che si riscontra negli psicotici non deve essere attribuita ad una loro creatività linguistica, quanto piuttosto all'occasione "ad un mero gioco imposto ", mancando del tutto uno stile elaborato con una precisa intenzionalità.
Sergio Piro, diversamente dagli autori citati sopra, tenta di dare una spiegazione dal punto di vista semantico, badando agli aspetti non soltanto referenziali del linguaggio, ma pure a quelli emotivi, che contribuiscono ad un'alterazione del rapporto segno – significato.
La relazione semantica appare disturbata, proprio per la perdita del contatto con il mondo esterno e con se stesso. Il malato, nel tragico sdoppiamento della sua personalità, vede allontanarsi i rapporti fra la componente segnica e l'infrastruttura semantica, al segno non corrisponde più lo stesso significato e viceversa. Il rapporto è ormai distorto, se non definitivamente perduto. Tale allentamento dei nessi semantici conduce verso un astrattismo e una libertà formale, che per mettono a volte una liberazione ricca e suggestiva.
Il processo della dissociazione semantica, quale fatto linguistico, è rilevabile in tutti i processi di simbolizzazione, segue varie forme e gradi,che sconfinano uno nell'altro, associandosi o alternandosi nel linguaggio di uno stesso soggetto.
Le nuove relazioni semantiche più deboli delle precedenti, permettono una serie di allargamenti delle trame di referenze, il segno si allaccia a settori semantici sempre più vasti e un primo grado di questa condizione può essere "un aumento dell'alone semantico "e di "restringimento dell'alone semantico "quando avvenga un arresto di questo grado.
L' allentamento della relazione semantica appare più avanzata nella distorsione semantica. Il soggetto non è più collegato al suo significato diviene variabile, fluttuante, del tutto autonomo, portando, nella maggior parte dei casi, ad una incomprensibilità quasi totale.
L'astrazionismo a vuoto, per un uso eccessivamente generalizzato dei segni, l'incoerenza, l'agrammatismo e la povertà espressiva, forme prevalenti della dispersione semantica, sono la via d'accesso alla dissoluzione semantica: La perdita completa del collegamento fra il segno e il significato.Ogni compimento di significato rimane sospeso e l'intenzionalità di significare viene a mancare del tutto.
Ritorna qui il problema della creatività schizofrenica: è nelle prime fasi del processo dissolutivo che ci può essere, per uno svincolamento di schemi convenzionali, una maggiore libertà espressiva. Le parole, usate con variabilità di significati, creano una ricchezza espressiva molto particolare e suggestiva.
"La disperazione della significazione, con il suo accrescimento delle componenti d'atmosfera e con la diluizione delle risonanze emotive, contribuisce fortemente a creare l'esperienza di schizofrenicità.
Bobon si interessa alle manifestazioni soprattutto figurative, partendo da uno studio del linguaggio psicotico.Egli, insieme a Maccagnani, ha proposto una classificazione che parte dallo scarabocchio e termina nell'astratto simbolico, giungendo con uno studio analogico con tutti gli altri modi dell'espressione della personalità, ad analizzare tipi particolari di espressione nel disegno e nella pittura di malati di mente, analoghi ai disturbi del linguaggio parlato e scritto, come possono essere gli stereomorfismi, paramorfismi, neomorfismi.
La psicopatologia dell'espressione abbraccia un campo vastissimo, studiando sia le forme di comunicazione verbale sia più propriamente le manifestazioni dell'arte figurativa.
Naturalmente il compito presenta moltissime incognite e difficoltà, in quanto come abbiamo già avuto modo di constatare, le manifestazioni espressive semplici, come il linguaggio, il gesto, la mimica, hanno un carattere segnico, mentre le espressioni artistiche non costituiscono dei segni e il loro significato è sempre e soltanto empatico, variabile, mai convenzionale.
A prescindere dalla difficoltà della natura segnica, c'è il problema dell'uso comunicativo del linguaggio da tener distinto da quello espressivo. Ciò implica di non considerare gli aspetti comunicativi del linguaggio. Tuttavia espressione e comunicazione, su un piano più generale, sono indivisibili, perché esprimersi è compiere uno sforzo di apertura al mondo, è comunicare, a livello conscio o inconscio.
La psicopatologia tenta di entrare in quello che è il mondo interiore del malato di mente , che ormai non riesce più a creare una vera e propria comunicazione con gli altri, attraverso le vie e le forme convenzionali.
Nelle produzioni figurative degli alienati avviene lo stesso processo di dissociazione semantica riscontrato nelle manifestazioni del linguaggio verbale.
Ci sono dei periodi diversi che corrispondono alla fase iniziale della malattia, a quella dello sviluppo, alla fase terminale di essa.
Nella prima fase il malato si esprime ancora con il disegno e la pittura, in cui si scopre un linguaggio, un messaggio particolare, di carattere simbolico.
La seconda fase è caratterizzata da un interesse per il dettaglio, si ritrovano in queste composizioni gli stessi oggetti, in modo stereotipato
C'è una tendenza alle forme geometriche, che secondo Mikowska, sarebbe un tentativo per sfuggire alla disgregazione completa, così come il "bourrage "o "disegno stipato "rappresenta per Volmat il "terrore del vuoto "e della solitudine.
Quando la disgregazione è arrivata allo stadio più avanzato, quando non c'è più nessuna speranza, non rimangono che forme geometriche ridotte all'essenziale ed è ora che si trova in queste composizioni una certa povertà espressiva, la prevalenza di leitmotives, tutto reso con un accentuato manierismo e automatismo.
Bobon è giunto a poter isolare nelle forme e nei colori delle produzioni in apparenza diverse delle costanti privilegiate fisse e "Invariantes dans leur structure fondamentale et leur valeur d'expression, signifiantes pour qui en possiede la ele".
È possibile su questa ipotesi cogliere anche il lato della costruttività e originalità psicopatologica e non soltanto la dissoluzione e il vuoto espressivo. Almeno nelle forme e nelle fasi in cui lo psichismo non è disgregato completamente, la dissociazione favorisce la tendenza alla creazione di forme espressive diverse, ricche di significazione emotiva. Inconsciamente attraverso immagini che ai nostri occhi possono sembrare insolite e del tutto nuove il malato proietta l'angoscia interiore, dandoci la possibilità di giungere alla forma – chiave di un delirio attraverso l'acquisizione di una tecnica d'analisi pittorica per la lettura di un'opera disegnata o dipinta.

3) ARTE MODERNA E ARTE PSICOPATOLOGICA


È nota la teoria di Yung sul valore del disegno come espressione dell'inconscio collettivo, così come Prinzhorn e Plaute lo considerano un'espressione globale della personalità umana.
Il disegno assume un'importanza notevolissima nello studio della psiche umana, essendo una diretta espressione della personalità.
La preponderanza di elementi emotivi in manifestazioni di questo genere fa sì che l'esperienza figurativa sia molto vicina a quella del vivere situazioni senza traduzione linguistica, senza alcuna interposizione di elementi intermedi.
Esso diventa il linguaggio più espressivo della vita psichica, che per esteriorizzarsi deve necessariamente far ricorso al simbolo.
Nell'artista l'emozione genuina viene resa con la ricerca di valori esteticamente adeguati, c'è, prima di tutto, una preoccupazione estetica dell'autore che manca totalmente nelle produzioni dei malati di mente ed è per questo che esse assumono un preciso significato psicopatologico.
Il quadro esce dalle mani del malato, perché dettato da esigenze immediate, non c'è ricerca, non c'è possibilità di scelta.
Il linguaggio plastico un mezzo di accesso molto efficace verso il mondo inconscio dell'individuo.
La profonda disintegrazione e destrutturazione delle personalità dei malati di mente si traduce in una altrettanto profonda deformazione dell'espressione, in cui il legame esprimente – espresso, si è imprevedibilmente alterato, pur restando sempre lo sforzo di comunicare, il tentativo angoscioso di riagganciarsi alla realtà comune.
Comunicazione senza dubbio autistica, delirante, incomprensibile e assurda, ma pur sempre intenzionalità espressiva.
C'è tuttavia da stare molto attenti a distinguere le manifestazioni espressive dei malati di mente, se a volte producono delle vere opere d'arte, è secondario sapere se lo dobbiamo al malato o no.
Tutta l'attività psicopatologica di uno schizofrenico ricco di bizzarrie, il suo stile originale nell'assurdità, non sono che l'espressione di un delirio,la maniera "altra" di esistere, ma non per questo è arte. La vera opera d'arte presuppone sempre all'origine un atto cosciente, intuitivo.
L'opera del malato soltanto perché si presenta "strana "e incomprensibile non la si può avvicinare all'arte moderna.
Il paragone fra arte moderna e dei "pazzi" è senza altro inutile, l'arte c'è o non c'è e parlare, come si fa volentieri oggi, di arte psicopatologica è un voler quasi distinguere un certo genere di arte tutta particolare nella sua incomprensibilità, perché poi è da osservare che è lo strano e l'assurdo a determinare il giudizio di arte, come se il concetto di arte fosse fatto a compartimenti stagni e non invece pensabile se non nella sua unità. "La creazione artistica, per quanto libera e strana è un'opera d'arte che possiede una forma e uno stile. Il malato di mente in quanto tale non è artista e l'arte non è né può essere oggetto di studio per lo psichiatra".
L'opera del malato prende significato soltanto nel suo rapporto con lo psichiatra, spiraglio tenue, ma vivo, verso l'impenetrabilità del mondo psicotico. Nell'arte degli schizofrenici, come in quella di certi artisti moderni, c'è l'espressione dell'irreale, un uso di simboli che risultano incomprensibili, una incoerenza delle forme, che pare disciogliersi, ma se i moderni conservano certi principi accademici, negli ammalati essi non esistono proprio. L' artista di oggi è giunto volontariamente alle punte estreme dell'esperienza dell'immaginario e dell'assurdo simbolico, egli è liberamente inserito nel corso della storia dell'arte, ma l'ammalato non partecipa al suo stesso dialogo, seguendo invece un monologo angoscioso e incomunicabile.
L'arte moderna non è una fedele riproduzione della realtà, ma è rivivere interiormente questa realtà e ricrearla come visione dell'artista. Tutte le cose dell'esperienza oggettiva si dissolvono, si disperdono nelle cosidette immagini astratte, per cui l'artista è un inventore di forme.
"Il soggettivismo dell'arte moderna è certamente un segregarsi dell'artista da una storia e da una tradizione comuni, ma soltanto per sostituire alla storia o alla tradizione comuni una storia e una tradizione individuali, come volontaria selezione o esclusione di valori in vista di un'azione presente.
"Ciò significa riservarsi il diritto, proprio come diceva Gauguin, di accettare e respingere in blocco tutto il passato o di rivederne i fatti fuori da ogni schema intellettualistico, di criticare la tradizione... è chiaro tuttavia che a questo assoluto e tuttavia non solipsistico soggettivismo, che non è altro che la conoscenza della propria personalità come agente morale non è possibile attingere finchè sopravvive nell'artista, il pensiero di "una natura".

C'è una riscoperta del mondo dei sogni, delle neurosi, un tentativo d'inserirsi nel mondo delle psicosi da parte dei surrealisti, ogni oggetto dell'esperienza è inteso nel senso della pura visione e dell'emozione, ma non è ancora "solipsistico soggettivismo".
L'artista di oggi ha in comune con l'ammalato di mente un'assoluta libertà svincolato da ogni schema formale, con la possibilità di distruggere o di creare un mondo.
Così dadà combatte l'uomo tradizionale facendo i baffi alla Gioconda.
Arte la nostra detta anche non figurativa, puntata ed esclusivamente sull'espressione, elimina la rappresentazione, arte dell'immediato e del fantastico. I movimenti dei dada, di de Chirico, di un Chagall, Dalì, Mirò possono tutti dare adito a considerazioni possibili sul piano psicopatologico.

Piero Dorazio scrive "esiste alla base della natura umana un'esigenza espressiva che assume forma e stile durante anni di complessa attività mentale, sensitiva e pratica, nel caso degli artisti, ma è comune ad ogni essere umano fin dall'infanzia, Dal punto di vista dell'espressività e dei suoi legami con l'inconscio e cioè con l'attività fantastica, l'arte contemporanea ha preso in esame con grande profitto per la conoscenza delle manifestazioni della personalità umana, anche le forme di attività espressiva presso gli alienati".
Con il surrealismo si penetra nella sconosciuta realtà della psiche umana, si cerca di esprimere il subconscio. Mirò ci dà una grande rappresentazione di esso in quello, che egli stesso chiamava "pitture selvagge."
Il grido di lacerazione, di bestialità e animalità scatenata, si articolano su quelle enormi figure che sembrano composte di organi vari, ossa, seni, denti come zanne, in formi mostri, sopra cui alita un'attesa angosciosa, un silenzio malato, indefinibile, immobilizzato, paralizzante. Tanto simili, sembrerebbero alle forme estetiche degli ammalati, dalle composizioni dei quali traspare lo stesso senso di angoscia, provocata dalla tremenda consapevolezza di un mondo che si sfascia, del corpo che si smembra, dove ci sono personaggi di sogno, nascosti, occhieggianti, orecchie che ascoltano, occhi che si possono solo intuire. Anche il linguaggio di Chagall è di sogno, la creazione di un mondo senza ordine logico, assurdo, dove le immagini si sovrappongono le une alle altre.Le composizioni dei malati, a differenza di quelle dei surrealisti ad esempio, sono molto più immediate, autentiche, in quanto espresse con naturalezza, con tale ricchezza di produzione, quale solo la malattia può suggerire. Dracoulides ha detto che l'arte degli schizofrenici, come espressione inconscia, è "più autentica dell'arte infantile e primitiva e di quella surrealista. Di queste quattro la prima è senza controllo, da parte della coscienza, l'ultima è la più controllata. Il surrealista si sforza con mezzi indiretti, falsi, ambigui di arrivare al punto in cui l'alienato giunge direttamente, spontaneamente e infallibilmente ".
"Io sono pazzo – scrisse Salvator Dalì- salvo per un punto, che io non sono affatto pazzo ". C'è in lui infatti una tecnica ben definita. Tuttavia se è indiscusso il fatto che l'opera del malato non è mai un'artificiosa formula, proprio perché a livello così immediato ed istintivo, questo non significa che possa essere trasferibile, salvo eccezioni, sul piano dell'arte a prescindere poi da qualunque giudizio sulla validità dell'arte contemporanea.
"Negli schizofrenici l'espressione grafica si svolge in modo che il loro linguaggio è certamente più vicino a quello dei primitivi e dei bambini, ci sono dei rapporti fra surrealisti e arte psicopatologica ma la somiglianza è lontana dal poter trarre in inganno un occhio".
Si apre ora un problema molto interessante e che ha dato luogo a diverse polemiche: esiste un rapporto genio – follia?
Il Lombroso e il Nordam hanno sostenuto che la genialità è sempre accompagnata alla follia, quasi, sembrerebbe, un'estrinsecazione necessaria di essa. Qui ci si potrebbe chiedere dove termina la ragione e ha inizio la pazzia: è impossibile infatti determinare il momento in cui avviene il passaggio dall'una all'altra.
Non ci sono dei criteri sempre identici per dare un giudizio su certi individui che si allontanano dalla norma, dal tipo comune della personalità ‘ pur non essendo alienati .
Non sempre genio e delinquenza si devono collocare nella "degenerazione "la genialità non è tale perché deriva dall'epilessia, come voleva il Lombroso. Infatti nessun pazzo ha prodotto mai nei manicomi delle opere che si potessero definire artistiche, se già prima non era un artista, in questo caso non si mostra più in possesso delle stesse capacità intellettuali di prima. Freud disse che il merito della scoperta dell'inconscio andava agli artisti, che si staccano dalla realtà, come avviene al nevrotico, non c'è tuttavia identificazione fra nevrosi e genio.La nevrosi prende parte certamente alla forza creatrice, favorendo il processo di sostituzione in quello staccarsi dalla realtà e nel rinunciare anche ad una parte di se stessi, ma la nevrosi può portare alla mediocrità e in certi casi anzi la nevrosi impedirebbe ad un artista di poter seguire consapevolmente la sua opera.
"La follia non dispensa né il genio né il talento "ci ha detto G.Padovani, ecco perché quando si parla di arte psicopatologica si ha quasi paura, perché non basta a giustificarne l'esistenza il fatto che nella malattia si esprima "un'irripetibile esperienza vitale".
La malattia mentale può solo rendere più suggestivo uno stile, di soggetti che erano già in possesso di una tecnica e di un'esperienza creativa, come può essere il caso di Van Gogh.
Il divino furore dell'artista presenta senza dubbio con la malattia un rapporto quasi impressionante, ma non è per nulla identico ad essa.
Dice Yung che l'intensità degli interessi e delle attività coscienti svanisce a poco a poco, producendo o un'inattività apatica, stato molto frequente negli artisti, o una regressione delle funzioni coscienti, un abbassarsi cioè di queste funzioni verso i loro stadi infantili e arcaici: in questo caso si verificherebbe una specie di degenerazione.
L'istinto prende il sopravvento, la riflessività dell'adulto cede il posto all'ingenuità infantile, l'inadattabilità alla adattabilità.Sono proprio le vite le opere di certi artisti che ci dimostrano tutto ciò. Il vero vantaggio per l'artista, ancora per Yung,è la sua incapacità di adattamento, che gli consente di seguire solo la sua aspirazione, di vivere un'esperienza autentica.
Il rifugiarsi nel proprio io e vivere soli un'esperienza interiore intensissima che sfiora a volte un dramma sconvolgente, può liberare un nucleo lirico, creare un magico surrealismo, ma la vita affettiva non è equivalente al potere di esprimerla.
Barison appoggia la tesi della "creatività artistica schizofrenica ", per cui ci sarebbe un'intenzionalità creativa schizofrenica che riempirebbe il vuoto che la psicosi ha creato nell'esistenza del soggetto.
Dentro la sua tragedia, che si svolge nella solitudine e nell'indifferenza, il malato, chiusa ogni possibilità di comunicazione, nella più tremenda confusione e rovina di un mondo che poco per volta si disgrega, tenta di lanciare ancora dei messaggi, grida strazianti indecifrabili, che sono destinati a cadere nel vuoto, in un vuoto assurdo e incolmabile.
Il malato dunque parte proprio da un'esigenza di comunicare soprattutto, l'artista invece apre il suo dialogo con l'altro solo quando la sua opera sulla tela è ultimata.
Gamma fece degli studi e scrisse "le immagini di questo mondo, così stranamente e suggestivamente vicino all'essenza della tragedia e della poesia... testimoniano... la dolorosa condizione umana di questi ammalati e di chi vicino a loro, spesso sul filo di fragili speranze, soffre e lotta contro la malattia. "
Si può parlare dunque senza dubbio di "lirismo schizofrenico" poiché il mondo dello schizofrenico è ricco di risonanze emotive "di sentimenti metamorfosati, di vissuti irreali, di percezioni distorte e minacciose, in un'atmosfera particolare e sospesa."

4)
PROBLEMA LINGUISTICO IN VAN GOGH


"Nessuno potrebbe dire cos'è esattamente un uomo: ci sono esseri umani schiacciati da uno spirito, che pare troppo grande per loro e ce ne sono un'infinità, che neppure sanno di avere un'anima".
La vita di Van Gogh, quale appare così viva dal dialogo serrato col fratello Theo, riesce ispiratrice.Non si possono leggere le sue lettere senza sentirsi crollare chissà quante volte. Si avverte un dolore infinito e disperato e una fede autentica nell'arte e nell'uomo.
Questa fede la provò col proprio enorme travaglio, con le continue rinunce e umiliazioni, contro l'irrisione di tutti,per culminare nell'atto supremo di rinunciare alla lotta, per abbandonarsi, forse, fra le braccia di quel "Dio dei silenzi che rende possibile l'assurdo".
L'esigenza e la ricerca di un ideale che trascenda la sua miseria si può identificare in Dio, sia pure indirettamente, il miglior mezzo per avvicinarsi a Dio è amare, amare molto".
Nacque a Zundert nel 1853, un villaggio della provincia del Brabante, nel sud dell'Olanda.
In quei luoghi, campi arati si alternano a boschi d'abete, mentre verso sud e ad ovest si stendono vaste brughiere e paludi, che eserciteranno sempre una forte attrazione sull'immaginazione del giovane Vincent.
La natura dell'Olanda è una natura monotona, senza rilievo, dove lo spazio mai circoscritto è infinito.
Il suo fu un ambiente protestante: figlio e nipote di pastori. Da essi prese l'essenziale della sua attitudine morale, fatta insieme d'inquietudine e d'amore, che nasce dalla solitudine della coscienza di fronte a se stessa: movimento essenziale di ogni protestantesimo.
Ed è quell'inquietudine interiore, che lo spingerà sempre ad un andare disumano, di città in città, di villaggio in villaggio, alla ricerca di nuovi luoghi, con una necessità quasi fisica di dover cambiare, come se in realtà non fuggisse che se stesso.
Si sentì sempre una creatura chiusa "entro non so quali sbarre, che grate, certi muri" come quei miserabili della "Ronda dei prigionieri", che dipingerà nel 1890, in una disperata e vana speranza di ritrovare il Vincent di un tempo, così lontano nella memoria quasi il tempo potesse restituire l'immagine trascorsa.
Visse tormentato da una brama insoddisfatta, sempre, di non restare in definitiva solo con se stesso e con quel male di vivere che lo tormenterà fino all'ultimo riposo, nelle strade verso l'Olanda, in mezzo ai campi di grano, che costeggiano Anvers, vicino Parigi.
La sua coscienza gli pose davanti agli occhi una meta, che egli, nel suo essere, non riuscì mai a raggiungere;la sua grandezza e la sua miseria furono la sua forza e la sua impotenza.
Più cercò di penetrare il mistero di "quest'atomo opaco del male" e più si allontanò e perse se stesso, annegando in una tragica sofferenza.
"Si vive in una certa malinconia, poi si sentono dei vuoti, dove potrebbero esserci amicizie e alti e seri affetti e si sente il terribile scoraggiamento corrodere persino l'energia morale e la fatalità sembra che possa sbarrare gli istinti di affetto e una nausea, un disgusto vi invade. E poi si dice: fino a quando, mio Dio".
Individui come Van Gogh non sembrano essere nati su questa terra, egli tentò di esprimere quanto c'era di più segreto nella sua natura e che ci sia un segreto che lo rode non è possibile metterlo in dubbio. È per questo che a noi il suo linguaggio pare "arcano, se non pazzo o contraddittorio".
La sua vita interiore così ricca e così sofferta non gli permise di percorrere il cammino della gente comune, la sua voce viene da troppo lontano, il suo linguaggio è incomprensibile, se lo si vuole "aprire "ed estendere alla funzione di mezzo comunicativo; in realtà le immagini di quella pittura sottendono forme allegoriche quasi sempre indeclinabili. Queste forme provengono da "un universo simbolico "in senso cassireriano.
"Lasciateci vivere in pace – grida il piccolo uomo – ma la legge dell'universo vuole che pace e armonia si conquistino con la lotta interiore".
Rimase sempre un inadattabile sino al traguardo della pazzia, quello che "crede nei miracoli ", quello che "in un modo o nell'altro "va cercando il Paradiso, in una nostalgia per l'origine, quasi un ritorno al caldo seno materno, a "quel vago mondo di terra e di acqua "che è il corpo materno simbolo della sicurezza e del calore che invano andò inseguendo.
Fu incapace di inserirsi in mezzo agli uomini, pur amandoli sino all'estrema rinuncia e da questa impossibilità scaturì tutto un dramma e quel rivolgere la propria vitalità tutta all'interno, in un tormentato, tortuoso colloquio con se stesso.
Rimase però un gran bisogno d'amare e d'essere amato, nel senso più vasto della parola e per sedare questa sete inesauribile, sconvolse la norma valicò a proprio rischio i limiti imposti dalla paura del piccolo uomo.
"Io ti dichiaro di non sapere proprio cosa sia, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare, così semplicemente come mi fanno sognare i punti neri che indicano sulla carta geografica città o villaggi".
Era con questo universo che si sentì sempre in comunicazione e che sentì vivere e fremere sotto i suoi occhi: i fiori per lui non persero mai la loro fragranza, né le stelle il loro splendore, nonostante lo squallore e la solitudine che lo circondarono e gli crearono un insopportabile vuoto interno.

I suoi primi 17 anni trascorsero in apparenza sereni e tranquilli, ma senza lasciare dentro di lui una traccia profonda.L'arco di tempo che copre i primi vent'anni dell'artista è caratterizzato in Olanda da un conservatorismo gretto e meschino, coi costumi stabiliti, un convenzionalismo religioso e falsamente morale.
Barriere proibitive ostacolavano il libero espandersi ed evolversi di attività artistiche e culturali, dando al paese un'impronta di chiusura e di ristagno mentale, che non si ritrova nel vicino Belgio.
Fu probabilmente per reagire alla vischiosa ipocrisia che lo stava avvolgendo, che il giovane Vincent, ancora ragazzo, decise di andarsene da casa, in cerca di nuovi climi, di quella purezza, che rimase sempre l'ideale supremo da raggiungere e di attuare in ogni istante.
Dal 1869 al 1873 lavorò come impiegato docile e puntuale alla succursale della Galleria Goupil all'Aja, fondata da uno zio.
Risale a quel periodo la sua prima delusione d'amore, che segnò in lui un radicale mutamento: si rinchiuse in se stesso, divenne eccentrico, depresso, taciturno.
Si trasferì a Parigi, ma non risolse nulla.
Era così grande la passione che lo accostava ai maestri della pittura antica e contemporanea, che studiava nei musei e nelle Gallerie, ma era enorme il disinteresse che nutriva per il mestiere di mercante, che gli faceva apparire l'arte come una bella truffa organizzata.Si ribellò, dette le dimissioni, all'improvviso.
All'inizio del 1876 prese la via di casa. Ma non sapeva ancora quello che realmente voleva: leggeva moltissimo, spesso disegnava, sovente lo prendevano crisi religiose.
Da questo momento la sua vita divenne quella di un "vagabond errant "di un randagio che porta in giro la sua angoscia, dapprima a Rammsgate, nel Kent, come insegnante di lingue, poi aiuto predicatore a Isleworth, presso Londra, impiegato di libreria a Dordrecht, studente di teologia ad Amsterdam e frequentatore dei corsi di predicazione a Bruxelles.
Sembra proprio che andasse in cerca della strada più difficile per "per colmare il calice dell'amarezza fino a farlo traboccare".
Ma la verità è che in lui non si cicatrizzò mai l'antica ferita di un amore deluso, che "dopo anni rimarrà sempre come era il primo giorno ".
Anche nell'amore fisico si vide rifiutati i privilegi dell'uomo comune e viene spontaneo domandarsi se la sua vita non fosse già segnata, perché qualunque progetto iniziasse era destinato a naufragare tragicamente.
Meno chiese alla vita e meno ricevette: la sua storia ne è la
Dimostrazione. Visse come può vivere un asceta, accontentandosi di poco, sentendosi a suo agio solo con i disprezzati e gli oppressi.
"Essendo anch'io un lavoratore vivrò in questa classe, mi abbarbicherò con tutto me stesso sempre ad essa".
Finalmente nel 1879 ottenne l'incarico di predicatore libero nel nero distretto minerario del Borinage, nel sud del Belgio.
Sognava di portare aiuto ai minatori costretti a vivere nell'eterna tenebra, pur desiderando e avendo bisogno della luce e del conforto della fede: evasione unica e insostituibile da un mondo di ingrate privazioni.
"Quando ci imbattiamo nell'immagine di un abbandono indicibile e indescrivibile, della solitudine, della povertà, della miseria,la fine delle cose e la loro esasperazione, è proprio allora che dentro di noi sboccia l'idea di Dio ".
Questo primo atto è simbolo di tutto il suo essere, non solo perché dimostrò coraggio, non solo per la carità che sarà la sua forza, che lo spingerà lungo tutta la sua vita, ma anche perché l'uomo che più tardi darà l'artista, il pittore dei fiori luminosi e dei fiammeggianti cipressi, deliberatamente scelse questo distretto minerario come sua partenza.
"Attraverso le tenebre, verso la luce "scrisse in una lettera di quel periodo, "de le rajon noir du calvinismo au rajon blanc de la bontè".
In quel paesaggio allucinante si trovò a casa sua, dette via ciò che gli apparteneva , visse gli stenti e le privazioni dei minatori, sino a dividere con loro ogni suo avere, sino a distruggersi psicologicamente e fisicamente. Fu un tiro alla fune disperato tra le sue provate forze fisiche e la sua energia morale. Ne uscirà con un esaurimento da cui non si riprenderà mai più. Eppure è proprio nel Borinage che egli scoprì finalmente nella pittura la sua vocazione e il suo destino, dopo un esame profondo di se stesso, che ci è testimoniato da una lettera al fratello Theo, da Bruxelles, dove si era trasferito per studiare anatomia e prospettiva.
Nacque allora quella singolare amicizia tra i due fratelli destinata a durare nel tempo e senza la quale probabilmente Vincent non avrebbe sopportato di "seguire e opprimere se stesso come un pesantissimo compagno".

Prima di giungere agli altissimi risultati dei suoi ultimi anni, Van Gogh trascinò lungamente un periodo di faticosi studi e incertezze.Già da ragazzo disegnava, alla maniera olandese, case e paesaggi, ma la sua, più che una vera vocazione alla pittura, era piuttosto un interesse critico che avrà poi modo di approfondire durante l'impiego di mercante d'arte all'Aja, a Londra, a Parigi.
Poi, con quegli slanci di generosità propri della sua natura di mistico, si buttò nella missione umanitaria e religiosa. Un fallimento amaro, è vero, ma che fa sì che egli nasca, una prima volta, alla pittura.
Il disegno rappresentò, in quel momento per lui, un diverso modo di prolungare la sua missione, un modo di celebrare le fatiche e le miserie dei minatori, con un'azione compiuta su un foglio di carta in solitudine, come una preghiera.

Millet è il suo maestro ideale,il vero pittore moderno che apre, come egli scrive, scrive, "prospettive lontane", mentre fra gli antichi predilige Rembrant e Hals.

Ignora la grande pittura rivoluzionaria degli impressionisti per oltre un decennio e se presenta un operare ancora incagliato fra le secche di un gusto confuso, non ebbe nulla da spartire con quei "fa presto "del verismo: da Sargent a Zorn, da Michetta a Sorolla.
Anche se ammirava Dellaroche e Maissoner, c'era già in lui un modo di vedere che non ha niente a che fare con la banalità fotografica di quei pennelli maledetti.È indubbio che le esperienze religiose, gli studi teologici, quel nutrirsi delle parole della Bibbia, la passione per le opere di Hugo, Shakespeare e persino Eschilo, sono cose che lo elevano al di sopra del piano idillico ed elegiaco dei tanto amati Mauve e Maris e Israels È però dall'arte di Mauve e di Israels, che parte l'esperienza pittorica di Van Gogh, dominata da una sorta di misticismo ideale e tutta piegata verso la terra di cui assume il colore e l'espressione.-

Già nelle prime opere tuttavia c'è un qualcosa di più tormentato e di più candido, che lo distingue e lo caratterizza, affermando l'irrompente originalità e la libertà creativa del giovane ribelle alla tradizione e agli schemi dei Maestri.
I disegni di questo periodo sono tecnicamente impacciati, hanno nei contorni e nelle ombre una certa rigidezza e Vincent è il primo a rendersene conto e a sentire il bisogno di uno studio più serio e approfondito.
Non si poteva contentare di cose minute dopo aver scritto: Mon Dieu, comme cela est beau Shakespeare. Qui est mistèrieux comme lui?Sa parole et sa manière de faire equivant bien tel pinceau frèmissant de fièvre et emotion. Mais il fant apprendere à lire, comme on doit apprendere à voir et apprendere à vivre."
La coesistenza in lui di due nature così diverse: il suo eccesso e la sua avarizia, il suo aprirsi e chiudersi ruvidamente, le lacerazioni di una vita morale esaltata, si traducono sul piano pittorico fra paziente analisi, ancora al di qua dell'arte e un tentativo di violento sintetismo.
I pochi disegni di questo periodo, che va dal 1878 al 1881, prima nel Borinage, poi a Bruxelles, testimoniano una vocazione ancora sul piano sentimentale, tradotta con un'applicazione un po' elementare.
"Ma la gabbia rimane e l'uccello è pazzo di dolore ", deluso, ancora, irrimediabilmente nell'amore non riconoscerà altra vita che nell'arte.
All'Aja il cugino Mauve, buon pittore, lo aiuta, introducendolo nell'ambiente artistico della città, ma Vincent si dimostra ben presto un allievo insofferente.
Continua con il disegno: vedute di orti, di vecchie strade e giardini, in cui più che potenza espressiva c'è una grande ostinazione stilistica.
C'è ancora soltanto il segno della tenacia, non del genio. Il problema che egli traduce e scruta è l'umile vita quotidiana nei campi, in quella elementare dialettica di chiari e di scuri con dei contorni marcati ed aspri.
Si serviva senza dubbio dei disegni di Israels, che ritraevano pescatori, donne al paiolo e a rattoppare reti: ne resta però un orizzonte senza esito.
Bisogna capire come considero l'arte, per arrivare alla verità bisogna faticare a lungo, faticare molto.Quello che voglio, la mia meta è terribilmente difficile, eppure non credo di mirare troppo in alto... sia nelle figure sia nel paesaggio vorrei esprimere non qualcosa di sentimentalmente malinconico, ma un dolore profondo ".
Ma per quanto volesse evitare ogni sentimentalismo, per esprimere un "dolore profondo ", i mezzi espressivi duramente precisati, gelano la passione e quasi si pensa a qualcosa di troppo lontano da quella "musica calma e pura "che egli diceva di ascoltare proprio allora e che certo ascoltava, ma in una zona interna del suo cuore, così lontano dal suo "occhio quasi crudele e dalla sua mano quasi brutale".
Gli anni di Nuenen che vanno dalla fine del 1883 alla fine del 1885 lo vedono di nuovo impegnato sui motivi del lavoro e della terra. Non c'è alcuna ingenuità nelle semplici opere, che dipinge in questo periodo, solo la volontà di esprimere attraverso l'uso di contorni sgraziati, di materie spesse, di pennellate violente, di contrasti d'ombra e di luce, il contenuto sentimentale e intimamente aderente alla condizione umana, così dura e travagliata, dei contadini e degli artigiani del suo paese.
"Sono obbligato a dipingere rapidamente e fissare le figure con qualche colpo di pennello energico e improvviso".

è il quadro conclusivo di questa esperienza: un'opera di cui egli stesso scrisse "ho voluto dare l'idea che questa gente, che sotto la lampada mangia le sue patate con le mani tuffate nel piatto, ha anche lavorato la terra e che il mio quadro esalta il lavoro manuale, un modo di vivere l'opposto del nostro".
Quelle mani deformate dal lavoro, quei volti scavati dalla fatica, rugosi, che le vibranti pennellate rivelano crudelmente, esprimono la fede nella santità della natura, la contemplazione dei contadini come scuola di vita. Campeggiano nella solitudine dello sfondo poche figure, disegnate con una precisione grafica molto lontana da una espressione di violento sintetismo, che voleva raggiungere.
Van Gogh ha voluto essere olandese fino in fondo, ma si trovò, compiuto il quadro sul quale aveva puntato tutto se stesso, come chiuso in un vicolo cieco, ai limiti di una posizione senza sviluppo, costretto a mettere in discussione tutto il suo lavoro di anni.
La conseguenza inevitabile di questa profonda crisi culturale fu il viaggio a Parigi e fu a Parigi che nacque una seconda volta alla pittura.
A 33 anni riparte da zero, come un qualsiasi giovane alle soglie dell'arte.
Viene da pensare a Rimbaud, alla sua interpretazione del poeta come "vojant".
È il poeta soltanto, questo vagabondo del cielo, in contatti con altri mondi, che ci prende per mano e ci fa gettare uno sguardo sull'ineffabile e l'imperscrutabile. Presagendo l'avvento di cose future ci fa scoprire le amare radici della bellezza ed esplorare il dominio del male, a forza, e noi lo crocifiggiamo col terrore dell'ignoto.
Ecco perché il linguaggio del poeta non può non servirsi di segni e simboli un linguaggio che "corre parallelo all'intima voce, quando questa si avvicina all'infinità dello spirito".
Sarebbe assurdo equiparare l'artista all'uomo normale, come disse Rilke l'arte non è se non il primo stadio dello spaventoso, che noi siamo appena in grado di sopportare ", dove per "spaventoso "si può intendere tutto ciò che allarga l'orizzonte conscio, che sconvolge l'equilibrio, travalica la norma.
"Hjdre intime sans gueules
Qui mine et desole"
È questo il tormento che continua ad avvelenarci l'esistenza. "Grande signore di tutte le cose, eppure preda di tutte le cose" l'uomo si trova costretto a lasciarsi "trarre sopra una zattera a proprio rischio" attraverso il gran mare della vita o ad aggrapparsi ad un Dio sconosciuto, per non dover brancolare nel buio e nella disperazione si essere soltanto un vano sogno.
Nessun ragionamento riesce a dare una spiegazione alla domanda angosciosa di sapere chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. L'essenza stessa della nostra esistenza è il dubbio che permea di sé dolorosamente ogni nostro gesto, ogni parola, e che se è la dimostrazione della nostra forza, ne è ugualmente la sua demolizione.
Uno si trova, così, a volte, alle soglie di un confine invalicabile, con dentro un grande vuoto e un senso tremendo d'insoddisfazione, non resta allora che calarsi sulle orecchie "il berretto a sonagli" e lasciarci condurre dove non esiste alcuna giustificazione logica.

Senza dubbio Parigi era la città ideale in quel momento per il giovane , che cercava con tutta la passione della sua natura di perferzionarsi e di trovare finalmente il modo di poter esprimere il contenuto interiore che premeva dentro di lui, quel mondo segreto e privato, che ognuno si porta dentro, difficilmente comunicabile.
Il parlare tuttavia di "transformation magique "è azzardato. Vincent possedeva già un'esperienza artistica tutta sua, tutto ciò che sarà poi sarà una conquista solo sua, ottenuta a costo di enormi sofferenze, dopo aver scavato per anni nel fondo del suo io più profondo e avervi perso la ragione.
Parigi fu il luogo in cui maturò la tecnica, comunque originale, perché fu sempre un solitario.
Nel pieno rigoglio dell'impressionismo, allorché Claude, Manet,Sisley e Pissarro con molti altri "collocato il cavaletto all'aria aperta "traducevano nei propri quadri la dolcezza della luce sui campi, in esterni assolati, in una natura in cui "l'uomo è solo un accessorio, un suggerimento di linee e di colori ", Van Gogh si trovò a rigettare la nuova poetica, che privava l'artista della sua vita interiore, tutto teso, com'era, al dato immediato, a dipingere sensazioni, piuttosto che rappresentazioni a ricreare insomma la realtà secondo l'emozione, caricandola di valori simbolici per mezzo di un linguaggio di sentimento – colore, che aveva avanzato Delacroix.

Rifiutando il mondo ideologico degli impressionisti, ne rifiutava la tecnica quel mobile trascorrere del pennello in una materia quanto mai fluida e ariosa, alla ricerca di diversi rapporti cromatici, basilarmente su colori complementari allo stato puro, contrapposti e avvicinati secondo vibrazioni in verticalità, sempre più squillanti.
Non fu soltanto la cultura impressionista a Parigi ad avere un peso determinante nella formazione del giovane pittore, c'è il rinnovato entusiasmo per le stampe giapponesi, con le quali ad Anversa aveva arredato la sua stanza. L'incontro con l'arte orientale è un punto chiave nel suo percorso stilistico: le stampe di Hokusai, Hiroschighe, Utamaro, oltre a rappresentare per Vincent la polarità opposta al suo temperamento, un eden d'arte gioiosa e serena, libera da contaminazioni, affidata esclusivamente al colore e alla linea. Questo incontro con l'arte orientale lo porterà a ribaltare completamente la sua visione della tecnica artistica Appaiono ora i suoi primi, luminosi chiarissimi paesaggi.Siamo alla fine del 1886.

Si era buttato con tanto zelo e abnegazione nello studio, impiegando tutti i suoi soldi nell'acquisto di tele e colori, nutrendosi di solo pane e fumando moltissimo, per calmare la fame,che Parigi finì per esaurire i suoi nervi, già così fragili.
"Sento che mi vengono meno le forze. Ti dico chiaramente che in queste circostanze temo che non riuscirò a farcela, la mia costituzione fisica sarebbe abbastanza buona, se non avessi dovuto digiunare a lungo, ma si è trattato sempre o di digiunare o di lavorare meno e ho scelto, il più delle volte, la prima soluzione, finchè ora sono diventato troppo debole... ciascuno deve decidere da solo... il dovere è una cosa assoluta... ti dico ho scelto con piena coscienza la vita del cane, resterò un cane, sarò povero, sarò pittore... le cose grandi non sono incidentali, devono essere opera della volontà."
Decise di abbandonare Parigi, per rifugiarsi in un ambiente tranquillo. Scelse la Provenza e il 21 febbraio del 1888 si stabilì ad Arles.
Le opere dei primi mesi non si discostano molto dalle precedenti, ma l'estate accende di una luce accecante i suoi colori, ha inizio quello straordinario periodo creativo, che raggiunge splendidamente il suo apice nel Cafè de nuit, massima prova dell'unità colore – forma ormai realizzate e che mai più riuscì a raggiungere nelle tele successive.
È lontano il tempo dei suoi "quadri in zoccoli ",la tecnica ha raggiunto ora una perfetta sicurezza, il colore è l'equivalente espressivo della tensione spirirituale ed emotiva, "il pittore del futuro deve essere un colorista, come non ce n'è ancora uno ".
Da ora in avanti si accentua la tendenza a realizzare un'arbitrarietà cromatica e una deformazione delle apparenze che si risolve in una bruciante immediatezza espressiva e rappresentativa e la sua grandezza sta proprio nell'aver infranto, volutamente, le barriere mentali che lo separavano dalla realtà esterna, nell'aver incarnato nella realtà il suo mondo interiore, per cui la realtà da conoscere è l'immagine pittorica creata. Il colore a solo già esprime, ha un'esistenza per se stesso, e usato simbolicamente traduce "un dolore profondo".
La dominante gialla, suprema luce dell'amore è l'essenza stessa della luce della vita, la ricerca del sole, di Dio, dell'amore.

Arcangeli critica "l'eterno apprendista Van Gogh" non gli riconosce alcun merito, tranne i suoi "intensi inviti a capolavori che non vennero". Scrive "non mi si dirà che il rapporto nel dipinto sulla soglia dell'eternità fra il piede e il calzone, nella gamba destra del vecchio è un esempio di deformazione espressiva: questo è un errore di grammatica".
Un artista, un vero artista non ha bisogno di seguire una grammatica, non segue schemi prestabiliti, ma segue semplicemente ciò che la sua ispirazione gli suggerisce,con la tecnica sua personale, unica e inderivabile.
Ciò che interessa valutare non è il problema artistico, quanto invece le varie accezioni simboliche delle immagini:" in base alla documentazione epistolare di Van Gogh si è potuto dimostrare come talora la figurazione che si può deformare a piacimento, ma è un riflesso del suo stesso io, come apparenza della sua visione, ed è forse per questo che non è capace di lavorare se non sul vivo, perché il mondo esterno è l'equivalente del suo mondo interiore. Ciascun quadro è la storia di un'anima, con le sue angosce e illuminazioni.
Il fatto che nel dipinto menzionato da Arcangeli non ci sia un'adesione di rapporti fra "il piede e il calzone ", non significa che ci sia un errore di grammatica, ma effettivamente si può parlare di deformazione espressiva, di contrasto simbolico.
Quel suo fare una figura in pochi tratti, nasce da un'esigenza di eliminare il superfluo, per una paura quasi di perdere di vista l'essenziale e perdersi in un gioco intricato, di sentirsi sotterrare da un cumulo di sovrastrutture inutili e vuote.È l'eterna ricerca di se stesso : la tensione febbrile che si avverte nell'immagine è il segno di una lotta vissuta con lucida disperazione dall'artista.Ogni sua immagine è forma sensibile del reale nello stesso modo che simbolo della sua interiorità con un'identificazione così assoluta che nella sua immediatezza infrange qualunque presupposto intellettualistico.
Per Van Gogh la realtà non è un pretesto per esprimere uno stato d'animo soggettivo, non è qualcosa che si può deformare a piacimento, ma è un riflesso del suo stesso io, come apparenza della sua visione, ed è forse per questo che egli non è capace di lavorare se non sul vivo, perché il mondo esterno è l'equivalente del suo mondo interiore.
Ciascun quadro è la storia di un'anima, con le sue angosce e illuminazioni. "Da ogni parte si rivendica il diritto al sogno, il diritto ai pascoli dell'azzurro, il diritto al rapimento verso le stelle negate dalla verità assoluta... l'imitazione stupida delle escrescenze della natura, la piatta osservazione, l'inganno ottico, la gloria di essere così fedelmente, così banalmente esatto come il dagherrotipo, non accontenta più..."

Sembrava proprio che ad Arles Vincent avesse finalmente trovato l'equilibrio fra ispirazione ed espressione oltre ad una certa serenità che le lettere ci raccontano con i suoi entusiasmi e la voglia inesauribile di lavorare nei campi, all'aperto, come non era mai accaduto prima. "Ho avuto una settimana di lavoro intenso e senza fiato nei campi di grano in pieno sole, è l'emozione, la sincerità della natura che ci conducono e se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del lavoro e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l'altra e i rapporti di colore come le parole in un discorso o in una lettera... ho meno bisogno di compagnia di quella che mi potrebbe dare un lavoro senza respiro... solo così sento la vita... ho un sacco di idee per nuovi quadri... sono incantato, incantato di ciò che vedo e tutto ciò... mi entusiasma..."

I

I bellissimi Girasoli, il suo fiore preferito, che dipinse come solo lui poteva vedere, sono l'esaltazione più compiuta del colore che riesce, con forza, a rendere visibile l'emozione.La sua è una tecnica semplicissima, raggiunta in anni ed anni di disciplina ferrea "col cuore a pezzi ", insofferente a qualsiasi imposizione o regola, che non provenisse sempre e soltanto dall'ispirazione.
Ciascun quadro è la storia di un'anima, con le sue cadute ed illuminazioni che si legge nell'azione febbrile con cui le immagini spiegano una lotta vissuta con lucida determinazione.

"Nel mio quadro Café du Nuit ho cercato di esprimere l'idea che un caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere dei crimini, inoltre ho cercato di esprimere la potenza tenebrosa quasi di un mattatoio con dei contrasti tra il rosa tenero e il rosso sangue e feccia di vino, tra il verdino Luigi XV e il Veronese, con dei gialli e i verdi blu intensi, tutto in un'atmosfera di fornace infernale di zolfo pallido."
La sala rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde nel mezzo, quattro lampade giallo limone, con raggi arancione e verdi. Tutta una lotta di rossi e di verdi, i suoi amatissimi colori in un'antitesi stridente che vuole esprimere "le terribili passioni umane "in un luogo dove ci si può rovinare, commettere le azioni più terribili.
Intorno a quei tavoli, al primo, lieve tocco di una mano, si annuncia l'amaro, sordo dolore che stringe il cuore, mentre il piano del tavolo vortica vertiginosamente e si continua a bere, con sete insaziabile, ma la febbre e l'angoscia nelle ossa non cessa mai.

L'eccessiva esuberanza, purtroppo, prepara l'approssimarsi della crisi che lo colpirà presto e intanto sempre più spesso si lamenta di dolori e disturbi fisici e nervosi.La malattia si manifesta sempre più chiaramente attraverso una serie di comportamenti bizzarri, ma soprattutto con degli sbalzi d'umore che spesso lo rendevano molto violento.
Ebbero inizio, sebbene ancora di rado, le prime crisi di quel male che lo condurra' ad una disperazione tragica.
Nella piena coscienza delle sue condizioni scrive "mais dans les crises c'est pourtant terribile... je perds connaissance de tout..."
"I l sole era troppo cocente, le sue ali parvero soprafatte, era troppo violento il soffio temuto del mistral, troppo assordante lo stridore delle cicale della Crau, che gli ronzava nella mente"...
"in altalena tra depressione ed espansione, tra iperattività ed abulia, creatività e testa opaca... " Vincent andò alternando a periodi di frustrazione, altri di apparente benessere, nei quali si rituffava nel lavoro "è il caldo che mi restituisce le forze... io lavoro forte... dopo i frutteti mi occorre una notte stellata con dei cipressi... abbiamo delle notti molto belle qui e io ho una continua febbre di lavoro".
La crisi esplose, violentissima, in seguito ad un litigio con Gauguin, che era suo ospite e per effetto probabilmente dell'assenzio, si manifestò in forma agitato – furiosa e divenne violento e autodistruttivo. Si tagliò una parte dell'orecchio con il rasoio, l'episodio gli procurò l'internamento nell'ospedale di Arles, dove venne curato da un giovane medico, che lo dimise dopo pochi giorni, dandogli notizie rassicuranti. Ma per Van Gogh fu un colpo durissimo, da allora perse la fiducia in se stesso e visse nell'ansia di una ricaduta, inoltre era molto inquieto per il futuro.
Il fratello Theo stava per sposarsi e Vincent si sentiva di peso, aveva la sensazione di costituire un problema per la futura famiglia e avvertiva un profondo senso di colpa.
Meditava di sparire, di farla finita.
Il dottor Rey lo assistette pazientemente, come meglio poteva,perché non era in grado di comprendere le reali condizioni del suo paziente. Cercava di convincerlo ad accettare volontariamente di essere internato nell'ospedale psichiatrico di St Rémy. Il 9 maggio abbandona Arles. Aveva piegato il capo al "mestiere di pazzo "e "poco per volta posso arrivare a considerare la follia una malattia come un'altra... per conto mio sta certo, non avrei proprio scelto la follia se si fosse trattato di scegliere, ma quando si ha una faccenda del genere... è una malattia come un'altra... dentro di me ci deve essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha giocato questo tiro... c'è effettivamente qualcosa di rotto nel mio cervello... "
La pittura continuò ad essere per lui la vita vera, quella dei sogni, che, come scrive Pessoa, è la più autentica. Continuò a dipingere con disperata passione, come testimoniano le moltissime tele, quasi duecento, che produsse nell'anno del suo ricovero. Quando il male non lo aggrediva, confessava sulla tela l'inesausta vitalità del suo spirito, l'angoscia che gli procurava un così grande tormento, con una pennellata che è un segno furioso, che si avvolge e si contorce per raggiungere "l'alta nota gialla."
"Ora sono diventato troppo debole... ciascuno deve decidere da solo... il dovere è una cosa assoluta... ti dico ho scelto con piena coscienza la vita del cane..."
"Dio mio che abbattimento... ho lo stomaco terribilmente debole... certi giorni sono terribili, sono malato e non guarirò, non ci posso far niente... per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e vi ho perduto metà della ragione... ma che cosa vuoi tu, infine?"
Sofferenze possono turbare la serenità della sua anima, il sole può roteare minaccioso, gli ulivi torcersi in una muta sofferenza, i cipressi diventare cupe fiamme di disperazione, ma questo è il solo modo possibile ormai.
In alto ci sono le stelle e Vincent sembra aggrapparvisi come ad una salvezza. Qui, tra noi, i fiori e il grano che cresce, ed egli sente che anche quando le angosce sembrano distruggerlo, la natura continua a vivere.

Così ai dipinti di grandissima suggestione, sebbene dai toni esasperati, in quanto la liricità allucinante non è mai stata così intensa, la malattia aggiunge una nota nuova, fino al limite massimo delle sue possibilità.
Poi i momenti in cui la pittura incarna un mondo caotico ed incontrollabile insostenibile." Attualmente soffro molto in certi giorni... non avrei il coraggio di ricominciare fuori... mi sento tranquillo là dove sono obbligato a seguire una disciplina, come qui al ricovero... non ti nascondo che il soggiorno qui mi stanca molto... non bisogna dimenticare che un vaso rotto rimane un vaso rotto".

Dopo il trasferimento ad Auvers sembrò essergli tornato l'ottimismo "sono sempre più convinto che io abbia preso una malattia tipica del sud e che l'essere qui farà passare tutto ", ma è ancora un'illusione che si infrange presto per il ripetersi delle crisi, molto più lunghe e penose. Il malessere spesso lo costringeva a smettere di dipingere. A giorni di lucidità, che impegnava comunque sempre per dipingere, si alternavano repentini momenti assai critici, in cui l'alone semantico si restringeva, il segno non più collegato al suo significato diveniva variabile, fluttuante, del tutto autonomo, fino all'incoerenza, a forme gravi di agrammatismo e povertà espressiva, incredibili.
Il linguaggio si fa più incomprensibile e veramente ci troviamo di fronte ad una deformazione espressiva, non più voluta, ma casuale, che prelude al caos, alla devastazione "non faccio assegnamento di avere sempre la salute che mi occorre... se il mio male ritornasse, dovrai avere molta pazienza con me, amo ancora tanto l'arte e la vita... dichiaro in modo assoluto, ma assoluto che non so assolutissimamente cosa potrà accadere. Io mi sento finito, questo per conto mio, sento questa e' la sorte che devo accettare e che non cambierà... le prospettive si oscurano, non vedo un avvenire felice."

Sono toccanti queste parole di un uomo che si sente impotente, solo e desolato, che assiste al suo sfacelo, senza che nessuno sia in grado di capire la gravità del suo male ed intervenire con competenza per salvarlo.
Il dottor Gachet, cui era affidato, non era uno specialista e lo curava per epilessia.
"Durante le crisi è terribile e allora perdo la coscienza di tutto, ma questo fa sì che mi spinga al lavoro, alle cose serie, come un minatore di carbone sempre in pericolo si affretta in ciò che sta facendo... non so se ti scriverò molto di frequente, perché non tutte le mie giornate sono abbastanza chiare per scrivere almeno logicamente.

Sulle tele il tormento si libera su ritmi ormai concitati: i gialli diventano stridenti, il linguaggio inquietante, il motivo grafico dell'orizzontale e della verticale si fa sempre più ossessivo, il sole rotea vorticosamente, i paesaggi sono bassi e tempestosi, i cipressi, gli incantevoli cipressi di Van Gogh, hanno linee contorte e sembrano posseduti da una spirale maniacale, fiamme di disperazione e curve, curve, curve."Ho ancora in mente di laggiù un cipresso con una stella... un cipresso altissimo, scurissimo... " con sopra le stelle che splendono come fiori notturni.
Ogni giorno teme di non saper più resistere "all'onda nera che si sta abbattendo sul mio spirito "e "in quanto a me, capisci, da un momento all'altro una crisi più violenta può distruggere per sempre la mia capacità di dipingere, fino a quando mio Dio? "
Povero Vincent, è il 1890, il 29 luglio "con un atto improvviso di grande violenza", che esplode come un cortocircuito, si tolse la vita.

Della stessa autrice in questa biblioteca:
Vincent van Gogh
Scrittori mitteleuropei
Emanuel Carnevali
Elias Canetti
Henry Roth
Bruno Schulz
Shalom Aleichem
Per saperne di più: Vincent van Gogh su Wikipedia