Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Controstoria   

Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo

Editore Laterza
Collana Biblioteca universale Laterza
pagine 375
anno 2005

Il libro è un serio e documentato studio sulle effettive radici ideali, economiche e sociali del liberalismo. L'autore fa soprattutto parlare i padri del liberalismo, dai fondatori della Costituzione americana, ai teorici inglesi della politica, ai grandi autori francesi. L'analisi è talmente minuziosa da risultare di non agevole lettura e talvolta ripetitiva. Ne esce un quadro assai amaro delle teorie, dei concetti e della pratica politica e sociale che hanno accompagnato la nascita della libertà dei moderni. È l'altra faccia della civiltà europeo-transatlantica.
Nel DNA del liberalismo c'è un'idea censitaria della libertà, nel senso che essa apparterrebbe solo a chi è proprietario e ha una cultura nelle arti "liberali". Gli altri (dove gli altri erano, di fatto la stragrande maggioranza dell'umanità: i non proprietari, i servi, i semi-servi e gli schiavi, i popoli colonizzati, gli emarginati) dovevano stare in un regime sottomissione assoluta. Per non parlare della colonizzazione del nuovo mondo, dei genocidi del colonialismo otto-novecentesco e delle responsabilità liberali nella carneficina della Prima guerra mondiale. In effetti, il matrimonio tra liberalismo e democrazia è piuttosto tardo e sono stati lo spavento, la preoccupazione per la stabilità del sistema prodotti dai grandi movimenti sociali organizzati dell'Ottocento e del Novecento a costringere il liberalismo (e la sua versione economica, il liberismo) a diventare più mite, a civilizzarsi. Da allora, il rapporto tra libertà e uguaglianza è diventato difficilmente scindibile, anche se non sono mancati (e non mancano) i tentativi di farli divorziare, ai quali si è opposta anche un'ala liberal-democratica, entrata in conflitto con quella conservatrice.
Perciò, suggerirei di diffidare di chi predica il ritorno alla pura fonte delle idee liberali. Costui vuole dire (ma non può dirlo esplicitamente) - stando alla documentazione citata da Losurdo - che egli è più uguale degli altri; che ha il diritto di fare affari a detrimento del resto del mondo, anzi espropriandolo; che la sua idea di libertà coincide con i confini della sua vigna e che perciò l'interesse collettivo, la coesione sociale e l'equità non sono valori prevalenti rispetto alla sfera degli interessi personali; che la difesa dei più deboli è affidata alla sola coscienza e generosità di chi più ha; che le coalizioni tra chi ha solo il proprio lavoro sono praticamente un attentato alla libertà; che, alla fin fine, la selezione della specie umana passa attraverso la competizione: perciò il più forte ha diritto di sopravvivere. Insomma, ci sarebbe un'aristocrazia della ricchezza, della proprietà e delle cultura che ha (aveva) diritto ad una democrazia per il popolo dei signori, come la definisce l'autore. Per non parlare della razza, le cui teorie più abnormi sono figlie dirette del ceppo liberale ottocentesco, come anche in parte l'antisemitismo. Se poi si tratta di una persona religiosa, intende anche dire che è stata la divina provvidenza a premiare il suo duro lavoro e che se voi siete poveri ed emarginati la colpa è solo vostra. Anzi, è il segno della giustizia divina. È un vizio consolidato quello di usare la religione come presidio di un assetto sociale.
Non stiamo mica parlando solo di due secoli fa, stiamo parlando anche di certi neoconservatori americani. Senza scherzi: questi erano i valori essenziali dei "padri liberali". Gente non poi tanto presentabile, nella loro interezza, a gran parte della coscienza contemporanea. Di conseguenza, raccontati nei libri di storia e nei pamphlet politici in modo agiografico, censurando abbondantemente ciò che effettivamente scrissero nonché i risvolti biografici più imbarazzanti della loro vita. Tanto, chi volete che legga ponderosi volumi e sterminate raccolte di corrispondenza privata? Giusto qualche storico. Ma, conclude l'autore, al liberalismo va reso un onore, quello della duttilità, cioè di essere stato capace di cambiare adattandosi al mutamento sociale, sia pure sempre imposto dall'esterno; oltre - aggiungo - di aver immaginato dei principi politici che, resi universali, rappresentano la base della convivenza civile.

Libro   

(a cura di) Corrado Ocone; Nadia Urbinati, La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio

Editore Laterza
Collana Biblioteca universale Laterza
pagine 270
anno 2006

Questo testo, che avrebbe potuto essere una sorta di complemento al volume di Losurdo, un approfondimento del versante italiano del liberalismo, si presenta invece come un suo controcanto. Naturalmente, tutte le antologie sono una specie di vetrina, in cui si espongono le cose migliori. D'altra parte, gli stessi autori dichiarano nell'Introduzione di non aver voluto curare un volume di storia ma un testo "teorico e civile", nel quale si "vuol fare chiarezza sull'identità del liberalismo in un'età nella quale il liberalismo è stato prepotentemente gettato nell'area politica come un'ideologia di battaglia, partigiana e a volte arrogante, spesso dogmatica e poco rispettosa dell'ideale liberale." Giustamente, se la prendono soprattutto con chi, anche di recente, ha polemizzato contro le società pluralistiche, tentando di rimuovere così una delle pietre angolari del liberalismo. Non essendo un testo di ricostruzione storica, il libro non può che sorvolare sulle concrete condizioni economiche e sociali che hanno generato l'affermazione del liberalismo e tende a metterne in evidenza i principi ideali piuttosto che i lati oscuri che ne hanno inscindibilmente accompagnato la storia, a partire dal XVIII secolo e anche da prima.
In realtà, l'area di riferimento del libro è quella del liberalismo democratico, che cerca di coniugare i principi di libertà e di uguaglianza, assieme ad una gelosa difesa del principio di laicità. Ossia quell'area di pensiero politico che, sotto l'incalzare delle lotte sociali e di una più matura coscienza di inaccettabili condizioni sociali e umane, è nata dal tronco originario e ormai impresentabile di quell'altro liberalismo che si è associato nel tempo al conservatorismo, persino al clericalismo e - sia pure transitoriamente - al fascismo. Data da allora l'accusa reciproca di tradimento tra le due ali del liberalismo. Quel che c'è da dire è che, in Italia, ha finito sempre per prevalere l'ala conservatrice, e non è un caso.
In buona sostanza, l'insieme delle testimonianze storiche contenute nell'antologia si presenta paradossalmente come ciò che il liberalismo avrebbe potuto essere e non è riuscito a diventare. Sicché, nei suoi momenti migliori appare davvero come altra cosa da come ha agito e si è storicamente realizzato nello svolgimento dei rapporti di forza, nel vivo delle scelte politiche, nell'intreccio con i poteri forti, nella subordinazione agli interessi dominanti. Verrebbe da esclamare: certo, un liberalismo così sarebbe stato un'altra cosa! Tutto sommato, questa non è però una critica, ma il riconoscimento che un liberalismo che mette al suo centro la persona è una delle basi nobili di una società migliore, i cui principi essenziali dovrebbero rappresentare il fondamento delle società contemporanee. Nello stesso tempo, essa è una denuncia della miseria del liberalismo italiano realizzato, contro la quale la gran parte degli autori presentati nell'antologia ha lottato. Per questo va reso loro onore, essendosi sforzati di immaginare e di costruire un'altra Italia. Due testimonianze per tutti. Il testo di Piero Gobetti del 1925 su Il nostro protestantesimo e l'articolo apparso su "Il Mondo" del 1959 Padroni e giornalisti, che oggi, però, sarebbe stato scritto in un tono persino ben più allarmato.

Libro   

Robert Dahl, Intervista sul pluralismo (a cura di Giancarlo Bosetti)

Editore Laterza
Collana Saggi tascabili Laterza
pagine 154
anno 2002

Strano quanto un vecchio leone del pensiero politico democratico e liberale americano come Robert A. Dahl, che ha fatto discutere molto, che è molto rispettato e che ha prodotto acute analisi e punti di vista così radicali sul rapporto tra libertà e uguaglianza da impensierire persino un qualsiasi progressista europeo, appaia in questa intervista quasi ripiegato su stesso e molto sulla difensiva. Voglio dire che alcuni suoi libri, che ruotano attorno ad un solo appassionante problema, la democrazia, rendono assai meglio il suo pensiero e sono senz'altro più vivaci.
Certo, di quanto il clima politico sia cambiato nell'ultimo scorcio del Novecento è testimoniato dal fatto che certe affermazioni contenute nel volume furono citate quali coraggiose prese di posizione controcorrente da parte di molti recensori, quando uscì il volume. Come la sua dichiarazione che "la protezione dei diritti collettivi e del welfare non hanno minacciato o demonizzato le libertà di base", oppure che la distribuzione ineguale delle risorse crea "una tensione permanente" con gli ideali e le pratiche democratiche. Oppure, ancora, quando con molto buon senso della storia Dahl ricorda un fatto piuttosto semplice, e cioè che quando i partiti democratici sono in crisi e/o vengono messi in crisi, subentra il dominio dei demagoghi o delle fazioni; o di tutti e due insieme.
In questa intervista, Dahl si presenta molto cauto, anzi esplicitamente scettico, sulla possibilità che alla globalizzazione dell'economia si potrà affiancare una qualche forma di governo mondiale in grado di regolarla. Arriva a sostenere che "per me è impossibile concepire uno Stato mondiale, con una costituzione democratica". Non c'è spazio per riferire qui le sue argomentazioni, che ruotano tutte attorno a due assi. La sua preferenza per la comunità locale, espressione di una buona qualità della democrazia, e la sua diffidenza per le burocrazie o tecnocrazie, pure riconosciute necessarie.
Per il resto, alcuni dei temi essenziali affrontati riguardano il pericolo per la democrazia creato da uno stato di guerra, perché esso produce una restrizione delle libertà personali e un predominio dell'esecutivo su tutti gli altri poteri. Il fatto che la democrazia e l'economia di mercato sono essenziali, ma che "c'è tra di loro un certo livello di antagonismo", visto che il mercato genera disuguaglianze, che finiscono per avere un riflesso politico. Ma soprattutto sulla prima delle regole democratiche e cioè che i membri di una qualsiasi collettività debbono avere opportunità uguali e effettive di partecipare alle decisioni. In un sistema socio-politico così complesso come quello contemporaneo, le regole democratiche non possono valere per tutte le sue articolazioni, eppure "il problema di quegli altri generi di ineguaglianze, le ineguaglianze non politiche, può potenzialmente interferire con l'uguaglianza politica." Infine, quasi un appello: la sopravvivenza delle democrazie è affidata all'esistenza di una forte cultura politica, destinata a metterle al riparo dalle crisi ricorrenti.

Libro   

John Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione

Editore Feltrinelli
Collana Campi del sapere
pagine 241
anno 2002

Dopo un periodo in cui la filosofia politica sembrava praticamente estinta, per ragioni che non è qui il caso di riassumere, a partire dagli anni '60 e '70 del secolo scorso essa ha conosciuto una nuova stagione, alla ricerca delle ragioni e delle condizioni normative che permettono la convivenza sociale e politica. Esse sono state individuate nell'esistenza di un pluralismo dei valori e nella possibilità di fondare un punto di vista imparziale. Si tratta soprattutto di un ritorno del cosiddetto contrattualismo, articolato in vari filoni, di cui Rawls è uno dei massimi esponenti.
L'autore propone di partire da un esperimento mentale. Quali valori fondativi di una società ognuno di noi sceglierebbe se fossimo del tutto all'oscuro (velo di ignoranza) sulle nostre effettive condizioni economiche, sociali, religiose, di pelle e di sesso? La riposta è che, proprio a partire dal nostro interesse personale, sceglieremmo due principi. Il primo riguarda le libertà civili fondamentali (politica, di culto, di parola, di associazione e così via), uguali per tutti. Il secondo è, per così dire, un principio cautelativo, ossia che la dotazione sociale essenziale (ricchezza, poteri e opportunità, diritti in genere e così via) debbano essere distribuiti beneficiando proporzionalmente i meno avvantaggiati. Nessuno, infatti, vorrà rischiare di far parte degli oppressi o di veder sacrificate le proprie opportunità, anche se nessuno rinuncerà alla libertà in nome del benessere economico. La società è fondata su quella che Rawls chiama la giustizia distributiva. Attenzione, però: "i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica né del calcolo degli interessi sociali".
L'autore attacca poi i principi dell'utilitarismo sostenendo che esso non è in realtà individualista, in quanto "riducendo in uno solo tutti i sistemi di desideri, applica alla società intera il principio di scelta per un solo uomo." Da questo punto di vista, l'utilitarismo non è meno pericoloso del collettivismo più fanatico. Partendo dall'esistenza di individui liberi e uguali, è possibile costruire uno Stato aperto nel quale esisteranno persone di orientamento morale, religioso, filosofico diverso. Perciò, se si vuole la cooperazione sociale, la concezione politica della giustizia dovrà essere neutrale, definita sulla base di un accordo equo e accettabile.
Rawls, pensatore liberale, sottolinea spesso che la molteplicità dei punti di vista non è eliminabile e che è impossibile ridurli ad una sola concezione morale. Tanto che usa il termine di giusto e non quello di bene, nel riferirsi a ciò che deve regolare una comunità. Solo il giusto permette di considerare l'insieme dei soggetti sociali aventi aspettative ed esigenze dissimili. Il concetto di bene, invece, contiene un inevitabile finalismo, cioè è per definizione esclusivo e unilaterale. Per suo statuto esso tende a prevaricare ciò che è giusto. Non è un caso che opposti fondamentalismi oggi in campo ricorrano al concetto di bene e male per giustificare le loro azioni e le loro concezioni geopolitiche, e non al concetto di ciò che è giusto. Tanto che, in nome di un supposto bene, si possono travolgere molte delle barriere che si oppongono all'ingiustizia e alla tirannia.

Libro   

Salvatore Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia

Editore Feltrinelli
Collana Campi del sapere
175 pagine
anno 2002

L'autore valorizza molto il contributo di John Rawls alla filosofia politica e apre con la bella affermazione di Kant, per cui "la violazione di un diritto in un punto della Terra è avvertita come tale in tutti i punti della Terra." Ma che cos'è l'ingiustizia? Secondo Veca vi sono associate due idee: "che si possa e si debba politicamente perseguire lo scopo della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile e che, perseguendo questo scopo, si possano e si debbano rimuovere i vincoli e le catene che soffocano e coartano la possibilità per esseri umani di scegliere le proprie vite e, per quanto possibile, di padroneggiarle, senza essere vittime, sudditi o schiavi delle circostanze naturali e sociali." Lo scopo è affascinante, ma c'è da fare i conti tra un visione globale, alla Kant, e la dura realtà della prevalenza della giustizia (o ingiustizia) locale. Per esempio, con il rifiuto americano dei tribunali internazionali per i propri cittadini, per cui la nazione più "moderna" applica il principio medievale del sovrano locale che non accetta intromissioni.
C'è poi da chiedersi su quali valori debba basarsi un'idea di giustizia globale. L'autore prende in considerazione l'elaborazione di Amartya Sen, il quale "pone l'accento sul valore intrinseco della libertà delle persone di scegliere tra vite possibili." Idea attraente, che è però circolare, cioè che giustifica se stessa, e che può non essere universalmente condivisa. Per questa ragione, Veca pone piuttosto l'accento sulla necessità del pluralismo come qualificazione dell'essere vissuto e si pone il problema se la libertà debba riguardare l'autonomia o piuttosto l'autorealizzazione della persona. E qui si apre una biforcazione, laddove le tesi comunitaristiche (occidentali e orientali) tendono ad escludere l'autonomia. Ma dalla circolarità, secondo me, si passa all'irriducibilità delle tesi contrastanti. Infatti, se ammettiamo con Amartya Sen "l'idea dello sviluppo umano come libertà", allora essa entra in conflitto con quella per cui "la mia libertà coincide con quella della mia comunità", qualsiasi cosa quest'ultima voglia significare.
Ora, per me, l'autonomia della persona è il presupposto necessario dell'autorealizzazione e perciò condivido l'affermazione di Veca, per cui è questo il punto archimedeo dell'intera faccenda, non dipendente da contesti, culture e tradizioni. Il problema è che ciò non va bene ad un comunitarista, il quale fa proprio dei contesti, delle culture e delle tradizioni la base fondante della subordinazione dell'autonomia all'autorealizzazione.
È qui che si innesta la discussione, molto attuale, tra relativismo e integralismo (religioso e laico), alla quale il libro di Veca non dà una riposta teorica diretta, anche se analizza il fenomeno, certo fondamentale, del terrorismo. Il fatto è che mentre il relativismo (assoluto) impedisce una visione globale dell'umanità, l'integralismo ammazza la libertà. Non rimane che la strada del buonsenso e della tolleranza, ossia del pluralismo (non a caso fatto oggetto di attacchi da parte degli integralisti). E dell'empirica applicazione dei principi sanciti nella Carta dell'ONU e sottoscritti dai sovrani locali, ossia dagli Stati aderenti.

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