Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Cioran   

Mario Costa - La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie

costa&nolan
pagine 127
anno 2007

C'è un'affermazione all'inizio del libro che condivido in pieno. "La ricerca estetica, quella che non crede di poter far finta di niente, deve funzionare oggi come un rilevatore del flusso tecnologico, delle sue zone di perturbazione, dei suoi campi di vibrazione ...'e tutto il resto è letteratura'". Costa, che insegna all'Università di Salerno, è uno dei non molti cultori di estetica che interpreta l'arte moderna come esplicito riflesso, ma anche anticipazione, dell'età della tecnologia e della neotecnologia. Anzi, partendo da una rilettura di Giovan Battista Vico, piegato dal crocianesimo a uno storicismo esclusivo, persino le metafisiche potrebbero essere interpretate "come se la filosofia non potesse far altro che pensare ogni volta l'essenza della tecnica che l'accompagna, trasformandola in grandi metafore ideali".
Per l'autore, che espone la sua tesi anche attraverso la rassegna di diversi scrittori e di alcune arti, non c'è alcun dubbio che "tecnologizzazione del mondo e disumanizzazione dell'arte marciano di pari passo e sono due facce dello stesso fenomeno". Sicché, non solo la nuova materia dell'estetica sono proprio le neotecnologie, ma sfuggire a una lettura dell'arte del Novecento in particolare, senza tenere conto dei rivolgimenti indotti dalla grande espansione della tecnica e della scienza significa non riuscire a dare una riposta al perché delle avanguardie e dell'arte contemporanea e continuare ad aggirarsi attorno a una condanna e a un'incomprensione del nuovo mondo, come hanno fatto molti degli autori analizzati da Costa, nutriti di spiritualismo e di nostalgie assurde. Dove per disumanizzazione, però, non si deve intendere la fine dell'arte, come è andato di moda scrivere, ma piuttosto l'irrompere degli oggetti nell'orizzonte artistico, sostituendo il sublime naturale di una volta e la soggettività otto-novecentesca con l'emersione del sublime tecnologico. Come, del resto aveva già cominciato a intravedere Italo Calvino nel suo saggio del 1960 Il mare dell'oggettività.
Penso che l'atteggiamento negativo assunto da tanta parte degli intellettuali e dei filosofi del Novecento nei confronti della tecnica, derivi piuttosto da una carenza di cultura scientifica, che ne ha stimolato il sospetto e l'intima incomprensione a causa della sua estraneità alle loro competenze e alle forme espressive a cui erano da secoli abituati, in particolare all'antica capacità dell'arte di esprimere il simbolico, come ci ricorda Costa. Per cui non sono nemmeno più riusciti a metabolizzarla in "grandi metafore ideali". Non solo in Italia.
Bisogna guardarsi dal cadere in una specie di nuovo animismo, in una idolatria diretta o rovesciata della tecnica, predicando che essa vive di vita propria, che ora è essa a comandare sugli esseri umani, dotata di un'autonoma volontà di espansione e di dominio, con una invocazione di ritorno al passato che è del tutto speculare alla fuga nell'utopia tecnologica predicata da alcuni. Del resto, mi chiedo se sia ancora sensata la distinzione tra naturale e artificiale, almeno nel senso in cui li si è storicamente concepiti. E proprio in questa ricerca di un nuovo senso che Costa conia la nozione di ricercatore estetico come figura che spiega molta parte dell'arte contemporanea e come nuovo orizzonte dell'estetica. Anche qui è lo sperimentalismo proveniente dal predominio della scienza a suggerire il percorso attraverso il quale la civiltà sta evolvendosi.

Cioran   

Emil M. Cioran, Confessioni e anatemi

Adelphi
pagine 133
anno 2007

Quando ero molto giovane amavo gli aforismi; mi sembrava che solo la brevità di un pensiero, l'intuizione folgorante, il rapido sguardo dato di sbieco potessero cogliere l'essenza delle cose e della vita. Così come gli incipit brevi e densi di un testo dovevano racchiudere tutto il senso di un libro e, di conseguenza, un intero mondo. Diffidavo del dipanarsi faticoso di un pensiero, della lenta e progressiva costruzione di un punto di vista e credevo che il sarcasmo o, almeno, l'ironia accompagnati dal dolore della vita, racchiusi in una frase fulminante, icastica, fossero capaci di svelare il vero senso dell'esistenza. Insomma, quella condizione espressa da Cioran in uno dei suoi aforismi: "Aver passato la giovinezza a una temperatura di demiurgia".
La letteratura e la filosofia possiedono parecchi autori di aforismi, un genere di scrittura autonomo e di cui usualmente si frequentano sparsi e selezionati esempi, talvolta utili per le citazioni. Ma lo scrittore di aforismi, come il Cioran di questo libro, mostra talvolta quanto il genere si presti a camuffare un'impotenza di pensare il futuro, espressa attraverso il pessimismo e la provocazione. Cioran è spesso definito un pensatore provocatore, ma penso che le sue istigazioni a guardare la vita di sbieco, fino a coglierne gli aspetti più sgradevoli nascosti nelle pieghe, fossero la manifestazione del suo essere rimasto impantanato nel bel mezzo di quel terribile Novecento che lo aveva reso, da giovane, temporaneo frequentatore di ideologie di morte e poi apolide, quando ancora nessuno poteva definirsi, se non solo culturalmente, cittadino europeo. Era un pensatore isolato, per "conto suo", e infatti egli stesso si definiva "un pensatore privato".
La lettura di questo libro mi ha dato l'idea che la sua scrittura emotiva, i suoi giudizi feroci e, per l'appunto, provocatori, fossero più un grido di aiuto rivolto al lettore per essere rimasto prigioniero di un pantano di cui non riusciva a distinguere le rive, e cioè la salvezza. Un grido da cui non si aspettava tuttavia una riposta se osserva: "Contavo di assistere in vita alla scomparsa della nostra specie. Ma gli dèi mi sono stati avversi".
L'idea del suicidio era sempre ben presente nella sua mente, pur non praticandola, perché essendo l'unica prospettiva che rendeva sopportabile la vita, proprio per questo non bisognava affrettarsi a praticarla. Il senso di questa sua dichiarazione la spiega lui stesso in un aforisma: "Nessun pensiero più traviatore né più rassicurante del pensiero della morte. È probabilmente a causa di quella duplice qualità che lo si rimugina al punto di non poterne fare a meno. Che fortuna incontrare, nello stesso tempo, un tossico e un farmaco, una rivelazione che vi uccide e vi fa vivere, un veleno corroborante!".
Eppure, questo antimodernista disperato ha attraversato un impossibile amore senile, nato da un'attrazione e da un'ammirazione intellettuale che lo dispose, attraverso l'eros e per un certo tempo, a quasi rivalutare l'immaginazione della felicità.

Vittoria   

Vittoria Vittoria, Napoli New York, 2000-1990

Iride
pagine 128
anno 2006

Non è un saggio, non è un romanzo, non è poesia, eppure il libro è tutto questo. Forse sarebbe più semplice dire che si tratta di un libro di memoria, ma ne sminuirebbe il respiro e anche la freschezza di una lettura che cattura il lettore fin dalle prime pagine. Vittoria Vittoria attraversa tutti questi generi organizzando il testo in diversi livelli che si incastonano agilmente l'uno dell'altro, portando per mano il lettore attraverso una delicata avventura emotiva, il cui filo conduttore è il dialogo con la figlia maggiore lontana, Paola: è lei il deus ex machina della storia, che sollecita la madre con le sue domande, con il desiderio di portarsi appresso e ricostruire le proprie radici in una città lontana. È la ricerca di queste radici, fortuitamente messe a nudo dal ritrovamento di un pacchetto di lettere d'amore dei nonni che costruisce un affresco storico, famigliare e di costume trattato con i tenui tocchi della curiosità, della sorpresa e del desiderio di comprendere il come eravamo di tanto tempo fa.
Ci sono le lettere dei nonni, avviati a una storia d'amore e a un matrimonio stretti tra le usanze del primo Novecento, che si svolgono secondo un percorso e modalità per noi incredibili. Ci sono gli interrogativi della figlia lontana e le diverse interpretazioni della madre, che svolge progressivamente la sua ricerca allargando lo sguardo alla storia del tempo e ai documenti rimasti. Ci sono i ricordi infantili di Vittoria e i racconti tramandati dalla madre e da una zia, come avviene, credo, in tutte le famiglie, e che ricollocano nella memoria quella strana storia d'amore fulmineamente accesasi solo attraverso il contenuto sguardo di un incontro casuale per la strada. Una storia di riserbo femminile e di sorvegliata disponibilità all'avventura amorosa; di irruenza e di estrema correttezza formale maschile, secondo le migliori usanze della borghesia colta del tempo. Il rispetto dei codici morali e del decoro formano come una gabbia di ferro attorno ai due innamorati, che ciò nonostante seguono, tenaci e decisi, la strada dettata dalla morale del tempo pur di raggiungere il loro scopo. Ci sono i quadri della Napoli di una volta, con la sua realtà in parte trasfigurata dal ricordo e con l'irruzione di squarci dei sommovimenti sociali che attraversavano un'Italia ancora acerba di democrazia. Ci sono i piccoli quadri intermittenti di Forio d'Ischia, il paese di nascita della nonna Angela e delle vacanze giovanili di Vittoria. C'è il racconto della ricerca di informazioni più precise e l'emozione di un puzzle che si ricompone nei racconti famigliari, assieme ai testi delle lettere, e alla memoria di ciò che è avvenuto dopo, con il matrimonio e la nascita dei figli. Un matrimonio anch'esso stretto, e anche schiacciato, da una ferrea gerarchia familiare.
Ma c'è anche un'altra prospettiva da cui guardare al racconto: è quella della comunicazione di un amore materno, acuito dalla lontananza, dentro un amore famigliare antico e comune, che ne amplifica gli echi e chiede di estendere in qualche modo la sua ombra sui propri discendenti. Umberto e Angela transitano così dalla loro nicchia novecentesca, con le loro lettere ingiallite e la grafia ordinata, lungo la rete impalpabile e prima impensabile di Internet.

Jervis   

Giovanni Jervis - Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali

Bollati Boringhieri
pagine 206
anno 2007

Un libro non sempre compatto, forse perché in esso sono confluite alcune delle pluriennali esperienze del noto psichiatra e psicanalista, ma un libro molto aggiornato dal punto di vista scientifico e che fa già discutere. E di discutere secondo le linee suggerite dall'autore ce ne sarebbe davvero bisogno. È un testo che dovrebbe far meditare (ma, ahimè!, so che questo è un auspicio praticamente inutile) chi continua irresponsabilmente a sfarfallare sulle guerre di civiltà, con l'occhio fisso – per ragioni di bottega, paludate per non farle riconoscere – sul conflitto tra islamismo e cristianesimo come leva della prossima storia. Qui il conflitto delineato da Jervis è molto più serio e profondo. Riguarda un concetto di civiltà la cui dimensione profonda investe i fondamenti e le prospettive non di questa o quell'area del pianeta, ma la civiltà umana senza ulteriori specificazioni. Si tratta di sapere, anche dal punto di vista della futura evoluzione della specie umana, chi vincerà nell'insanabile conflitto tra scienza e fede. Un frattura che passa orizzontalmente attraverso professioni di fede e credenze, che taglia in due tutte le società umane, indipendentemente dalla loro caratterizzazione politica e sociale.
Il frutto migliore della civiltà occidentale è stata la separazione tra scienza e fede e tra religione e stato. Oggi, sull'intera scena mondiale, si confrontano due grandi correnti:
1. un processo di secolarizzazione che avanza a grandi passi, tra molte contraddizioni e squilibri;
2. una reazione religiosa fondamentalista che è tale negli Stati Uniti e nei paesi islamici e che in Europa assume la fisionomia dell'intregralismo e, in Italia, quella del clericalismo.
In buona sostanza, le religioni hanno un nemico comune che rischia di togliere terra da sotto i piedi dei poteri religiosi istituzionali, Nello stesso tempo, si combattono tra loro - nonostante gli appelli al dialogo - dando veste di fede a conflitti le cui premesse risiedono in altre cause. C'è da esserne molto preoccupati, considerati gli insegnamenti della storia, specialmente in Europa.
Ora, il pregio del libro è di ripercorrere i meccanismi mentali, strettamente intrecciati con quelli ambientali che governano il funzionamento della mente umana, avendo la capacità di collegarli, appunto, ai grandi fenomeni del nostro tempo, specialmente nel campo delle credenze. E lo fa svecchiando anche molte delle vulgate psicoanalitiche di cui si è impadronita negli ultimi decenni una cultura umanista priva di qualsiasi preparazione scientifica, demolendo falsi concetti e linguaggi privi di senso. Così come si pone sul terreno della psicologia scientifica, la quale non specula più sulla mente umana, ma utilizza la sperimentazione e i risultati della neurobiologia e delle genetica per cominciare a costruire un nuovo panorama di come funzionano le nostre menti (ma preferisco continuare a parlare di cervello, visti i danni prodotti dall'idea di mente come struttura più o meno spirituale separata da dati fisici). Insomma, Jervis esamina in modo comprensibile e convincente l'argomento, parafrasando un'affermazione del neurobiologo Michael Gazzaniga, per cui "gli esseri umani sono macchine per la costruzione di credenze". Smontarne e esaminarne i meccanismi, in modo scientifico, spazza via molti dei pregiudizi che vengono inculcati in noi a partire dalla prima infanzia e che continuiamo a utilizzare, magari senza che ce ne accorgiamo.

Bonami   

Francesco Bonami - Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte

Mondadori
pagine 166
anno 2007

Se, attratti dal titolo, pensate che finalmente qualcuno vi spiegherà i misteri dell'arte contemporanea e delle sue stranezze, talvolta incomprensibili e repellenti, rinunciate a leggerlo per evitare delusioni. Alla fine del libro non ne saprete più di prima. Se siete incuriositi, sfogliando le pagine, dai titoli dei capitoli e dal linguaggio, diciamo così, molto sciolto usato, debbo avvertirvi che l'operazione compiuta dell'autore è parente stretta dei molti tentativi che scelgono di stupire piuttosto che di fare arte. Una volta si puntava a scandalizzare i benpensanti (épater les bougeois), da qualche tempo il primo che passa.
Sicché la miscela di giudizi e di sguardi storti offerti dal noto e accreditato critico fiorentino non risolve affatto la curiosità e l'ansia di sapere del lettore. Solo un punto è chiaro, e cioè che quel che conta nell'arte contemporanea non sarebbe né la tecnica di esecuzione né la qualità estetica dell'opera, ma l'idea originale che l'ha prodotta. Il che, per la verità, avviene nella gran parte dei casi che mettono a rumore il circuito artistico attuale. Non si sa più cosa inventare per attirare l'attenzione dei galleristi e delle periodiche rassegne d'arte. Tanto che ci si avvia ad una sorta di nuova divisione del lavoro, in cui "esistono persone che di mestiere realizzano in modo egregio quello che gli altri pensano ma non sanno fare". Osservazione che avrebbe meritato un approfondimento, una riflessione sul collegamento tra arte e modernità (o postmodernità, se si vuole), piuttosto che una rassegna delle idiosincrasie personali dell'autore. Non basta affermare che nell'arte contemporanea non ci sono più allievi e che ognuno corre per sé, ispirandosi, rubacchiando qua e là e dedicandosi al bricolage come risposta al dramma di avere davanti a sé una tela bianca (quando di tela si tratti). Del resto è famosa la frase di Picasso, secondo il quale l'artista mediocre copia, mentre il genio ruba.
Poi, qui e là del libro, ci sono delle lepidezze, come un'assoluta svalutazione dei mezzi tecnici impiegati e del ruolo del materiali usati, per cui si ricade nella banalità di criticare, anche giustamente, l'osservazione che "le sculture di Michelangelo fossero belle grazie alla qualità del marmo". Ora, è chiaro che l'osservazione si può aggiungere semplicemente ad altre e ben più ampie valutazioni estetiche, e che non le può sostituire. Ma vorrei vedere l'effetto della Pietà scolpita nel tufo. Tra l'altro, è davvero impossibile spiegare l'arte attuale senza un riferimento alla funzione fondamentale dei materiali sperimentati.
Dunque, qualche freddura e titoli al neon dei capitoli non sostituiscono il vuoto di risposte alla domanda posta dal titolo del libro. Anche se alcune osservazioni non si possono che condividere, come quella che identifica i benpensanti con "quelli capaci di eccitarsi guardando un quadro dei Macchiaioli"; oppure le osservazioni sulla traiettoria compiuta dall'Arte Povera. Sarei un poco più cauto nei giudizi taglienti dati sul movimento della Transavanguardia, anche se nemmeno a me piacciono molto i ritorni nell'arte (come in generale). Da condividere, invece, l'annotazione che l'arte è divenuta "una jungla di speculazione selvaggia", che ne falsa naturalmente i valori, per cui (per riprendere il titolo di un capitoletto), alla fine, Non è brutto ciò che è brutto ma è brutto ciò che piace.

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