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La marcia di Radetzky

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La marcia di Radetzky
Joseph Roth
Newton Compton, 2010

Molto opportunamente – forse in occasione del settantennio dalla morte del grande Autore galiziano -, Newton Compton dà alle stampe, in edizione economico-tascabile, taluni celeberrimi romanzi di Roth, quali La cripta dei cappuccini, e Giobbe, e La leggenda del santo bevitore, e poi questa Radetzkymarsch, evocativa del noto brano musicale di Strauss senior, sempre chiamato a concludere, con i calici doverosamente alzati, il concerto viennese della magica mattina, che apre ciascuno dei fuggenti anni solari.

Ed è giusto su questa – la più corposa –, tra le narrazioni appena ricordate, che qui, udendo in sottofondo i piatti e i timpani – e gli archi e i fiati –dell'omologo brano musicale (di felliniana memoria, a ben vedere), andiamo a dedicare qualche fugace pensiero.
È uno dei paradossi della letteratura, questo, sol che si pensi che, proprio quest'anno, una certa Italia (penso a quella mazziniana) va, entusiasticamente, celebrando il 150º anniverario della Unità – ergo la liberazione, in primis, dalla spinta invasiva austroungarica -, in una con il 138º anniversario dalla scomparsa dell'ideologo antonomastico della unità medesima: il c.d. Apostolo Laico; l'avvocato genovese e londinese.

Mette conto, all'uopo, di essere "leggeri", tanta e indiscussa è la levatura dello scrittore, e tanta è altresì – va detto – la stratificazione/"accumulazione" critica che, su di lui e su di un'opera come questa (si pensi al "Mito asburgico" di Magris in primis), si è andata stratificando, in tutto il mondo a far tempo dal 1932 – anno di prima pubblicazione del romanzo in Austria.

Iniziamo con il dire, allora, che di Marsine, e di Musica, e di Morte, dicesi au fond in questo splendido racconto, sapientemente – "assai professionalmente", vi è da dire – condotto e sviluppato dal sommo giornalista-scrittore di Brody.
Ci sovviene e ci soccorre (unitamente alla summentovata citazione rotiano-felliniana di rimando musicale), un altro collegamento – a detta di taluno forse illecito – con il mondo del grande spettacolo (del mondo). Viene, cioè, da domandarsi perché, purtroppo, due giganti delle assi del palcoscenico, quali Vittorio Gassman e Carmelo Bene, non abbiano mai (per lo meno da quel che ci risulta) messo in scena un adattamento - magari monologante - dell'opera in parola. Ché, in verità, ai due artisti della scena (ormai ambo perduti, ahinoi), s'addiceva assai, secondo il nostro parere, quell'incedere e quel ritmo che fanno l'architrave del romanzo-Marcia: quei picchi rothiani di dialoghi-spade, quell'incedere marziale appunto, e i bicchierini – ingollati, l'uno appresso all'altro, dal sottotenente Trotta – della mortifera acquavite secca (la ritornante "novanta gradi", per dirla con il Nostro).

E sì, perché di Gassman ricordiamo bene, con struggimento, l'adattamento a monologo della kafkiana Relazione accademica (in almeno tre lingue portato in giro per il mondo dal "superuomo" genovese attore, romano di adozione). E di Carmelo, per parte sua, in collegamento cerebrale non può non sovvenire il byroniano Manfred, con lo Schumann messo a contraltare – e a ritmare.
Sì che – ocorre domandarsi con irrimediabile dispiacere - due così alti attori, attenti a testi letterari e a musiche e ai profondi sensi, non abbiano mai ripreso per esempio, dalla kafkiana Relazione, nella Marcia l'idea teutonica dell'uomo che si fa bestia ed il suo contrario; e d'altro canto, de La marcia, nel Manfred beniano, si sente il sulfureo e devastato senso della decadenza: il pometeico illudersi dell'abisso, senza rimedio né pace ed altrimenti, quasi come contrappasso, lo strumento egostista/rigorista della conoscenza pura: il tutto quivi esasperato dal pentagramma dell'autore del ciclo Amore e vita di donna.
Niente di tutto ciò fu, per Gassman e Bene. Così è, per sempre. La vita in fondo, anche per chi ci ha dato tanto, è mera sommatoria di ciò che non si è fatto in tempo/non-si-è-avuta voglia di fare.

Ciò premesso – in una sorta di divagazione e delizia -, va detto che il racconto de La Marcia si articola su tre generazioni della famiglia Trotta: il nonno, ufficiale dell'imperial-regio esercito, salvò la vita, ferendosi per lui, a Francesco Giuseppe in quel di Solferino – donde il titolo "von" conferito al casato dal Sommo, in una con la nobiltà riconosciuta per debito di valor militare e di (lunga) sopravvivenza; il padre – la generazione di mezzo – è un civile funzionario dell'Impero, di stanza vicino alla capitale austriaca, in un'algida campagna di levatacce e di burocratiche reiterazioni; ed infine vi è l'ultimo, che rimarrà della stirpe dei von Trotta, anch'egli sottotenente dell'arma, ancora sotto l'immarcescibile "Cecco Beppe", cui la devozione e la fiducia, anche nei momenti di disperato bisogno (un prestito di danaro), fanno efficace ricorso, grazie alla "memoria" imperial-regia – ed apostolica - dello "eroe di Solferino" (che l'Imperatore scambia con il figlio o crede ancora vivo; ma ciò non importa; ché ciò che conta alfine è il dipinto dell'interposizione salvatrice, a cavallo, tra il proiettile diretto al cuore di Sua Maestà e la spalla del sottotenente al di lui fianco, sui campi fumanti, vicino alla città dei Gonzaga)
Il sottotenente "ultimo" – il nipote dell'eroe di Solferino – è di stanza ai confini orientali dell'immenso Impero, giusto accanto ai cosacchi alcolizzati, con i quali si familiarizza bevendo la "novanta gradi" - giusto dalle parti native dell'Autore: la Polonia Sud-Orientale vicino all'Ucraina.

La famiglia von Trotta è, in sé e per sé, rigorismo nazionalista spinto fino all'assurdo della follia più secca: l'eroe lascia l'esercito soltanto perché, nelle narrazioni sui libri di storia, gli si attribuisce l'appartenenza a un corpo militare diverso da quello effettivo - e, per parte sua, l'Imperatore Sommo, ricevute di persona le lagnanze del suo salvatore, gli consiglia di lascaiare correre, non facendo emendare i testi storici; il figlio dell'eroe dipoi – funzionario in marsina - è bensì un civile, ma è come se indossase la divisa dei difensori dell'Imperial-Regio – e Apostolico – Impero, se è vero come e vero che egli, finanche al cospetto di jaspersiane "situazioni-limite" di thanatos, resta come di ghiaccio rimembrando a pena qualche cosa e pure stando muto, e glaciale come un iceberg, perché le parole sono inutiuli orpelli all'esistenza dei sudditi-servi veri dell'Imperatore; ed infine il sottotenente, nipote dell'eroe, sebbene afflitto da un (autobiografico) crollo alcolico-ancillare, persefera in un suo distacco nobiliar-regio-monarchico, persino rivolto verso il suo stesso corpo d'appartenenza, e nondimeno rimane (semi-)capace, e rigido, e (quasi) sempre lucido e forte - fino al ferimento, e alla morte, poi, in servizio: un giovanotto delirante, orgoglioso al fondo soltanto del suo essere sottufficiale, in divisa armata, di quel Grande Vecchio, al quale suo nonno eroicamente concesse di essere, a distanza di molti decenni, ancora assiso al trono.

E – si diceva – è la Morte, che corre e ricorre (come nei veri capolavori), dentro al romanzo del Nostro.
Essa non è tanto quella, al cospetto della quale il funzionario von Trotta, in marsina, rimane rigido come una statua di sale oppure, senza nulla dire, muore a sua volta finalmente, subito dopo il figlio, al cominciare della Grande Guerra. È piuttosto, la protagonista esiziale de La marcia, quella che ricorre, e insiste, e seduce, e persiste, in sottofondo: quella del dilazionato (come la vita del Vecchio Francesco – impettito e pure inebetito) crollo, invero oramai imminente, dell'immenso imperial-regio asssetto: ormai un assembramento, il quale va disfacendosi in parallelo con l'ultimo dei Trotta, dis-perso tra un'orgiastica mantenuta viennese e l'acquavite inebetente/irrigidente/rimambente (così perdendosi, nella bruma dell'esserci, finanche i dimostranti feritori e l'omicida abbrivio del Conflitto).

È insomma, quella del sottotetenente von Trotta junior, un fallimento senza possibilità di scampo. Ché da una parte esso è bensì temuto e percetto, sì come il crollo definitivo dell'Impero (l'epopea militare, uno stile di vita simile solo a se stesso); e d'altra parte, però, quello stesso sentimento del fallire e del crollare è una discesa agli inferi, vissuta nella sua pienezza, alla faccia dei cosacchi e della "novanta gradi", e dell'amorazzo ancillar-viennese - senza possibilità di contrappeso alcuno, nella natura storica delle cose.

Romanzo-capolavoro di un Narattore d'alta classe – uno di quelli che diconsi Maestri (uno che, come molti di Costoro, e non pochi dei suoi personaggi, all'etilico vagare per l'Europa consacrò lo scrivere, onde poi morire giovane), la Marcia di Radetsky si fa, ancora oggi, nel'Itallia (post-) repubbblicana, leggere come un'esaltante marcia funebre - la quale non a caso, sulle note di Chopin, sottentra ai timpani straussiani sul finire esisiziale (come tutto, in Roth), del racconto-epopea.

È un romanzo cosmico, questo; ed intimo al contempo. Non soltanto una delle più alte espressioni del "finis Austriae", ma anche un pallido e stupefatto anti-prussianesimo giudeo, il quale già, del lubrico e bieco nazismo delle bestie, percepisce i sinistri ed orridi clangori.

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