L'eccitazione era alle stelle e per questo Nicola non riusciva a dormire.

Era così ogni anno la notte prima della partenza per le vacanze estive.
La scuola era finita da poco.
Archiviata rapidamente la gioia per la promozione alla classe successiva, tutti in famiglia si dovevano impegnare ad organizzare le vacanze.
Le si doveva preparare con la massima attenzione perché la loro durata era notevole: quasi tre mesi da passare lontani da casa per quattro persone (la quinta, il padre, poteva assentarsi solo un mese dal lavoro) non era cosa di poco conto.
Mamma Luisa iniziava a preparare le valigie (tre enormi contenitori squadrati) alcune settimane prima della effettiva partenza.
Durante quel periodo era intrattabile, irritabile al massimo: i capricci di Nicola e della sorella dovevano essere ridotti al minimo, pena sberle o lavate di capo serali da parte del padre.
Loro due avevano il compito di preparare i libri, i giornalini e gli eventuali giochi che volevano portarsi via per la vacanza.
Nicola, in particolare, aveva due incombenze personali da sistemare: «Il Vittorioso» e i due canarini.
Il giornalino, a cui da anni era abbonato, arrivava per posta ogni lunedì, per cui egli doveva affidarne il ritiro settimanale ad una persona di estrema fiducia e che non lasciasse la città per tutto il periodo in cui lui era via.
La persona adatta allo scopo era la padrona di casa: abitava al primo piano e quindi far le scale non le sarebbe stato di peso. A lei, per di più, le vacanze d'estate non interessavano affatto e perciò accettava di buon grado il compito che Nicola gli affidava.
L'altro soggetto da allertare prima della partenza era Agostino, il postino.
Erano diventati amici, lui aveva capito quanto Nicola fosse affezionato alla sua rivista e quanto avrebbe sofferto se un numero fosse andato perduto o se si fosse troppo sgualcita in mezzo a tutta l'altra posta contenuta nel suo borsone stracolmo. Per questo lui teneva "Il Vittorioso" in buona disposizione dentro un ampio cestello metallico situato sul retro della sua bicicletta di ordinanza.
Agostino arrivava puntuale alle tre del pomeriggio e lui, crollasse il mondo, ogni lunedì era già sul portone ad aspettarlo.
Qualche volta, per scherzo, gli diceva che la rivista non era arrivata: poi appena vedeva la delusione stampata sulla sua faccia, la tirava fuori come un mago estrae un coniglio dal cilindro.
Il gioco era talmente coinvolgente che, se per qualche problema di uscita ritardata, un lunedì la rivista non era effettivamente nel cestello, lui spendeva qualche buona parola per consolare la delusione del bambino e lo lasciava frugare fra le varie lettere e plichi della sua borsa perché si assicurasse che non lo stava prendendo in giro.

Nicola doveva poi trovare chi curasse i due canarini durante la sua assenza.
Si prestava a questo incarico la signora Marta, la vicina di piano.
Doveva solo procurarle il miglio e quant'altro occorresse per il loro sostentamento.
La presenza dei canarini in casa Losito era presto spiegata.
Per consolarlo della improvvisa morte del pappagallino (che un giorno si era posato sulla balaustra della terrazza lasciandosi poi docilmente afferrare e ingabbiare) mamma Luisa aveva accettato che Nicola acquistasse due canarini con la promessa che fosse lui a curarli e a provvedere al loro cibo.
Sua madre legava ogni permesso concesso ai figli all'accettazione di una qualche responsabilità personale.
Nel caso specifico, una piccola parte della sua mancia doveva servire ad acquistare il cibo per i canarini.
Vista l'esiguità della paghetta a disposizione, era una fortuna che loro avessero esigenze alimentari modeste: quando il miglio finiva e lui era a corto di spiccioli, si adattavano senza problemi al pane secco.

La mattina della partenza, sveglia antelucana senza capricci, ben presto lavati e vestiti, erano pronti ad aiutare, per quanto permesso dalle loro forze, a scendere le valigie lungo i cinque piani della casa.
Sulla strada li aspettava una camionetta militare con autista che il padre aveva ottenuto dal suo comando per portarli alla stazione ferroviaria.
A quei tempi non esisteva possibilità di prenotare i posti nelle carrozze di terza classe e, in ogni caso, non potevano permettersi una classe superiore.
Per i due fratelli, trovare o meno un posticino a sedere non era mai un problema, la grande gioia del partire superava qualsiasi eventuale disagio.
Anzi, il poter scorazzare in lungo e in largo per le carrozze del treno li divertiva da matti, anche se il fatto che si allontanassero dalla vista dei genitori era spesso motivo di sgridate e di scappellotti ben piazzati.
Lo stare per ore al finestrino a guardare il paesaggio scorrere davanti agli occhi, anche se rivissuta ogni anno, era sempre una sensazione diversa e fantastica.
I mille e mille pali che facevano andare insieme la vista erano il segnale che il treno correva di buon passo verso la meta.
Il viaggio durava tantissime ore e terminava momentaneamente alla stazione di Foggia.
Lì dovevano passare la notte, adattandosi alla bene e meglio sulle panchine a listelli di legno nella sala di attesa della stazione: la coincidenza per Incoronata c'era solo la mattina seguente.
Stravolti dalla stanchezza del viaggio i due fratelli crollarono in un sonno profondo, poggiando la testa sulla pancia dei genitori.
La notte passò veloce, di tanto interrotta dal fischio del capostazione che dava la partenza ai vari treni che avevano fatto sosta lì.
Alle nove del mattino partiva il treno locale che da Foggia li avrebbe portati finalmente a destinazione.
A destinazione per modo di dire, perché la casa dei nonni distava quasi due chilometri dalla stazione di Incoronata.
La stazione era una semplice casetta dove viveva il gestore e la sua famiglia. La biglietteria era un pertugio da cui si intravedeva un tavolino su cui era situato un grosso telefono nero e una specie di campanello che stava suonando per segnalare il treno ancora in sosta lì.
Attorno ad essa, nessun altra casa a vista d'occhio, solo campi di grano che, al momento in cui la famiglia Losito arrivava per le vacanze, erano già stato mietuti e sul terreno c'erano solo covoni di paglia sparsi qua e là.
Lasciati i tre valigioni in deposito nella stazione, si incamminarono a piedi lungo la stradina in terra battuta che nasceva lì e si inoltrava lungo i campi di grano.
L'assenza di ombra e il sole caldo dell'estate appena iniziata erano i loro compagni in quell'ultima parte del viaggio.
Nicola e sua sorella Pina camminavano lesti davanti ai genitori, incuranti del caldo e, guardandosi intorno, controllavano se qualcosa era cambiato rispetto all'anno passato.
La strada, in prossimità della statale 16 (che con un ponte superava il torrente Cervaro, quasi a secco in quella stagione) proseguiva per un tratto lungo il torrente stesso.
Il paesaggio a quel punto cambiava bruscamente: campi di grano sulla destra e sulla sinistra uno splendido bosco di alberi secolari misto a flora mediterranea.
Il bosco dell'Incoronata era il segnale che mancavano meno di cinquecento metri alla masseria dei nonni materni.
I due fratelli accelerarono il passo lasciando molto indietro i genitori: in lontananza iniziava a vedersi la sagoma della casa dei nonni.
Con passo sempre più svelto Nicola e Pina iniziarono fra loro una tacita gara a chi sarebbe arrivato per primo ad abbracciare nonna Marietta e nonno Pietro.
Nicola era sicuro, anche se aveva un anno in meno, che la vittoria avrebbe arriso a lui, molto più allenato alle corse della sorella.
Nella masseria dei nonni Palmieri non c'erano cancelli a impedire l'entrata nel cortile antistante la casa. A sorvegliare tutto e tutti c'erano due enormi cani legati a catene che scorrevano su fili d'acciaio sospesi fra pali disposti in posizione strategica.
Uno proteggeva il retro della casa e un lungo e basso capannone situato sulla sinistra mentre l'altro presidiava la stalla e la porta principale della masseria.
I cani cominciarono ad abbaiare prima che i due bambini riuscissero a vederli e continuarono a farlo finché loro non furono nel cortile della casa.
Nonna Marietta, avvisata da quel abbaiare prolungato, si portò sull'uscio di casa: sapeva che la figlia, con la famiglia al completo, sarebbe arrivata da Bologna quel giorno e fu subito pronta all'abbraccio del nipote che in ultimo aveva superato di parecchi metri la sorella.

«Dov'è il nonno?» chiese Nicola quando ebbe terminato di sbaciucchiare e abbracciare la nonna.
«È nel campo alto che sta arando. Vallo a chiamare»

Il rituale di tutti gli anni comprendeva l'abbraccio prima a uno e poi all'altro dei due cani: un abbraccio reclamato da entrambi con forti guaiti e tensione delle catene fino alla massima posizione che il filo di acciaio a cui erano legati permetteva loro.
Tutti e due di razza indefinita e di color bianco sporco, erano enormi e avevano un muso lungo e affilato, adatto al ringhio e all'abbaio furioso con cui segnalavano la presenza di estranei alla casa. Il loro collo era ormai privo di peli e pieno di cicatrici per le infinite volte che il collare a maglie metalliche li aveva fermati violentemente (spesso ferendoli) al fine corsa del filo metallico di scorrimento.
Vedevano Nicola una volta all'anno eppure erano in grado di riconoscerlo subito e fargli le dovute feste e lui contraccambiava quell'affetto saltando loro in groppa e cercando per gioco di buttarli per terra.
C'era poi un altro rito da espletare, ma doveva rimandarlo a dopo: prima bisognava andare a salutare il nonno.
Il campo che il nonno stava arando in quel momento era situato sul retro della masseria al termine della vigna e si estendeva per oltre due ettari dopo il cortile stesso.
A quei tempi si arava ancora con l'aratro trainato da due buoi: era un lavoro faticosissimo e Nicola durante le estati precedenti era riuscito a sostituire il nonno solo per pochi metri e con risultati ben poco brillanti, provocando per questo un riso benevolo sul volto sudato di nonno Pietro.
L'aratro del nonno era già un modello più evoluto, rispetto a quelli che Nicola ricordava di avere visto in qualche film o sui libri di scuola. Esso poggiava su ruote e col peso del corpo si doveva fare in modo che il solco fosse il più profondo possibile.
Nello stesso tempo bisognava guidare le mucche affinché andassero diritto nella direzione dovuta.
Nonno Pietro accolse il nipote con grande affetto, contraccambiando l'abbraccio e i numerosi baci, e dopo aver liberate le mucche dal traino, insieme presero la strada di casa.
Docili e scampanellando maestose, le mucche seguirono l'uomo e il bambino senza bisogno di particolari comandi o sollecitazioni.
Giunti alla stalla, Nicola poté finalmente espletare l'ultimo rito di prammatica nel giorno del suo arrivo alla masseria: il saluto e le carezze ai due animali che più amava: Luna e Fiorello.
Luna era una cavalla dal pelo marrone scuro e un'espressione dolce e umile che ben si integrava con un corpo sgraziato, rovinato da troppe gravidanze e dai tanti lavori faticosi svolti durante la sua vita.
Anche se aveva l'aspetto di un ronzino, Nicola amava appassionatamente quella cavalla che da lui si faceva montare senza nessun fastidio, eseguendo, senza mai ribellarsi, i comandi che lui gli dava.
Fiorello, era molto più bello di Luna, di pelo marrone chiaro, aveva una stella bianca in mezzo alla fronte, ma al contrario di lei, era bizzarro e difficile da montare. Forse era un pò geloso delle attenzioni che Nicola aveva per Luna: talvolta mentre lui accarezzava la cavalla, col muso cercava di allontanarlo da lei.
Bastava però che Nicola rivolgesse le sue attenzioni a lui che subito tornava tranquillo senza più sbuffi di impazienza.

Nonna si era alzata di buon ora e aveva preparato un pranzo coi fiocchi per i parenti bolognesi.
Dopo il pranzo, Nicola aiutò il nonno ad allestire il carretto con cui sarebbero andati alla stazione di Incoronata a ritirare i bagagli lasciati là in deposito.
Al traino c'era Luna e il nonno lasciò che fosse il nipote a tenere le redini: il traffico sulla via da percorrere era praticamente inesistente, pericoli non ce n'erano.
Tornati a casa e sistemati i bagagli, per Nicola iniziava effettivamente la vacanza.

Quell'anno Nicola doveva risolvere un problema, sorto proprio lì l'anno precedente.
Quel problema lo aveva spesso tormentato durante l'inverno.
Lui si vantava di avere una speciale capacità di fare amicizia con chicchessia: diceva sempre che gli bastava poco per entrare in sintonia con tutte le persone o animali che avvicinava.
L'anno passato, però, era accaduto un fatto che aveva dato un duro colpo a quella sua convinzione.

Dal punto di vista alimentare i nonni Palmieri erano praticamente autosufficienti: non dovevano acquistare quasi nulla perché nel loro podere avevano un pò di tutto.
Era giocoforza mettersi in condizione di non dover dipendere dagli altri perché il solo spaccio che aveva qualcosa di difficile da produrre in proprio, distava un paio di chilometri dalla masseria.
I nonni, quando erano soli, facevano benissimo a meno di cose che non potevano coltivare.
La presenza però di persone con abitudini alimentari diverse dalle loro e abituate a consumare pasti un pò più elaborati di quelli che loro potevano offrire, consigliava alla nonna di fare, di tanto in tanto, la spesa in quel negozio.
Avrebbe così avuto a disposizione qualcosa che poteva fare piacere ai nipoti, talvolta un pò schizzinosi davanti a certi cibi di campagna.
A questo riguardo, Nicola ricordava le fughe disperate per il cortile, quando era più piccolo, inseguito da sua madre che voleva fargli bere un uovo fresco appena tirato fuori dal pollaio.
La nonna affidava sempre a lui il compito di andare a fare acquisti in quel negozio un po' fuori mano.
Quel piccolo esercizio commerciale era situato in un agglomerato di sette o otto case, che i nonni chiamavano "Il paesotto" e per raggiungerlo più rapidamente bisognava attraversare i campi di grano del nonno e quelli della masseria vicina.
Una specie di rete metallica, crollata in più punti, delimitava le due proprietà confinanti e Nicola la attraversava senza preoccuparsi di fare una cosa non corretta.
Un giorno, dopo questo attraversamento, in prossimità di un pozzo artesiano, si era improvvisamente materializzato, abbaiando all'impazzata, un enorme cane nero.
Per fortuna era legato ad una catena e la catena non era molto lunga.
Rimbalzando all'indietro e cadendo gambe all'aria, Nicola era riuscito a evitare di essere praticamente sbranato da quel terribile animale.
Letteralmente impietrito dall'abbaiare furioso del cane che cercava di azzannarlo e che insisteva in tale tentativo fino a quasi a strozzarsi nello sforzo di tendere la catena, Nicola guardava con terrore le fauci arrossate dal sangue che spuntava dalla sua bocca ferita dalla catena che lo legava.
Superato quel momento di paura e capito che la catena non avrebbe ceduto, Nicola si alzò e, quasi per vendicare l'onta del ruzzolone, iniziò a sbeffeggiarlo e ad aizzarlo, col risultato che il cane, completamente impazzito, continuava a farsi male ferendosi con la catena tesa al massimo.

Fortunatamente per l'animale, il fatto che dovesse andare con una certa urgenza allo spaccio, distolse il bambino dall'insistere troppo in quella assurda cattiveria.

Tornando dal paesotto, dopo avere eseguito la commissione, il viaggio prevedeva un nuovo passaggio in vicinanza del cane nero.
L'accoglienza fu la stessa dell'andata, ma stavolta Nicola, consapevole del pericolo, si era tenuto a debita distanza.
Il cane aveva continuato ad abbaiare in modo spasmodico finché lui non era scomparso dalla sua vista.
Tornato a casa, Nicola chiese spiegazioni al nonno della presenza di quel cane in una posizione così lontana dalla masseria dei vicini.
Nonno Pietro gli spiegò che, da pochi mesi e dopo vari tentativi andati a vuoto, i vicini erano riusciti a trovare l'acqua sulla loro proprietà: purtroppo il pozzo era distante da casa.
L'acqua, in quella zona e in particolare durante l'estate, era un bene prezioso e andava protetto, pena probabili rischi per la sopravvivenza di persone ed animali.

«Come hanno fatto a rendere quel cane così aggressivo?» chiese Nicola.

«Anche i nostri due cani hanno lo stesso comportamento con gente che non conoscono. Vivendo così isolati, dobbiamo difenderci da eventuali malintenzionati che girano sia di giorno che di notte in questa zona...» rispose il nonno, fermandosi, come a voler terminare quel discorso che poteva spaventare ulteriormente il nipote.
Ma Nicola insisteva, voleva capire come animali che lui poteva abbracciare, tormentare in mille modi senza che loro reagissero, in un attimo potevano diventare pericolosi e aggressivi verso gli altri.
Con pazienza e misurando le parole per attenuare l'ansia che aveva colpito il bambino, continuò:
«Non esistono ragioni precise, alcuni sono aggressivi di natura e basta dargli una piccola spinta per renderli feroci e battaglieri verso le persone sconosciute.
Prima di venire in questa masseria ho lavorato come fattore in un grosso latifondo dalle parti di Sannicandro Garganico: lì ho visto addestrare cani da guardia.
Si prendevano due cani per volta e li si lasciava senza mangiare per qualche giorno, poi, prima che sfinissero dalla fame, si gettava loro del cibo. Due animali che fino a qualche momento prima convivevano tranquillamente, soffrendo insieme per la stessa sorte, messi davanti al cibo, diventavano di colpo aggressivi.
Tentando ognuno di impedire all'altro di afferrare il cibo, imparavano a lottare per la sopravvivenza, sviluppando nel contempo un forte senso per la proprietà.
Con un laccio poi si afferrava il cane che stava per soccombere e lo si allontanava per evitare che l'altro lo sbranasse. Era un brutto spettacolo da vedere: da quelle lotte uscivano cani molto aggressivi, quasi del tutto intrattabili. Solo chi gli dava da mangiare aveva la possibilità di avvicinarsi, sperando di non venire morso e qualche volta persino loro correvano dei brutti rischi.»

«Ma allora anch'io potrei essere morso dai nostri due cani?» domandò Nicola, sempre più preoccupato.
«Beh, l'addestramento che ti ho descritto era spinto al limite: con loro mi sono fermato molto prima. Volevo che fossero cani da guardia, che mi avvisassero in tempo di eventuali pericoli, non che fossero bestie feroci da combattimento. Ho dovuto temprarli un pò e ogni tanto d'inverno li tengo a stecchetto col cibo: questo li rende più attenti e vigili»
«Secondo te il cane dei tuoi vicini è stato addestrato al combattimento?»
Nonno Pietro rise.
«Non lo so, comunque ti consiglio di girargli alla larga e di non fidarti troppo!»
Nicola, dopo quel colloquio, ripensò al pericolo che aveva corso, convincendosi che si era salvato per un puro caso.
Dentro di sé però, era anche consapevole di avere esagerato nell'insistere ad irritare il cane. Era sinceramente pentito di avere reso quell'animale ancora più furioso e il fatto di aver ottenuto che quel cieco furore facesse più danno a lui che a se stesso lo faceva stare male.
Il giorno dopo e anche nei successivi era tornato nelle vicinanze del pozzo dei vicini, per cercare di vederlo e tentare in qualche modo di farselo amico.
Non ci fu verso, ogni volta che lo sentiva avvicinarsi, il cane cominciava ad abbaiare in modo forsennato e non smetteva finché lui non se andava via.
Quell'estate, per la prima volta nella sua vita, Nicola capì che qualcuno poteva non accettare o desiderare la sua amicizia e, anche se quel qualcuno era solo un animale, l'affronto lasciò una traccia sgradevole nella sua mente di bambino.
Qualche piccola crepa cominciava a formarsi nel carattere, fino ad allora, un pò troppo sicuro di sé di Nicola.
Finite le vacanze e tornato a Bologna, riprendendo la normale vita di tutti i giorni, il pensiero un po' sofferto, collegato a quel cane nero che non aveva mai smesso di abbaiargli contro, venne depositato nel limbo dei ricordi.

Il tavolo da pranzo era lunghissimo e stretto. Occupava quasi tutta la cucina: il fatto che fosse stretto permetteva alle donne di casa di muoversi facilmente sia per togliere il cibo dal fuoco che per servire i commensali.
Quel fuoco ardeva, anche d'estate, in un grande camino attrezzato che occupava buona parte della parete di destra della cucina stessa.
Di corrente elettrica nemmeno a parlarne.
Di sera col buio la luce proveniva da lampade ad olio disposte in punti strategici della casa.
Eppure Nicola desiderava immensamente essere lì, in quella casa priva di qualsiasi conforto cittadino. Lì era libero di fare quello che voleva, poteva stare fuori di casa tutto il giorno senza che sua madre lo tormentasse, obbligandolo a rientrare.

La vacanza che iniziava in quei giorni aveva la sua prima novità: sul piano a fianco del camino faceva bella mostra di sé una cucina economica a tre fuochi e dalla bombola a gas sottostante si dipartiva un secondo tubicino che terminava in una speciale lampada a reticella appesa al soffitto e che di sera illuminava a dovere tutto il lungo tavolo.
I nonni Palmieri si stavano modernizzando.
A pranzo il nonno si disponeva a capo tavola e Nicola lo affiancava sul lato destro del tavolo.
Nonno e nipote, di solito, si raccontavano i fatti più salienti accaduti durante l'inverno. Lui si informava se a scuola avesse ottenuto buoni voti, l'altro desiderava sapere se Luna avesse figliato ancora, che fine avesse fatto il puledro nato l'anno passato, quanto grosso fosse diventato il maialino che tutti gli anni il nonno gli assegnava quando la scrofa figliava.
L'unica risposta un pò evasiva riguardava la sorte del maialino.
Regolarmente, l'anno successivo, quell'animale non c'era più o perché venduto o perché trasformato in salciccia e lardo per cucinare.

Quell'estate, però, una delle prime domande che Nicola fece a suo nonno fu:
«Hai notizie del cane nero dei tuoi vicini?»

Nonno rise di cuore, il ricordo del nipote che, l'estate scorsa, aveva morso la polvere e solo per un soffio aveva evitato di essere azzannato, gli aveva messo allegria e aveva comunicato il suo buon umore anche a Nicola, che vedeva ridotta a livello di farsa la sua disavventura.
«Sì, ed é ancora più cattivo e da quel che ne so, ti sta aspettando...» rispose il nonno trattenendo a stento le lacrime da troppo riso.
Quasi offeso Nicola cercò di controbattere:
«Ridi pure, tanto riuscirò a fare amicizia con lui, scommettiamo?»
«Scommessa accettata: se ci riesci, il prossimo maialino che ti regalerò, te lo porti veramente a Bologna!»

Nicola avrebbe voluto iniziare subito la sfida tra lui e il cane nero, ma il lungo viaggio in treno lo aveva stancato un pò.
Inoltre, e sopratutto, non aveva ancora studiato nessuna strategia per vincere la sua battaglia.
Un buon sonno era quello che ci voleva al momento.

In fondo alla cucina, tre scalini, protetti da una balaustra in muratura, terminavano davanti ad una porta, all'interno della quale, dopo una rotazione di novanta gradi, iniziava una ripidissima scalinata che portava alle camere da letto.
La prima stanza sulla sinistra era quella dei nonni.
Al suo interno c'era un enorme letto matrimoniale e sul fondo un altro paio di letti singoli. Un vecchio armadio a muro riempiva la parete destra della stanza. Una modesta immagine della Madonna dell'Incoronata sovrastava il letto dei nonni.
A detta loro, lui era nato proprio in quel lettone, aiutato a venire al mondo dalla nonna e dal nonno perché la levatrice, che abitava al paesotto, non aveva fatto in tempo ad arrivare.
La stanza seguente, era la camera della figlia maggiore dei nonni, assegnata a lei per diritto di primogenitura. Un letto e una piccola credenza, utilizzata per conservare derrate alimentari, erano i suoi unici arredi.
In fondo al corto corridoio una finestra dava luce alle scale.
Sulla sinistra c'era la stanza degli ospiti: una grande stanza situata proprio sopra la cucina e con le stesse dimensioni. Nicola ricordava la presenza di almeno cinque letti più un armadio e una cassapanca attrezzata con specchiera.
Su uno di quei letti, scelto a caso, si addormentò ben presto di un sonno così pesante che sua madre, giunta l'ora di cena, per svegliarlo aveva dovuto scuoterlo più e più volte.

Il giorno dopo, finalmente affrancato dalla stanchezza del viaggio, Nicola cominciò a riprendere possesso di tutti i luoghi che la masseria dei nonni metteva a sua disposizione. Non poteva mancare una visita alla grande vigna che, iniziando in prossimità del pozzo di acqua potabile, si espandeva per più di un ettaro in mezzo ai campi di grano. Una rete metallica ben tenuta la proteggeva da malevoli intrusioni notturne.
Oltre alle viti c'erano diverse altre varietà di piante: fra queste un paio di alberi di mele cotogne che erano la sua disperazione. Quelle mele, bellissime da vedere, erano, però, aspre e terribili da mangiare: legavano denti e bocca in un modo tale che poteva liberarsi da quella stretta solo dopo ore e ore di furiosi colpi di lingua sui denti.

Nicola, non riuscendo mai a resistere al desiderio di addentarne una, ci cascava ogni anno.

L'uva, appesa a bassi vitigni, non era ancora pronta alla vendemmia. Solo una varietà, bianca a chicchi ovali e molto dolce di gusto, era ormai matura.
A fianco della casa c'era un capannone o meglio, più capannoni accostati, costruiti in tempi successivi utilizzando materiali di recupero.
Sulla sinistra, confinante con la vigna c'era il pollaio.
Un pertugio basso permetteva alle galline un libero ingresso o uscita solo se si piegavano sulle zampe.
Quel foro era stato ovviamente studiato per impedire ad eventuali volpi o cani randagi di entrare nel pollaio e fare incalcolabili danni. Quel pertugio era praticato su una piccola porta, chiusa con un chiavistello di sicurezza, che la nonna, ogni mattina, apriva per andare a raccogliere le uova.
La destra del capannone era utilizzata come ovile e porcilaia.
Una ventina di pecore e due o tre maiali riempivano normalmente quello spazio.
Al centro del capannone c'era un grosso forno a legna che veniva usato ogni quindici giorni per fare il pane.

La giornata dedicata alla preparazione e cottura del pane era un'occasione speciale.

Una tensione molto viva e intensa aleggiava nella casa, i bambini erano pregati di non dare fastidio e di stare più alla larga possibile, pena scapaccioni senza possibilità di replica.
Le donne di casa si alzavano molto prima dell'alba per impastare a dovere la farina e formare sette o otto di quelle caratteristiche pagnotte pugliesi a forma circolare di circa quaranta centimetri di diametro.
Era un lavoro di grande responsabilità, sbagliare le dosi di farina, acqua e lievito, voleva dire produrre pane immangiabile e quindi provocare un grave danno per l'economia di una famiglia di contadini.
Una volta formate e distese in bella fila su lisce assi di legno, interveniva la nonna, armata di un grosso coltello, per dare dei sapienti tagli in cima alle pagnotte che poi venivano coperte con candidi panni.
Quei tagli erano fondamentali alla buona riuscita della lievitatura: non farli o anche soltanto farli in modo non corretto, poteva essere deleterio per la buona riuscita del pane.
Tale processo durava un paio d'ore: nel frattempo i bambini aiutavano il nonno a scaldare il forno con paglia e legna secca.
Il tutto era calcolato al millesimo di secondo: finita la lievitatura, anche il forno era pronto e il pane poteva essere infornato.
Quando finalmente il pane aveva finito la cottura e solo se la nonna decretava la buona riuscita della panificazione, iniziava la festa per i bambini. Una coloratissima e ricca pizza entrava nel forno ancora caldo, e quello era il gustoso premio che veniva dato a loro, anche se qualche scappellotto era volato nel frattempo.

Nella cucina, dal lato opposto al camino, si apriva una porta che portava in un atrio attrezzato dove facevano bella vista vari strumenti che il nonno utilizzava per il suo lavoro nei campi: fra questi si faceva notare una enorme bilancia a piano rettangolare utilizzata per pesare i sacchi di grano che veniva venduto in autunno.
Un grosso portone, con serrature rinforzate, metteva in comunicazione quell'area col cortile posteriore della masseria.
Sul lato destro dell'atrio c'erano due stanze: una conteneva i sacchi di grano che dovevano servire per la prossima semina, quelli da utilizzare per uso domestico e, infine, un piccolo sacco con la farina macinata di recente al mulino consorziale situato nel vicino paesotto.
Non essendoci allora frigoriferi o altre possibilità di conservazione sicura, i nonni preferivano macinare il grano man mano che serviva, per evitare che la farina andasse a male.
L'altra stanza era adibita a cantina e conteneva due botti e diverse damigiane di vino prodotto dalla vigna l'anno precedente.
In fondo a destra, l'atrio si stringeva diventando un corridoio alle cui pareti erano appesi tutti i finimenti dei cavalli e delle mucche e poi da lì si accedeva alla stalla. Questa, da un lato aveva uno stanzino contenente fieno secco e di seguito, una mangiatoia a cui erano legati Luna e Fiorello.
Dall'altro lato della stalla c'erano quattro mucche e spesso anche un vitello di pochi mesi e un'altra mangiatoia che si estendeva lungo tutta la parete.
Nel cortile prospiciente la stalla, l'impianto operativo della masseria continuava con un silos cilindrico in muratura, alto sette o otto metri, in cui veniva ammassato il grano subito dopo la mietitura. Leggermente defilata dalla casa c'era, infine, una zona (che il nonno chiamava "fumere") in cui venivano raccolti gli escrementi delle varie bestie presenti nella masseria stessa e che in autunno, dopo la semina, sarebbero serviti da concime per i campi.
Il silos terminava con una copertura a forma di pagoda.
Il sottotetto, adibito a piccionaia, era raggiungibile da una scala a pioli metallici fissati sul muro. Una analoga scala era disposta all'interno del silos per permetterne la pulizia prima di essere riempito dal grano. A circa un metro da terra una paratia metallica, azionata con un meccanismo a ruota dentata, permetteva la fuoruscita del grano nel momento in cui veniva insaccato.
Un gioco che facevano Nicola e i cugini, quando il granaio non era molto pieno, consisteva nel salire nella piccionaia e, da una botola che si apriva sul piano della stessa, si lanciavano nel vuoto affondando con grida smorzate nel grano. Utilizzando la scaletta interna ripetevano il gioco più volte finché le forze glielo permettevano.
Se il nonno o i rispettivi genitori li avessero scoperti sarebbero stato grossi guai per loro.
A quell'età non si rendevano conto del pericolo: se fossero scivolati dalla scaletta esterna, prima di arrivare alla piccionaia oppure scendendo, si sarebbero sicuramente rotti l'osso del collo.

I giorni di vacanza in campagna passavano lenti, riempiti da giochi, da piccoli lavori eseguiti agli ordini di nonno Pietro.
Nicola, non aveva dimenticato il suo problema, lo stava solo accantonando fino al momento in cui avesse trovato un modo per affrontare con qualche probabilità di successo quel grosso cane nero che non voleva saperne di lui.
Portargli ogni giorno del cibo e prenderlo per la gola gli sembrava una soluzione banale al problema. Per lavare in modo soddisfacente l'umiliazione di quel ruzzolone a gambe levate che gli aveva fatto fare la prima volta che si erano incontrati ci voleva qualcosa di più eclatante.
Una possibile soluzione faticava a presentarsi, però Nicola capiva che non poteva ritardare all'infinito quel nuovo incontro.
Armato di un bastone per proteggersi in una eventuale precipitosa ritirata, una mattina, preso il coraggio a due mani, si incamminò verso l'appuntamento a cui aveva pensato per tutto l'inverno.

L'incontro fu deludente.

Il cane nero lo accolse ringhiando e abbaiando come un forsennato e solo la resistenza della catena impedì a quell'animale di mangiarsi vivo l'incauto bambino che aveva di nuovo osato avvicinarsi a lui.
Il ritorno alla masseria fu molto mesto. Nicola, in cuor suo, aveva sperato che l'animale si fosse ravveduto e che l'avrebbe accolto con la stessa gioia con cui i due cani del nonno lo salutavano ogni nuovo anno che lui tornava in campagna.
Le cose non erano andate così, anzi, a voler ben vedere, la cattiveria e la rabbia di quel cane sembravano essere aumentate durante l'inverno.
Il suo amor proprio aveva avuto un nuovo duro colpo: oltretutto, al momento, niente e nessuno gli suggeriva la mossa vincente per uscire da quell'impasse.

Per qualche giorno Nicola si chiuse in un mutismo malmostoso che fece pensare a sua madre che non stesse bene e che perciò avesse bisogno di una forte cura ricostituente a base di uova fresche di giornata.
Lui odiava bere le uova fresche e quella cura pensata da sua madre peggiorò ulteriormente il suo umore.
Ben presto, però, per sopravvivere all'impeto curativo della madre, egli capì che era opportuno tornare velocemente di umore giusto e di mostrare agli occhi di tutti una salute di ferro.

Quel forzoso cambio di umore ebbe buoni effetti anche sulle sue attività celebrali.
Un'idea prese a farsi strada nella sua mente: una pazza idea che, a parer suo, poteva funzionare.
Doveva trovare uno scudo, o qualcosa di simile, che in qualche modo potesse proteggerlo.
Lo scudo si materializzò in una vecchia sacca di cuoio porta attrezzi che si trovava sulla parete antistante la stalla.

Nicola poteva partire per la battaglia.

L'accoglienza che ricevette fu rumorosa come al solito.
Pieno di paura ma convinto di quello che faceva, appoggiò la sacca davanti a sé a fargli scudo e si sedette a tre o quattro metri di distanza dal cane nero, rimanendo praticamente immobile e silenzioso, cercando di non ascoltare l'abbaio furioso del cane e di non vedere i suoi mille assalti, fermati solo dal fine corsa della forte catena che lo teneva legato al pozzo artesiano.
Quando si accorse che il cane era quasi allo stremo delle forze, si alzò e tentò di avvicinarsi.
Gli occhi arrossati del cane e la bava che gli fuoriusciva dalla bocca non promettevano niente di buono.
Era il momento di soprassedere al tentativo e di tornare a casa.
Nicola si accorse con soddisfazione che, questa volta, il cane aveva smesso di abbaiare molto prima che lui scomparisse dalla sua vista.
Ripeté la stessa operazione per parecchi giorni, ogni volta diminuendo leggermente la distanza che separava lui dal cane.
Finché, un giorno, nel momento stesso in cui Nicola fu sul punto di allontanarsi, il cane smise di abbaiare.

Una breccia si era aperta nella mente di quel terribile animale.
Sembrava quasi che gli dispiacesse che il bambino se ne andasse via.

Sicuro di essere ormai vicino alla vittoria, il giorno dopo, nel sacco che fungeva da scudo, Nicola mise del pane e un pezzo di carne di pollo recuperati durante il pranzo.
Il cane lo accolse inizialmente con il solito abbaio furioso, ma si capiva lontano un miglio che ormai lo faceva senza alcuna convinzione, gli assalti erano diminuiti di intensità: era quasi un andare avanti e indietro dovuti più ad un'abitudine che ad un effettivo desiderio di battaglia.
La distanza tra il corpo di Nicola e il cane si era ridotta a poco meno di mezzo metro: se lui avesse allungato il braccio, avrebbe potuto toccare il cane, sempre che lui glielo avesse permesso.
Oramai tra lui e l'animale c'era solo la sacca a dividerli.
Ad un certo punto il cane smise di abbaiare e, incerto sul da farsi, aveva praticamente annullato il suo andirivieni.
Allungando lentamente la mano, Nicola cercò di farlo avvicinare a sé chiamandolo con un tono di voce il più suadente che poté tirar fuori, scacciando dalla mente la paura per il pericolo che stava correndo in quel momento.
Con riluttanza, ma nel contempo avvicinandosi e scodinzolando un pò, il cane si decise finalmente a fiutare la mano aperta e tremante del bambino.
Nicola lo lasciò fare, sopportando stoicamente il caldo fiato del suo naso sgocciolante e poi lentamente spostò la sua mano sulla testa del cane per accarezzarlo.
L'animale, ormai tranquillo, accettò le carezze e per dimostrare che la cosa non gli dispiaceva, appoggiò a terra le terga sollevando il muso verso l'alto in modo che le carezze proseguissero verso la gola da cui uscirono rauchi guaiti di piacere.

Solo a quel punto, Nicola estrasse dalla sacca il pane e il pezzo di pollo e lo diede al cane.

Il bambino e il grosso cane nero erano finalmente entrati in sintonia: da quel momento in poi niente avrebbe potuto spezzare il rapporto di amicizia che si era instaurato fra di loro.

Le vacanze estive proseguirono veloci: altri avvenimenti, altri giochi, altre occupazioni riempirono le giornate di Nicola.
Il maialino, promesso in caso di una sua vittoria, purtroppo non prese il treno per Bologna, ma fece la stessa fine di tutti gli altri che il nonno ogni anno gli prometteva...

Per un bel pò, nel prossimo inverno, la sua sfida (per fortuna vinta) col cane nero sicuramente avrebbe tenuto banco nei discorsi con gli amici di Bologna, fintantoché nuove battaglie, nuove avventure non fossero apparse all'orizzonte.


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