Dedicato a Roberto, al sottoscritto
e a chi fa dell’autoironia il proprio cavallo di battaglia
Questa stupida favola
è per un pubblico adulto

C’era una volta, perché è così che iniziano tutte le favole, ai tempi della grande paura per il virus bovino, un giovane rampollo di nome Rinaldi. Questo baldo giovane viveva in una piccola cittadina dell’entroterra e iniziata una brillante carriera in una multinazionale futuristica dall’inquietante nome di “Squartex”, che produceva profilattici per tori da monta, si invaghì della bella e promettente figlia del capo supremo della sopraccitata multinazionale.
Fu così che in un impeto di passione, la giovinetta decise di dare un’opportunità al Rinaldi accettando un suo invito ad uscire, ma ad una condizione: che il contesto della serata fosse deciso dalla giovinetta. Il giovane ed inesperto Rinaldi, che della vita da ricchi non ne sapeva nulla, ahimè accettò tale clausola con la rassegnazione tipica dello sfigato, cosicché l’occasione non tardò a venire.
Il babbo e la Cerchia Del Cenacolo tutta – società di stampo massonico fondata da un elite di nababbi del milanese – organizzò un ricevimento real-imperatoriale con lo scopo di introdurre le ultimogenite delle famiglie più facoltose nella società bene, appuntamento a cui avrebbero dovuto partecipare, per chi ne fosse fornita, anche i rispettivi fidanzati, solitamente straricchi rampolli di nobili famiglie dotati di genealogia reale.
Il giovane e inetto Rinaldi di buona carriera si preparò a tale evento subito dopo la ricezione dell’invito da parte di un ambasciatore aziendale fornito dalla Squartex che lo recapitò avvolto in una busta pregiata, d’oro zecchino e diamanti grezzi africani, a bordo di una limousine a diciotto porte, nera come solo la morte può far vedere le cose.
«Questa è la sua più grande opportunità», aveva sentenziato l’ambasciatore con voce baritonale da orangutàn tripalle del Borneo, porgendo al Rinaldi i trechilieddue di pregiatissimo invito, «Cerchi di non fare figure di merda tipiche delle classi inferiori!».
Il Rinaldi, commosso fin quasi alle lacrime da una simile dimostrazione d’affetto e dall’alito pestilenziale dell’emissario, era rimasto a fissare inebetito quei quindici metri di oscura arroganza mentre il nocchiero, richiusa l’ultima portiera dell’auto, trotterellava affannato verso la suite dell’autista. Il diciottesimo finestrino della limousine si era nel frattempo abbassato in religioso silenzio, svanendo alla vista come l’integerrima segretaria che scivola sotto la scrivania del capo aziendale supremo, rivelando un’ultima volta il volto sudaticcio del lampadato ambasciatore: «E si ricordi, noi siamo soliti stracciare le mutande sporche!». A queste parole era seguito
lo stridio infernale della sgommata che aveva accompagnato l’auto che si dileguava rapidamente dietro l’angolo della casa, spinta da tre retrorazzi Katrina, vanto dall’ex-arsenale militare URSS.
Dopo dieci febbrili minuti, l’invito imperiale giaceva aperto su un tavolinetto in finto truciolato modello Størmglünd, un perfetto quanto instabile esempio di falegnameria svedese dall’intrigante color compensato con sfumature muffa.
Giaceva aperto, dicevamo, in tutto il suo immenso splendore, contornato da una decina di pietre preziose che il Rinaldi aveva divelto dall’involucro in settesecondieotto con l’aiuto dell’indispensabile piede di porco tascabile, ultimo dono ricevuto da suo cuggino prima della galera sempiterna. Giaceva aperto e meraviglioso come le porte del paradiso, avrebbe voluto pensare il giovane rampollo, aperto ed invitante come le cosce di una vergine, pensò invece il giovane frutto dell’ITIS. Il ragazzo aveva riletto una decina di volte il denso ed enigmatico messaggio in esso contenuto per assicurarsi di cogliere anche il più recondito significato:
«Ore 22.00, Villa Sborona, via De’ Nababbi 69, quartiere Fiabilandia, Arcore»
«Questa è poesia!», pensò all’istante il Rinaldi riconoscendo in quel Times New Roman da 12 punti, corsivo, la mano vellutata e l’angelico ingegno della sua amata.
Le ore successive volarono via rapide e leggere come una mosca morta portata in braccio dal vento autunnale e, dopo un’ora e trent’otto minuti di concitata vestizione, la luna piena che sbiancava quella notte vide il rampollo salire sulla sua FIAT BankRobbery, esclusivo modello della casa torinese di chiara ispirazione anglosassone. La regale occasione aveva consigliato al Rinaldi un delizioso completo color cachi con tanto di sagoma verde, rappresentazione fedele di un picciolo, all’altezza del collo della camicia, abbinato ad un paio di mocassini di velluto marrone, modello pelle-di-daino, che tanto ricordavano il caldo colore della terra concimata di fresco. L’immagine era stata curata da Silvanj, pronunciato “Silvansgi” in brasiliano stretto, transessuale di rara sagacia artistica emigrato dieci anni prima dal Paese Dei Busoni e successivamente divenuto titolare di un negozio d’alta moda sito in via GayPride, posizione strategica nella strada che portava direttamente dalla periferia al grande centro, nonché spacciatore preferenziale di vestiario per il giovane rampollo.
Fedele ai consigli che sua madre impartiva alla sorella maggiore, «…ricorda, le donne devono sempre farsi attendere…», il Rinaldi arrivò alle porte di Villa Sborona alle 22.25 in punto. Oltrepassata l’enorme cancellata d’oro con protezione elettrificata anti-terrone, il ragazzo vide il gabbiotto in eternit dentro al quale il posteggiatore stava guardandosi un film porno amatoriale da lui stesso girato, prova delle qualità di contorsionista della giovane moglie dell’imperatore della Squartex e del maggiordomo ivoriano Ugundu. Sceso dall’auto, ferma davanti al casotto col motore acceso, il Rinaldi attirò l’attenzione del parcheggiatore con l’appellativo di “Capo”, di chiara provenienza Sioux, mimando con le mani il gesto del volante che sterza e indicando con composto gesto del capo la sua BankRobbery, al quale il posteggiatore, dopo aver osservato la FIAT, rispose con un garbato quanto sdegnato «affa’ndo’culu» di dubbia provenienza brianzola.
Per nulla scoraggiato, il Rinaldi si affrettò lungo il sentiero di ghiaia anti-stabilità, da anni riconosciuta come il mezzo più efficace per ledere all’integrità delle caviglie delle giovani dame che percorrevano quel sentiero con tacchi a spillo vertiginosi, presentandosi sfavillante nel suo sorriso delle migliori occasioni di fronte al portone d’ingresso della villa. I due maggiordomi spinsero i regali battenti, mormorando parole incomprensibili sulla necessità di lasciare ogni speranza una volta varcata quella soglia, rivelando agli occhi del ragazzo l’ampio salone in avorio, marmo e osso di dinosauro percorso dai banconi ai quali gli ospiti si ammassavano per gli aperitivi.
Destreggiandosi abilmente tra le colonne intarsiate sparse qua e là come bastoncini dello shangai e le teste coronate, da cui arrivavano frammenti di discorsi riguardanti le colonie nel Paese Negro e i viaggi avventurosi nelle Indie Orientali, il Rinaldi si presentò ad uno di quei banconi e, rivolgendosi con sprezzo simulato al cameriere dalla pelle d’ebano stretto in un elegantissimo completo in simil- cartone color bianco-rosso-verdesmeraldo, disse con voce squillante:
«Due calici di cedrata Tassoni, prego! Uno per me e uno per la figlia del
re!».
E così facendo il giovane Rinaldi si trovò solo con due coppe in cristallo di boemia empite fino all'orlo di spumeggiante cedrata Tassoni, una delle poche ma risolute passioni della sua giovane e in fondo inutile vita. Non resistette a lungo senza trangugiarne un sorsetto a destra ed uno a manca, rimanendo infine avvinghiato tra i maledetti fumi oligominerali che trovavano nascosto e ingannevole riparo fra le scintillanti bollicine del gustoso nettare. Durante uno dei radi momenti di lucidità, il poverino non poté fare a meno di notare che il suo stomaco non vedeva cibo da quasi 12 ore, senza tener conto del fattore, molto influente dal punto di vista gastro-enterologo, della temperatura di servizio della bevanda: il Galateo la imponeva a non più di 4 gradi centigradi sotto lo zero, temperatura alla quale chiunque si fosse arrischiato a consumarla avrebbe dovuto fare i conti con le più mistiche e ancestrali esperienze di pre-morte.
Fra mille dubbi e domande che il giovane si rivolgeva allo scopo di prevaricare la paura di un ipotetico fallimento, un'unica risposta non tardò ad arrivare, come saggezza popolare insegna, dall'interno di sé. In seguito ad uno smottamento intestinale, quantificato successivamente dal CNR come un fenomeno di magnitudo 7.4, nel Rinaldi crebbe improvvisamente la convinzione che quella serata avrebbe potuto non decollare. Convinzione che spense, in un sol colpo, quello sfavillante sorriso da pirla che avea stampato sul visin e l'orrendo color cachi del completo modello saudade.
In quella situazione quantomeno sconveniente, il nostro giovine Rampollo dalla sciatta genealogia intuì la necessità di un intervento drastico. Intervento che si materializzava in uno splendido bagno in stile barocco – così lo immaginava il poverino – il quale avrebbe accolto fra le sue fagocitanti fauci di porcellana bianca, intarsiata di finissimo oro zecchino, il frutto della sua ingordigia.
Dopo un breve istante di pace dovuto alla ciclicità della sua patologia, istante che gli avrebbe donato la freddezza necessaria a costruire l'ipotetica via di fuga dritta dritta nelle braccia di "Mamma Toilette", un nuovo spasmo di incontenibile dolore lo colpì nel basso ventre, facendogli desiderare in quel momento che quei dolori fossero imputabili ad un parto equestre, giustificazione che la sua mente appannata vedeva come improponibile salvezza.
Da qui a poco vide l'invisibile, sentì l'inudibile e toccò l'impalpabile. Gli splendidi affreschi settecenteschi della sala rinascimentale raffiguranti scene bibliche del vecchio testamento presero vita, e in un batter d'occhio il Rinaldi, confuso e sudato, si trovò contornato da angeli dell'apocalisse, diavoli dell'inferno, tritoni, sirene e centauri. In una lingua sconosciuta lo condussero ai piedi di Dio, che per l'occasione vestiva con un completo di pelle bianca sfrangiato al cui centro splendeva il celeberrimo logo anarchico dipinto con gli scarti della lavorazione del greggio. Prono sui Suoi sandali non poté fare a meno di notare l'imbarazzante somiglianza con Jimi Hendrix, forse dovuta all'inspiegabile presenza della mitica Stratocaster mancina che l'Altissimo indossava a mo' di spada di Greysgoul e che all'occorrenza, grazie ad un prodigioso gioco di anche, si faceva scivolare in grembo per intonare un dissonantissimo "Halleluja delle Lampadine".
Bibliche visioni e schitarrate celestiali non disturbarono molto il nostro giovane amico, non come l'impalpabile che prese la forma delle generose prosperità della Contessa Orona Della Rovere Monte De Medici Di Montezemolo che il poverello si ritrovò strette strette fra le piccole e ossute mani da studentello di provincia, mani che da quel momento in poi avrebbero avuto giorni migliori.
Una fulminea dissolvenza dei vaneggiamenti lo riportò nel duro mondo della realtà e dopo aver offerto le più ossequiose scuse alla Contessa, precedute dalla scaltra ritirata delle sue pudiche mani, decise di farsi varco fra la folla coronata per guadagnare il prima possibile la via verso l'agognata salvezza. Conscio del fatto che una successiva ricaduta nel mondo evangelico avrebbe potuto segnare la sua definitiva sconfitta nei confronti dell'aristocrazia, decise di dare una poderosa sterzata al suo piano d'azione imbastendo una strategia degna della supervisione di McGyver. E così, spinto da un indomito spirito d'iniziativa e dalla sigla dell'omonimo telefilm che il Rinaldi, nel suo stato confusionale, riusciva a sentire nel più classico «Walzer N°4 in Mib maggiore e sonata per violoncello e orchestra di Lev Iss Strauss», tirò fuori penna e taccuino per appunti del Dott. Schultz, che diligentemente si era portato appresso per segnare numeri di telefono, e cominciò a calcolare, tramite strumento differenziale, il lasso di tempo intercorrente fra gli spasmi addominali e la conseguente rimanenza, in termini di minuti, prima del successivo. Aveva ancora poco più di un patetico minuto e solo in quel momento al Rinaldi venne in mente una frase che la sua nonnina, nervosetta a dir la verità, soleva urlargli nelle orecchie alle 5.30 del mattino per svegliarlo con tutta la dolcezza che solo una nonna sa riservare al proprio nipotino: «Mai paura, acqua a sé e farla dura…»
Rimase turbato da tanta saggezza, virtù che da sempre non gli apparteneva, ma che in quel particolare frangente, forse a causa degli sforzi stoicamente protratti per cambiare il corso di ciò che la Natura aveva ormai predisposto, nella dissennata ricerca di una Superiore salvezza intestinale, provocò in lui un ringalluzzirsi della vena poetica che da tanti anni attendeva per potersi dare all’arte, completamente e per sempre, senza più subire le preoccupazioni dei comuni mortali, tanto legati agli aspetti materiali della vita. Così, con la stessa naturalezza di un fiore che sboccia, nella mente del giovane Rinaldi, il seme di un’arte poetica da tempo sepolto nel fertile terreno della noia quotidiana portò allo sviluppo inconsulto di versi di vivida freschezza:

«Oh mia cara e mai doma nonnina,
un dolce ricordo in questa sventura
mi riporta a te che fosti regina
della casa paterna e della vita futura,
ascolta il lamento dell’anima in pena
che per ville dorate tra orde di ricchi
va in cerca d’amore ma ancora s’arena
ché mai alla sfiga si chiudono gli occhi»

Quanta nostalgia stillò da quelle parole! Quanto dolce veleno di fanciulleschi ricordi, spremuto dal tempo che come un serpente stringeva le sue spire attorno alle viscere del nostro povero eroe e alle sue residue speranze di successo!
Non si sa se a causa di questo mentale allontanamento dalla realtà verso il paradisiaco mondo dei ricordi, o se per gentile concessione del destino che volle chiudere un occhio di fronte all’inettitudine del Rinaldi concedendogli una nuova, seppur piccola, possibilità di riuscita, o se per la provvidenziale intercessione del capo supremo della Squartex – padre della spazientita e lamentevole fanciulla che vedeva un intoppo non desiderato nel ritardo immotivato del fidanzato – che chiamò a se tutti gli Dei della fisica in un soprannaturale conciliabolo di menti ed elementi, fatto sta che il Tempo parve addormentarsi, rallentando quindi la sua corsa e concedendo al giovane rampollo di trovare il bandolo nella matassa confusa delle proprie idee, e di stabilire così un nuovo piano d’azione per la riuscita del suo progetto d’amore durante la lunga seduta di briefing autogeno nella regale toilette al primo piano della villa.
Uscito di lì dopo una buona mezz’ora, non ricordò più nulla della sua corsa affannosa, né di come fosse riuscito a trovare la porta della salvezza in una villa che stendeva la sua enormità su tre piani, ma seppe con precisione quello che avrebbe fatto: avrebbe rinunciato alla possibilità di diventare membro di una famiglia reale, rinunciato a diventare una figura di spicco nella Cerchia Del Cenacolo con mani salde sul controllo dello smercio di droga nei parchi della brianza, rinunciato a diventare vicedirettore esecutivo dell’area marketing della Squartex con poteri decisionali nella scelta delle linee guida per lo sviluppo di nuovi prodotti stimolanti per il toro e ritardanti per la vacca, effettivamente di dubbia utilità. Avrebbe rinunciato a tutti questi privilegi, sintomatici di una classe sociale superiore, a cui ogni uomo di bassa normalità intellettiva avrebbe aspirato, e avrebbe salvato dal proprio destino anche la sua amata, riscrivendo per lei un futuro fatto di amore platonico e di pacifica ammirazione delle bellezze della natura e di composizione di poemetti per il cinguettio di ogni singola creatura vivente ad ogni sorgere del sole per tutti i giorni a venire, nella sostanziale fondazione di un dolce stil novo metropolitano per una vita da trascorrere nella semplicità del reciproco guardarsi negli occhi fino al giorno del Grande Passaggio.
Rinfrancato da simili pensieri zuccherini, scese nel salone dove tanto caro gli era costato l’essere ricevuto e attraversò come una furia quella marmorea vacuità destreggiandosi tra i camerieri indaffarati nelle pulizie, fino ad arrivare al cospetto dell’enorme traditore d’ebano che, con il ghigno malefico dell’infedele che sa di peccare, gli aveva servito i due calici di cedrata da lui scioccamente richiesti. Afferratolo per il bavero della giacca, lo trasse a se con la forza di un maciste, urlandogli in piena faccia il suo perentorio volere: «Muoviti stolto! Conduci me dalla figlia del re!». Sulle prime, il subalterno del potere parve non comprendere quel linguaggio emancipato, evidentemente frutto, anche ai suoi occhi, di uno sconvolgimento cerebrale, mentre sentì chiaro e forte un senso d’offesa prorompere nel proprio corpo fino a gonfiare d’odio ogni suo muscolo. Solamente quando il Rinaldi, con occhi segnati dalla pietà, sventolò davanti al naso del rispettabile uomo nero l’invito regale ricevuto nel pomeriggio, forte di una sicurezza che solo può derivare, ben prima che da un nobile scopo, dalla paura di trovarsi in una situazione a dir poco sconveniente, questi fu ben felice di accompagnare l’inetto dove richiesto, stringendo la propria mano attorno a quel suo esile e ossuto collo e abbandonandolo, spalle basse e capo chino alla vergogna, di fronte all’ingresso del Gran Salone Delle Fiere. Qui, ritrovatosi nuovamente solo e con le note sussurrate del valzer iniziatico che, dall’interno della sala, filtravano attraverso la grande porta d’ingresso fino a posarsi docili sui suoi pensieri, sentì ancora le mute parole della nonnina fare il diavolo a quattro nella sua testa e, ripreso quindi il coraggio tra le mani, strinse i pugni portandoseli davanti al volto come un pugile che accetta la sfida con la sfortuna. Quindi, con un colpo ben assestato del piede destro, antico rimando alle arti marziali imparate in anni di visione delle serie dei Power Rangers, spalancò il portone dorato rivelandosi all’umana poltiglia di teste coronate rinchiusa lì dentro.
Il Gran Salone Delle Fiere altro non era che uno stanzone rettangolare, esteso soprattutto in lunghezza, con ingannevoli pareti a specchio attraversate dalle venature dorate che componevano una qualche arcana raffigurazione; la luce era fornita da cinque imponenti cascate di diamanti che sembravano enormi gocce d’acqua sul punto di staccarsi, pronte a sommergere la danzante corruzione in una divina alluvione di opulenza. Un centinaio di metri più avanti rispetto all’ingresso principale dove sostava il nostro giovane amico, i venticinque elementi della “Squartex Orchestra” elargivano l’ossigeno necessario alla fiamma del ballo per divampare tra le fiacche membra inabili al lavoro dei nobili virgulti, riuniti al centro del salone in quella speciale serata. Tutt’intorno si tessevano discorsi tra i superstiti della decadente nobiltà brianzola e i maggiori rappresentanti del nuovo potere temporale, con garbatissimi scambi d’opinioni e sdegnatissime pose a sottolineare il tenore delle discussioni, ora incentrate su temi di politica estera ed economia, ora sui problemi lamentati dal sudditame più incolto. Per finire, il caos era visivamente accentuato dal traffico di camerieri e portaborse che rimbalzavano da una persona all’altra in equilibrio instabile, come mais esploso nel gravoso compito di soddisfare le infervorate voglie di una qualche testa benpensante.
In verità, l’ingresso trionfale del giovane nel salone non provocò quell’effetto destabilizzante che lui stesso aveva immaginato e sperato. Si ritrovò a maledire mentalmente i film americani in cui l’eroe irrompe nella scena gonfio di muscoli, coperto di graffi e sangue, inguainato in una sbrindellata canottierina da body builder color verde militare delle dimensioni adatte ad un Big Jim, appesantito da due mitragliatori di provenienza sovietica e da una fascia di munizioni di calibro improponibile avvolta ad X attorno al petto scultoreo. Ma soprattutto il Rinaldi, drogato dalla rabbia, non poté fare a meno di lamentare la mancanza di adeguati effetti scenici e sonori, grossomodo identificabili in una spessa cortina di fumo retro-illuminata da un proiettore blu e sospinta dalle minacciose note delle cavalcanti Valchirie: gli astanti che si fossero accorti di lui non avrebbero visto un’enorme ombra aureolata e avvolta nella nebbia, bensì un inutile corpicino color cachi, con imbarazzanti aloni di sudore, evidenziato da diecimila sfavillanti watt. «Puah, il cinema!», pensò in una smorfia di disillusione, «Ricettacolo di falsi miti, cancro dell’arte!». In un attimo di sconforto, rivide la sua fornitissima videoteca personale, vanto degli anni all’ITIS: un’accozzaglia di barbari, di terminatori, di robocoppi, di fuggitivi, di rambi e rocky e giustizieri della notte, di trappole di cristallo e in alto mare, di sfide tra i ghiacci di un set hollywoodiano. Avrebbe bruciato tutto, fuso tutto, una volta tornato a casa, non avrebbe risparmiato nemmeno le lunghe cosce della Giovannona, né quelle dell’insegnante tra i militari e nemmeno quella scalmanata dell’Ubalda.
«Per amore, solo per amore», ripeté trasognante in barba ai severissimi diritti d’autore: la sua amata avrebbe conosciuto una persona nuova, un giovane tutto d’un pezzo, un idealista, poeta della bellezza ed estatico osservatore della vita. Improvvisamente, così com’era stato rapito dai suoi vaneggiamenti, si ritrovò di nuovo catapultato in quella realtà corrotta che meritava tutto il suo furore riformatore. Si guardò attorno. Si vide riflesso in quegli enormi specchi insieme a tutti gli altri invitati, anch’egli avvinto dagli unti tentacoli del potere.
Ricacciando in gola un conato d’imprecazioni, decise di sfruttare ancora l’effetto sorpresa e di seguire il proprio istinto nonostante gli scarsi risultati fin lì ottenuti. Da qualche minuto, infatti, avvertiva uno strano senso di nausea, si sentiva oppresso, come se la sua anima fosse rinchiusa in un corpo estraneo, orribile. Gli specchi avevano fornito la risposta: il vestito che indossava, quel completo color cachi che il buon Silvanj aveva cucito come un’ombra addosso al suo corpicino, quella divisa da giovane rampante di provincia a cui tanto si era affezionato ora gli appariva, come dire?, scomoda, poco adatta, definitivamente fuori luogo. Forse troppo elegante e di classe per poter riuscire a sopportarla. Così iniziò a spogliarsi, nervosamente. Prima la giacca, che gettò alle sue spalle, «…lontano dal cuore, lontano dagli occhi…», pensò con lo sguardo furbo di chi la sa lunga; toccò poi alla camicia, che tra tutti gli indumenti fu quella che ebbe la peggio, aperta di schianto in una pioggia di bottoni strappati, gettata a terra e di esterno destro scalciata in un angolo; scarpe e pantaloni seguirono la stessa sorte, severa ma giusta. Si fermò quindi per un attimo a riprendere fiato, la bocca semiaperta, l’occhio spento a scavare nel marmo davanti alla punta dei suoi piedi, con brandelli del proprio passato sparsi attorno. Si volse nuovamente a destra e questa volta lo specchio rese giustizia alle sue aspettative: calzini bianchi tirati su fin poco sotto il ginocchio, slip attillati per dar risalto alle forme color mar-dei-carabi, ex-bianco, frutto di un rapporto contro natura tra un paio di boxer blu e una t-shirt verde, e per finire canottiera a coste, di lana, color antica-pergamena-bruciacchiata. Il rinnovato Rinaldi, il giovane ex-rampollo, l’insulto alla borghesia arricchita era pronto alla battaglia.
L’idea di rimanere completamente nudo gli sfiorò momentaneamente i pensieri, ma un pudore ipocrita, rimasuglio d’altri tempi che si ripromise di estirpare, gli consigliò di togliersi solamente la canottiera, lasciando così scoperto un ciuffetto di peli neri ben radicati all’altezza dello sterno e una pancetta da ingordo bevitore di birra. Ma non fece in tempo a muovere un passo verso la mischia di teste coronate che si scatenò il putiferio.
Poco prima, infatti, nell’esatto istante in cui la giacca col verde picciolo sagomato prendeva il volo, l’ottuagenaria contessina De Bortoli aveva deciso di abbandonare quella cerimonia iniziatica, che come ogni anno le metteva addosso una certa deplorevole malinconia, per allontanarsi col ben più giovane e prestante baronetto di non-so-cosa, lì presente sotto invito della figlia del responsabile personale della Squartex. Il cicisbeo, che alla donna interessava solo per quelle sue belle natiche sode, come comprovato da svariate e dispettose toccatine, aveva abbandonato la propria dama quasi immediatamente, stanco di portare avanti un’inutile farsa, vagando per la villa fino al momento in cui aveva incrociato lo sguardo ammaliante dell’anziano marito della contessina, l’enigmatico cavaliere Von Schrauser. Per poter avvicinarsi a lui, il gaio giovane s’era appiccicato alla contessina come un passerotto sul dorso rugoso di un rinoceronte, offrendole più volte da bere e offrendosi per un ballo e al tocco delle sue mani indagatrici, in modo da estorcerle preziose informazioni riguardanti il marito. La De Bortoli, dal canto suo, quale amante dell’arte e di conseguenza dei corpi ben torniti, aveva quindi convinto il cicisbeo a seguirla e aveva risolutamente puntato verso l’uscita del Salone in cerca di un luogo più appartato.
Ma non appena i due si tirarono fuori dalla massa danzante, l’occhio attento del ragazzo cadde inevitabilmente sul fisico asciutto del Rinaldi, per nulla entusiasmante, anzi proprio bruttino, come pensò la contessa, comunque bastante a scatenare in lui una sommossa ormonale guidata da quell’impavido bohemienne. All’istante, il cicisbeo si dimenticò del cavaliere marito della donna e, indossando come d’occasione il suo più bel paio di occhioni lucidi e l’espressione da golosa sorpresa, lasciò la vecchia mano di lei con gesto teatrale per gettarsi zompettante tra le candide e amorevoli braccia di lui. Ancora inorridita dalla vista del nostro ex-rampollo, la contessina avvertì principalmente un senso di rassegnata delusione prima ancora che di rabbia, ma, forse per salvare un minimo di quella dignità conquistata in decenni di
sfruttamento di giovani virgulti, di cui sempre aveva preteso e ottenuto la schiavitù, decise comunque di farla pagare a quell’invertito che stupidamente s’allontanava da lei. Così, distrattamente, alzò il piede destro quanto bastava per toccare quello sinistro del deviato, privandolo dell’equilibrio e lasciandolo ad una corsa scomposta tutta urletti e gridolini. Questa pantomima non poté che attirare l’attenzione degli invitati che delicatamente discorrevano nelle immediate vicinanze, soprattutto quando il Rinaldi, vedendosi arrivare contro il ragazzo e scambiandolo per uno scomposto e minaccioso emissario del potere, si scansò privando il cicisbeo dell’unico possibile e agognato appiglio, facendolo franare a terra nel sordo rumore di una craniata colossale. L’onda d’urto della botta, mischiata al pianto isterico della povera vittima, suscitò lo sdegno furibondo dei presenti, involontari spettatori di tanta efferatezza. In realtà, più che sul ragazzo a terra, le loro lamentele si concentrarono su quel giovane così vergognosamente abbigliato, o meglio, così terribilmente nudo, che fiero della propria stupidità di suddito si dirigeva senza dubbio alcuno verso il centro del
Salone.
Come detto, fu il caos. Si udirono decine di preziosissimi bicchieri infrangersi a terra, si videro dame ritrarsi spaventate accanto ai loro mariti e altre farsi avanti con piccante curiosità e altre ancora svenire di fronte a tanta sconcezza. Addirittura qualche conte o principe o barone, desideroso di sfide che potessero rimandare ad un giovanile vigore, pensò di correre a gettare il proprio guanto contro il volto di quell’arrogante anarchico, ma se nessuno lo fece fu solo per rettitudine di spirito, per una forma di autocontrollo che evidentemente apparteneva alle sole classi superiori. In definitiva nessuno mosse un dito o sollevò una vera obiezione: inutile sporcarsi le mani con l’asservito sudiciume, inutile cercare di far ragionare chi non è naturalmente avvezzo alla ragione. Ma il nostro ingenuo amico scambiò questo comportamento per codardia, e ancor più baldanzoso, e ancor più fermo nei propri sacrosanti intenti, gonfiò ulteriormente l’ancor smunto petto dirigendosi col cuore in divino fermento al centro del Salone, dove le giovani coppie dalla reale genealogia, interrotte nel bel mezzo della loro notte magica, attendevano nervose e divertite e spaventate di poter nuovamente abbandonarsi alle atmosfere dorate della società bene.
Il pensiero del Rinaldi corse subito verso la sua amata, anzi in realtà non se ne era mai distaccato: l’amore per lei era stato il filo che l’aveva mosso come un burattino da quando aveva messo piede nella villa, estasiato da tanta ricchezza, fino al momento in cui aveva deciso di spogliarsi di ogni umana debolezza e ancora adesso che sostava nudo sotto lo sguardo feroce dei potenti, schifato da cotanto materialismo. Lì in mezzo cercò i suoi occhi, cercò colei che avrebbe liberato, colei con cui avrebbe condiviso tutto, cercò la sua unica ragione di rivolta. E la trovò avvinghiata ad un ratto. Non afferrò immediatamente quelli che potevano essere i suoi pensieri: lo sguardo pareva di compassione, lo sguardo della ricchezza che si trova di fronte all’umano coraggio e prova pietà per gli sforzi che immagina siano stati compiuti, e le
braccia che stringevano così forte quel ratto potevano significare paura per il cambiamento imminente, un vano tentativo di ritardare quello che inconsciamente si desidera sottolineando il legame con le proprie radici. Ma la lingua di lui che in un bacio mancato dall’improvviso voltarsi di lei ancora penzolava fuori dalle labbra socchiuse di lui per adagiarsi infine sulla rosea guancia di lei, convinse di una sola cosa il Rinaldi: quel ratto doveva morire! Doveva scontare il massimo della pena per l’insulto all’intelligenza della sua amata, che evidentemente era stata colta in un attimo di debolezza. In realtà il ratto non era propriamente un ratto. Era un ragazzotto vestito di tutto punto con le mostrine dell’arma tirate a lucido, di media statura, di media corporatura, di media bellezza se si escludeva l’orribile cespuglio che sovrastava senza soluzione di continuità quel suo sguardo vacuo; insomma, era una nullità immersa fin sopra ai capelli, troppo pochi ad essere sinceri, in quel mare di anonime nullità. «Beh?», disse la giovane figlia del supremo, «Cosa ci fai qui? Credo sia davvero troppo tardi ormai, per te», aveva parlato in Verdana questa volta, carattere freddo, da 14 punti addirittura. Chiaramente con questo considerava chiuso il discorso. «Già, davvero troppo tardi!», si affrettò ad aggiungere il ratto. Lei lo guardò di traverso, praticamente senza muovere la testa, e in uno scatto gli tirò una manata sulla nuca facendogli volare a terra il berretto. «Tu stai zitto», gli disse, «e vammi a prendere un negroni! E ti ho già detto che quella lingua devi tenerla al suo posto, lontano da me». Il ragazzo si chinò per raccogliere ciò che la scoppola aveva buffamente fatto cadere, ma non riuscì ad artigliare nulla perché il Rinaldi con un calcio allontanò il berretto spedendolo fuori dalla mischia, strappando un minuscolo sorriso alla sua amata mentre il ratto si allontanava squittendo qualcosa di incomprensibile tra i denti. «Bene», pensò, «è ancora mia!», e con espressione soddisfatta si apprestò a snocciolare il suo pistolotto: «Vedi mia cara…ehm…io ho finalmente capito, capisci? Ho aperto gli occhi…! Ti ho mai parlato di mia nonna? E’ stato tutto merito suo se in questa serata sono riuscito a ritrovare la giusta strada…cioè, voglio dire…ehm…è una storia lunga, capisci? Il fatto è che da piccolo andavo pazzo per la cedrata Tassoni e fu proprio lei a farmela conoscere. Cioè ad ogni ora del giorno e della notte poteva capitarmi di essere preso in disparte e obbligato a bere cedrata, voglio dire, sempre cedrata sia che avessi sete sia che no. Ma non è che fosse esattamente un obbligo, capisci? Cioè in fondo sapevo che lo faceva per il mio bene, lo ripeteva sempre la povera nonna, – è perché profuma le reni! –, mi diceva, e io le credevo perché in seconde nozze aveva sposato un dottore anche se poi lui era morto presto e io non l’ho mai conosciuto, però lei aveva imparato molte cose nel frattempo. E stasera giù sotto davano al cedrata e io non potevo non berla, capisci? Ma quello schiavo, quel servo, la serviva freddissima…ehm…beh, non schiavo, diciamo che così lo pensavo prima, ora anche lui è mio fratello e anche tuo, capisci? Comunque la cedrata era gelata e io ero lì e tu non arrivavi e, sai, ero nervoso per la Squartex, cioè tu la figlia del supremo…e così non ho resistito, voglio dire, l’ho bevuta tutta e non avevo neanche mangiato e…ehm…cioè sono stato male e ho avuto delle visioni e…cerca di capirmi…non potevo fallire questa volta, perché ti amo, e la mia nonnina di nuovo è corsa in mio aiuto e mi ha indicato la strada che dovremo percorrere insieme, perché l’amore è una bellissima cosa e i soldi…cioè un posto nella società, voglio dire, non valgono la stessa cosa, sei d’accordo anche tu vero?
E quindi simbolicamente…cioè mi sentivo davvero oppresso, non lo nego…ehm…cioè quei vestiti, che sì erano solo vestiti però rappresentavano qualcosa di sbagliato, è chiaro, è stato come liberarsi di un passato scomodo e di ambizioni sbagliate…ehm…perché in fondo quello che ora conta per davvero siamo solo tu ed io!».
Silenzio. Tutti avevano ascoltato quello sproloquio e ora, increduli, fissavano il gracile corpo svuotato dell’ex-rampollo, aspettandosi da un momento all’altro il suo svenimento o comunque l’intervento di qualcuno che liberasse il Salone dalla sua presenza. Il Rinaldi, a cui nel frattempo era scivolato un calzino che si era portato all’altezza di metà stinco per via dell’elastico allentato, era decisamente più incerto sulla riuscita del suo progetto d’amore rispetto a qualche istante prima. Non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto fare tanta confusione, ma si aspettava da un momento all’altro un segno di consenso da parte della ragazza, un gesto, anche solo una smorfia che potesse indicare che stava con lui, che aveva capito le sue profonde
motivazioni. Ma il suo sguardo non tradiva nessuna emozione.
Emozioni che il signor Rigetti aveva in abbondanza per tutti, invece, anche se in quel frangente provava soprattutto rabbia nei confronti di quello scomodo inetto. Infatti il lampadato ambasciatore della Squartex, che nel pomeriggio aveva recapitato l’invito al giovane, evidentemente un factotum dell’azienda in quanto ora responsabile della vigilanza, arrivò di gran carriera facendosi brutalmente spazio tra la folla coronata e piazzandosi alle spalle della vergogna. Prima che il Rinaldi potesse accorgersi di qualcosa, gli mollò una gran pedata di collo sinistro sul sedere, un calcio degno del suo glorioso passato nelle file della squadra di rugby dell’azienda. L’esile ragazzo si sentì fisicamente sollevato da quel convinto contatto umano e, quando dopo un breve istante i suoi piedini ritrovarono il terreno, si girò rinfrancato e decisamente incazzato verso il suo aggressore, pronto a vendere cara la pelle perché nessuno può permettersi di prendere a calci un poeta. «Beh, ci si rivede!», disse riconoscendo il Rigetti e preparandosi alla lotta. Ma l’altro, per nulla spaventato, allungò prontamente la mano verso di lui. Il ragazzo, che già furbescamente s’aspettava un così repentino attacco, alzò immediatamente la guardia, convinto di poter assorbire anche il colpo più forte. Ma il vigilante aveva ben altre intenzioni: puntò dritto a quella macchia scura che come un nugolo di piccole formiche adombrava lo sterno del Rinaldi e, afferrato saldamente lo sparuto cespuglietto di peli, ritrasse rapidamente la mano lasciando una piccola macchia rossastra sul petto liscio come il sedere di un bambino. «Avevo promesso che ti avrei stracciato!», disse sghignazzando e ripulendosi la mano sul bordo dei pantaloni. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso del nostro povero ex-rampollo ed ex-eroe. Non prese nemmeno fiato: sfatto per il dolore e la vergogna, si lasciò cadere, sciogliendosi come un endecasillabo ai piedi della sua ex-amata.
Riprese i sensi una decina di minuti più tardi, accasciato addosso alla ruota anteriore sinistra della sua FIAT BankRobbery, in mutande e coi bianchi calzini arrotolati attorno alle caviglie, i vestiti buttati sul cofano dell’auto.
L’enorme cancello dorato lo rinchiudeva definitivamente nel mondo dei sudditi, lontano da quell’isola felice in cui un tempo anche lui aveva desiderato vivere. Nella ghiaia del vialetto antistante la villa s’intuiva il solco lasciato dal suo corpo: lo avevano trascinato fuori di peso tirandolo per le braccia, s’erano presi gioco di lui, s’erano sbarazzati del pericolo che lui ancora pensava di costituire per potersi dedicare liberamente ai loro stupidi giochi di società. Dolorante, si rialzò in piedi. Pensando a come avrebbe reagito Silvanj se avesse saputo di tale scempio, raccolse svogliatamente i pezzi dell’elegantissimo completo indossato quella sera, gettandoli sul sedile passeggero che era tanto dolorosamente vuoto. Poi salì in macchina, che già
aveva il motore acceso in un chiaro invito a levarsi al più presto di torno, e prima di partire diede un ultimo sguardo alla villa: nella notte, le sue mille finestre illuminate sembravano gli occhi fiammeggianti di una qualche creatura infernale. Quindi la FIAT iniziò a borbottare con più forza e infine si mosse, mentre il Rinaldi tentava invano di cancellare dalla mente quattro amari versi che la sua nuova vena poetica non smetteva di pompare:

«Un’altra notte è passata:
ancor sconfitto in guerra,
battuto e prostrato a terra,
sotto gl’occhi dell’amata.»

Dopo circa un paio d’ore, alle 4.47 in punto di una notte senza fondo, quando il Rinaldi si trovava nel suo letto prigioniero di un magnifico sogno d’amore, una voce tanto eterea quanto squillante e decisamente nervosetta parve scuotere le mura della casa: «…ridi finché sei in tempo, ché non puoi sapere chi te lo pianterà nel culo!»
Svegliatosi di soprassalto con la fronte imperlata di sudore, il giovane si recò in cucina, improvvisamente voglioso di un bicchiere di cedrata Tassoni.


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