Ricordo che la giornata era iniziata in maniera del tutto normale. Mi svegliai mentre il letto sotto di me vibrava gentilmente e una delicata voce femminile mi ricordava che dovevo alzarmi perché «erano già le quattro».
Le quattro. Ma chi me l'ha fatto fare di accettare quel programma?
Mi voltai con fatica, aprii gli occhi e osservai per un po' mia moglie che dormiva pesantemente, e un po' rumorosamente. Ancora bella, aveva i capelli in disordine sul cuscino e piccole rughe agli angoli degli occhi. La ammirai in silenzio.
Alla fine mi scrollai e misi i miei movimenti sull'automatico. Gambe fuori, una bella stirata, riuscii a raggiungere il bagno per una bella doccia che mi restituì un minimo di lucidità. Saltai la colazione, tornai di nuovo in camera e mi vestii alla svelta. Mi chinai a baciare mia moglie, non so nemmeno io se ancora in automatico, e raggiunsi la porta; un'occhiata all'orologio (le quattro e venti, non male) ed ero fuori, nel buio silenzioso della mattina.
La Porta era poco distante, due passi che mi dettero il tempo di riprendermi nell'aria fresca. La strada era deserta, e solo alcune insegne erano accese, compresa quella della Porta stessa. La guardai mentre mi avvicinavo, ma senza vederla veramente. Era un'immagine così comune, così banale, quel lampo bianco in campo azzurro con le lettere GPM enormi e dorate.
Entrai, e la sala era deserta tranne la guardia del turno di notte. Salutai con un cenno di mano, e entrai nella Porta. Le ante scorrevoli si chiusero dietro di me, e si accesero due spie di colore rosso. Coloratissime pubblicità scorrevano sulla parete opposta alle spie; cercai di ignorarle. Digitai in fretta il codice, pagai con il tesserino, e, non appena le luci tornarono di colore verde, le ante dal lato opposto si aprirono. Uscii in fretta e prima di svoltare nel primo corridoio a destra, verso le scale per il parcheggio, ebbi appena il tempo di notare che anche dall'altro lato non c'era nessuno (nemmeno la guardia, deve essere in bagno). Salii sul primo taxi libero e chiesi di essere portato in via Cavour 125. Il taxi partì con la solita flemma, e io lasciai cadere la testa all'indietro, chiusi gli occhi, e cercai di saldare i conti con Morfeo.

La voce del taxi ruppe l'effimera armonia di quel breve viaggio: «Signore, siamo arrivati, può scendere.»
«Urgh», risposi, e mi sollevai dal fin troppo comodo sedile per pagare e scendere sul marciapiede. Mentre il taxi ripartiva, mi guardai intorno: era ancora buio, ma nonostante i lampioni accesi riuscivo a vedere le prime luci dell'alba. Un mezzo automatico della nettezza urbana avanzava piano lungo il marciapiede.
Feci per entrare nel portone davanti a me quando mi accorsi di non riconoscerlo affatto.
Lo fissai per un po', sbigottito e ancora in preda al sonno, poi riuscii ad accettare il fatto e a reagire. Il numero era quello giusto, eccolo lì, 125. Gettai un'occhiata a destra e un'altra a sinistra, ma vidi solo negozi che non mi dicevano niente. Mi voltai, e dietro di me, oltre la strada, solo un'altra insulsa fila di vetrine e portoni sconosciuti.
I bei taxi di una volta, con autisti umani...
Alzai lo sguardo, in cerca del nome della strada, ma non ce n'erano in vista. Girai ancora un paio di volte su me stesso, lo sguardo vuoto come un ubriaco. Niente da fare.
La mano mi partì quasi da sola in cerca del telefonino (li chiamavamo ancora così), ma trovò solo il vuoto.
Merda, dev'essere rimasto lì sul comodino. E ora dove vado? Almeno una volta c'erano i telefoni pubblici... Ciondolai per poco ancora sui miei piedi, poi mi incamminai verso destra lungo il marciapiede deserto.

Il cielo si schiariva, e iniziavo a vedere qualcosa tra alberi e costruzioni: il profilo di morbide colline, non troppo lontane, punteggiate di luci gialle. Non riuscii ad associare quelle colline al panorama che conoscevo alla luce del sole.
Mentre le fissavo, mi accorsi di un bar aperto dall'altra parte della strada. Attraversai velocemente tra le rare macchine, ed entrai. Il barista, lo ricordo perfettamente, era un ragazzotto sulla ventina, scuro di pelle e di capelli, probabilmente di origini marocchine. Aveva una divisa di taglio classico, camicia bianca e panciotto verde, e stava asciugando alcuni bicchieri. Tre o quattro avventori erano ai tavoli, ed un altro paio al bancone.
«Un caffè, prego, nero.»
«Subito.»
Con movimenti esperti, deposto l'asciughino, iniziò a prepararmi il caffè.
«Ho bisogno di un'informazione, lei sa mica dove si trova via Cavour?».
«È questa, via Cavour!». Mi studiò stupito e un po' diffidente. A quell'ora, capisco bene, ci dev'essere in giro di tutto.
Non reagii al suo sguardo, anzi cercai di fare una faccia tranquilla, anche se la cosa mi aveva inquietato un bel po'.
«Ah, ecco, lo sapevo che c'ero vicino. Grazie.»
«Chi sta cercando?»
La domanda mi colse un po' alla sprovvista, non sapevo se era il caso di rispondere con la verità.
«La redazione... cioè, voglio dire, come si chiama... al numero 125, ha presente?»
«Ah, sì, lo conosco, è qui vicino. È un condominio, ci sono solo delle abitazioni. Mio fratello vive lì.»
«Sì, cerco un tizio, dobbiamo andare a pescare insieme.» Che scusa del cavolo.
Il cameriere era diventato inespressivo, e smise di parlare. Mi servì il caffè, buonissimo, e si dedicò ad altro. Io, per parte mia, consumai con calma, pagai e mi affrettai ad uscire.
Se questa è via Cavour...
Mi misi a guardare le targhe delle automobili, mentre camminavo. Una riforma, parecchi anni prima, aveva abolito l'indicazione di provincia, ma c'erano ancora in giro molte vetture con targhe vecchio stile. Con stupore, e via via con sempre maggiore ansia, iniziai a contare le sigle effe-i. Una, due, tre... Arrivato a dieci, dovetti arrendermi all'evidenza.
Stavo iniziando a valutare se avrei potuto o no rientrare alla Porta in tempo per arrivare a lavoro, o se mi conveniva tornare a casa e telefonare, quando dei passi dietro di me si interruppero. Mi voltai, e c'erano due uomini che mi fissavano. Uno disse: «È lui.» L'altro restò in silenzio, ma estrasse una mano dalla tasca: impugnava qualcosa, ma non so cosa, fu tutto molto veloce. Persi conoscenza prima di poter emettere un sol suono.

Fu bello riprendersi da quella droga. Non dico come uno di quei «viaggi» che avevo provato da ragazzino, ma certo mi sentivo distaccato da tutto e padrone di me stesso, e il mondo era un posto assolutamente confortevole, caldo al punto giusto e morbido; magari era solo un po' stretto intorno ai polsi. Ci misi un bel po' a stabilire che ero sotto una coperta, con un cuscino che mi premeva la guancia e con i polsi legati.
Alla fine decisi che tutto sommato potevo anche aprire gli occhi. Non è che la situazione migliorò di molto: era tutto molto confuso, e la luce mi provocò subito una fitta di dolore alla testa. Al secondo tentativo andò meglio, e pian piano iniziai a rendermi conto che c'era una lampada proprio sopra di me, appesa a un filo. Intorno alla brandina c'erano degli scaffali, pieni di scatole di cartone. Tutto era piuttosto sporco e disordinato.
«Eccolo, si sveglia.»
«Benvenuto tra i morti che camminano!»
«Non dargli retta, non sei morto, non ti prendere paura.»
«Ricordi l'ultimo a cui ho detto così? Ha iniziato a pregare forte!»
Suono di risatine. Un paio di figure entrarono nel mio campo visivo. Gente normale, vestita alla moda, camicia, cravatta e poncho. Uno era abbastanza maturo, mentre l'altro era più giovane, sembrava poco più che adolescente. Entrambi avevano lineamenti asiatici.
«Dai, su, prova a parlare, vedrai che non è difficile.»
«Mica male questa roba, eh? Costa cara arrabbiata, ma ogni tanto avrei la tentazione di tenermene un po' per le sere tristi...»
Di nuovo risatine.
«Che è successo? Che volete da me? Non sono ricco, avete sbagliato...» Sperai di non avere farfugliato.
Il più anziano mi interruppe.
«Stia tranquillo, sappiamo chi è. Non vogliamo niente da lei. Tranne salvarle la pelle. E lo facciamo solo per restituire il favore.»
«Che favore? Io non vi conosco nemmeno.»
Sulla sua faccia si aprì un largo sorriso.
«Non un favore che ci ha fatto lei, ma uno che ci hanno fatto altri, e che lei potrà fare ad altri. Un po' come mettere al mondo dei figli, ha presente?»
«No. Io non ho figli.»
«Però è figlio di qualcuno, e potrebbe sempre averne, no?»
Rimasi in silenzio, ma avrei voluto sfogarmi con insulti e improperi.
«Altri hanno fatto questo favore a noi, e adesso lo stiamo restituendo a lei, visto che con loro sarebbe impossibile.»
«E che favore mi state facendo? Quello di colpirmi con qualcosa e poi legarmi? Grazie tante!»
«Lei è legato perché la sostanza che le abbiamo dato a volte ha un effetto strano e la gente dà in escandescenze, ma non si preoccupi: visto che appare tranquillo la scioglieremo presto. Prima, però, dobbiamo dirle due parole mentre resta bloccato; non sarebbe bello lasciarla andare via senza aver parlato.»
Allora non gli credetti, me lo ricordo bene. Riuscivo solo ad avere paura, e a pensare a tutte le cose atroci che mi stavano per fare.
«Allora... diciamo che lei è tecnicamente morto, ma che noi la vogliamo tenere in vita, esattamente come è successo a noi in precedenza.» Il cinese si mise seduto vicino ai miei piedi, con un atteggiamento comprensivo e rassicurante.
«Le sono mai giunte all'orecchio voci sulla GPM?»
«Voci ne girano su tutto, e io col mio mestiere ne sento di ogni genere... che tipo di voci?» La testa mi si stava schiarendo, stavo tornando a ragionare.
«Voci sul modo in cui lavorano le Porte, che non è quello che la Global People Mover vorrebbe far credere.»
«Sì, ho sentito qualcosa, lo ammetto.» Mi prese un brivido. Non sarà toccato proprio a me?
«Non bisogna dar credito alle voci, di solito, ma stavolta è tutto vero, e noi, lei compreso, ne siamo la prova.»
«Mi state mettendo alla prova? Siete della GPM?»
Per tutta risposta il cinese con più anni sulle spalle si voltò verso qualcuno che non riuscivo a vedere.
«È già iniziata?»
«Sì, Chen, quando vuoi.»
«Accendi.»
Una voce si diffuse tra gli scaffali. Si capiva che veniva da un altoparlante economico, del tipo usato delle radioline da quattro soldi.
«...È stata approvata solo da pochi giorni. Abbiamo qui con noi l'onorevole Mustafah, del P.U.C., per parlarne coi nostri ascoltatori, che ricordo possono telefonare al numero verde...»
Ci misi un po', in effetti, poi riconobbi quella voce. Era la mia.
«...Ci sono molte polemiche su questo provvedimento, onorevole. Alcuni sostengono che una vera liberalizzazione del mercato delle Porte non ci sia stata, perché la nuova società che affiancherà la GPM nell'attività più importante e lucrosa del nostro tempo, ossia il teletrasporto di passeggeri, di fatto mantiene stretti rapporti formali con la GPM stessa. I movimenti più estremistici ritengono addirittura che la nuova società dipenda in tutto e per tutto dalla GPM. Voi della maggioranza come rispondete a queste critiche?»
«Si tratta di voci assolutamente infondate. Una commissione apposita ha studiato il caso, come ricorderà, per almeno 6 mesi, e non sono emerse evidenze di collegamenti, palesi od occulti, tra le due società. Il fatto è che il nostro governo sta lavorando così bene che all'opposizione non resta che attaccarsi a simili fantasie infantili. Quanto ai movimenti da lei citati, insomma, su, siamo seri. Quelli sono sempre stati contrari a tutto e a tutti, sono solo dei facinorosi che non sanno nemmeno di cosa stiano parlando! È solo lo sfogo disperato di chi ha perso le proprie certezze e si aggrappa al passato di fronte al nuovo che avanza.»
«E cosa ne pensa dell'inchiesta avviata dalla procura di Bologna sulle presunte pratiche illegali della GPM?»
«Solo un atto dovuto. Noi abbiamo la certezza...»
Non seppi mai di cosa fosse certo l'onorevole. Non che me ne importasse molto. La radio venne spenta.
«Questa era la trasmissione che dovevo fare stamani. L'avete registrata. Quella droga toglie anche la memoria? Non ricordo di averla fatta.»
Il cinese, ora sapevo che si chiamava Chen, mi stava fissando.
«Questa trasmissione è in diretta. Lei sta intervistando l'onorevole.»
Mi sentii svuotare dentro.
«Non ci credo, mi state ingannando per qualche scopo.»
«Forse non abbiamo modo di provarglielo, qui e adesso. Ma prima o poi dovrà accettare la realtà. Meglio prima. In ogni caso io posso solo spiegarle cosa è successo, cosa può fare e cosa le suggeriamo.»
Ricambiai il suo sguardo cercando di mostrarmi sicuro di me, ma non so se ci riuscii.
«Come le ripeto, lei è tecnicamente morto. Le voci che di certo ha sentito sono assolutamente vere, e quel che dice il suo onorevole assolutamente falso. La GPM sta prendendo in giro mezzo mondo da anni, e ormai è diventata troppo potente perché qualcuno, anche tra i politici, le si metta contro. Ci pensi un attimo: cosa si sa, in giro, del teletrasporto?»
Ci misi un attimo a capire che aspettava la mia risposta.
«Beh... si sa che funziona, che è economico, che ha risolto tanti problemi di traffico e di inquinamento.»
«Sì, certo, questo è evidente, ma come funziona?»
«Mah, che ne so! Non sono un tecnico, so che ti trasmettono via radio, o qualcosa di simile. Ti trasportano da un luogo all'altro in maniera istantanea.»
«Non è esattamente così. Noi ci siamo informati, e ci è anche costato caro trovare qualche scampolo di verità. Ciò che abbiamo scoperto è che non è vero che le persone vengano veramente «trasportate». Piuttosto, tutto funziona come un taglia e incolla su un computer. Le persone vengono copiate tramite la loro funzione d'onda, da un luogo ad un altro. Ma l'intero processo produce due copie della stessa persona.»
«Sono leggende metropolitane...»
«Non voglio che lei mi creda subito. Vedrà coi suoi occhi. Segua solo un attimo il mio ragionamento, però. Se fosse vero, se le porte funzionassero così, dove sono i doppioni, che fine fanno?»
«Non ci sono doppioni in giro.»
«Si sbaglia di nuovo. Ce ne sono eccome. Ma certo, non tutte le volte che uno entra in una porta si crea un doppione. E allora, dove li metteranno, le copie di scarto? Ci pensi, è facile.»
Ci fu silenzio totale per un paio di secondi.
«Le distruggono.»
La sua espressione, a questo punto, era la cosa più paurosa. Era tremendamente serio, e sembrava assolutamente sincero e convinto di quel che diceva. Riprese a parlare dopo una breve pausa.
«Non sappiamo esattamente come vengano distrutte, non lo abbiamo scoperto. Forse le vaporizzano, o si disfanno della materia organica nelle fogne, o come concime per coltivazioni biologiche. Quel che sappiamo per certo è che ogni tanto, come in tutte le macchine costruite dagli uomini, qualcosa non funziona. La copia non viene distrutta in automatico. Per questo ci sono le guardie ad ogni porta, cosa credeva? In questi rari casi, la guardia ha l'incarico di fermare il soggetto, la brutta copia, e di condurlo in una struttura specializzata della GPM. Tutto qui. Nemmeno le guardie sanno cosa stanno facendo. La struttura specializzata è nota alla sicurezza come "Unità S". Noi pensiamo che quella S stia per "soppressione". I doppioni ci sono.»
Mentre finiva di parlare, entrarono sotto la luce della lampada altre due persone. Feci un rapido confronto. Erano identiche a Chen e al ragazzo che era rimasto zitto per tutto il tempo.
«Perché mi volete convincere? Anche il trucchetto ad effetto con dei gemelli... cosa volete da me?
«Niente, signor Poggioli, niente. Non vogliamo nemmeno che ci creda. Le stiamo solo dando una possibilità di sopravvivere. E di unirsi a noi. Ora forse possiamo liberarla dall'incomodo.»
I due gemelli più giovani si chinarono su di me. Per un attimo fui preda del terrore più puro, poi mi accorsi che stavano solo sciogliendo le funi che mi bloccavano i movimenti. Nel giro di poco fui libero, e mi misi a sedere sul letto. I miei rapitori si scostarono, e mi tirai in piedi. Chen prese di nuovo la parola.
«Siamo esseri umani, no? In quello che facciamo non c'è niente di perfetto. Nemmeno in quello che fa la GPM. Gli incidenti accadono molto più spesso di quanto si pensi, forse anche più spesso di quanto la GPM voglia e abbia sperato. Ogni tanto, qualcuno sfugge alle guardie. Ma la GPM non può lasciarlo in giro. Lei è stato fortunato. Spesso le «lepri», come li chiamano nelle unità specializzate, vengono prese entro pochi minuti. Stavolta noi siamo arrivati prima, ma non succede spesso quanto vorremmo. Quando non ce la facciamo ad essere i primi, le unità di caccia prendono la lepre e la portano all'unità S.»
Stavo studiando il modo di colpire almeno un paio di loro, velocemente, e poi fuggire nella confusione. Per la prima volta prese la parola uno dei gemelli giovani.
«Io sono un incidente, e anche il signor Chen. A me è successo da poco. Tre giorni fa ero su quel lettino, al suo posto.»
Chen si riprese la parola, mentre non trovavo il coraggio di agire.
«C'è stato uno tra di noi, il primo, che dopo esser fortunosamente scampato alle guardie e alle unità di caccia ha deciso di aiutare gli altri nelle sue condizioni. Col tempo siamo cresciuti di numero, e ci siamo organizzati. Oggi riusciamo a salvare quasi il cinquanta per cento delle lepri. Siamo anche riusciti a nascondere la nostra esistenza come organizzazione, e sempre più spesso riusciamo non solo a salvare, ma anche a nascondere l'esistenza dei «doppioni», che noi preferiamo chiamare gemelli. Ma veniamo a lei.»
Mi resi conto che non lo stavo guardando, proprio perché mi voltai a fissarlo nuovamente negli occhi.
«Lei adesso sa, almeno a grandi linee. Noi abbiamo deciso di non forzare nessuno di quelli che riusciamo a salvare. Lei può decidere. Se vuole unirsi a noi, le possiamo offrire varie possibilità. Possiamo far credere che sia morto, e fornirle una nuova identità. Possiamo metterla in contatto con il suo gemello, come ho fatto io col mio e Huan col suo.» Indicò il ragazzo più giovane. «Di solito il gemello non crea problemi, e anzi si riesce a stabilire un rapporto di collaborazione a tutto campo. È anche vero che qualche volta le cose non sono così semplici. In ogni caso lei non è obbligato ad unirsi a noi. Se lo vuole, è libero; può uscire di qui e affrontare le cose da solo. E se cambierà idea, in futuro, le daremo modo di contattarci di nuovo.»
«Dice sul serio? Se ve lo chiedo, mi lasciate andare?»
Era la paura che parlava. Quel giorno ho scoperto di essere più vigliacco di quanto abbia sempre creduto.
«Certo. Non capita spesso, ma se capita lasciamo libero chi lo richiede.»
«Allora ve lo chiedo subito, eccome! Non so perché mi abbiate fatto questo, ma ne voglio uscire subito! Voglio essere lasciato libero!»
«È sicuro, ce lo conferma?»
Confesso che la mia risposta fu una bestemmia seguita da un sì. Chen mi valutò solo un attimo, freddamente, poi alzò la mano e fece un cenno. È l'ultima immagine che mi ricordo.

Questa volta riconobbi i sintomi. Anche se non ero veramente cosciente, istintivamente sapevo cosa mi stava accadendo. Stavo bene, ero di nuovo nel posto più bello del mondo. Anzi, il mondo era il posto più bello. Anche se non particolarmente stabile. Se me lo fanno un'altra volta, non ne potrò più fare a meno... pensai confusamente.
Nel ritorno alla realtà fui più cauto della volta precedente. Mi resi conto che mi stavo muovendo, ma non capivo dove fossi. Aspettai un po' ad aprire gli occhi, e quando lo feci li socchiusi solamente. C'era la luce del sole, vidi sedili scuri e plastiche chiare... Oh, no, uno stupido taxi... Un'idea mi illuminò di comprensione e speranza. Mi sono sognato tutto. E anche a lungo! Infatti era giorno pieno, tarda mattina, ormai. Immaginai che il taxi avesse sbagliato itinerario, e di aver continuato a dormire. Mi tirai un po' su e riuscii finalmente a focalizzare l'esterno del taxi; mi resi conto di essere in aperta campagna. Questa volta faccio causa alla compagnia! Mi ha portato fuori del mondo, mentre dormivo.
Fu allora che mi accorsi di due cose. Una, per puro ragionamento. Se mi ero sognato tutto, come potevo risentire degli effetti della droga in questo risveglio, il quarto di questa giornata folle? La seconda, usando meglio gli occhi. Davanti a me, sul parabrezza, c'era un biglietto adesivo; poche lettere scritte con un lapis. Fatti vedere al bar di via Cavour, se ci ripensi.
Non era stato un sogno.
Staccai il biglietto, me lo misi in tasca e guardai la strada; era sterrata, stretta e polverosa. Intorno campi di mais, e poco oltre qualche collina coperta di vegetazione scura.
«Taxi!»
«Desidera, signore?»
«Dove siamo?»
«Località anonima, signore; coordinate: latitudine...»
«Taxi, lascia stare, mi puoi portare a casa?»
«Indirizzo, signore?»
«Via Ruberti, 112.»
«Quale città, signore?»
«Firenze.»
«Sì, signore, posso portarla a casa. Tempo previsto, due ore e trentasette minuti.»
Restai un attimo in silenzio, ammutolito dalla notizia. Poi capii che senza un mio sollecito il taxi considerava finita la conversazione.
«Portami a casa.»
Il taxi si fermò e fece inversione ad "U".
Durante il viaggio continuai a rimuginare. Credo di aver tenuto lo sguardo fisso nel vuoto, o di aver rimirato l'interno dell'abitacolo, per la maggior pare del tempo. Infatti non ricordo molto dei luoghi che attraversai: conservo solo vaghe immagini di campagna, qualche casa, boschi e paesini il cui nome non mi diceva niente. Ero sconvolto, il mio mondo era cambiato troppo all'improvviso, avevo appena scoperto che poteva capitare anche a me.
Le voci si possono sintetizzare a piacimento. Hanno imitato la mia e quella di Mustafah. Poi hanno preso due coppie di gemelli. Quello che non capivo era il motivo. Che scopo potevano avere? Poi in un attimo lo trovai, un buon motivo, e mi stupii di non averci pensato prima. Perché tu alla radio sei seguito da tantissime persone, e ti volevano convincere delle loro fandonie per attaccare la GPM, sciocco!
Sui movimenti di protesta si diceva di tutto. Contro la GPM erano stati fatti piccoli attentati, atti di vandalismo e persino un rapimento ai danni di un loro dirigente. Quelli erano capaci di tutto, e mi era andata bene a cavarmela così. Forse avevano pensato che fosse più facile convincermi, lasciandomi andare, ma li avevo fregati.
L'abitacolo del taxi aveva l'odore di mille passeggeri, il cielo era azzurro e il sole splendeva forte. Tutto era come sempre, tutto normale, stavo tornando al mio mondo. Che non era certo cambiato per colpa di quei quattro fanatici. Iniziai a sentirmi meglio, ero certo che ormai il peggio fosse passato. Pensai che avrei dovuto andare dai Carabinieri e denunciare la cosa, ma non me la sentivo di affrontare anche questa prova, che poi sarebbe assomigliata fin troppo a quella appena passata. Avevo solo voglia di tornare a casa, chiudermi dietro tutto e ritrovare un minimo di pace. Ci avrei pensato dopo, alla denuncia.
Chissà che farà, Elena.
Dio come mi mancava. Chissà se si era accorta che mi era successo qualcosa, chissà se mi pensava anche lei. In tanti anni insieme, era sempre stata il mio porto sicuro, il mio rifugio. Lei era deliziata di esserlo. Quando le cose andavano male, lei aveva sempre la parola giusta, il sorriso risolutore, la pazienza dell'amore. Era facile amarla, era difficile anche solo pensare di vivere senza di lei.
Mentre me la vedevo davanti, il taxi si immise su uno svincolo e entrò in una strada a quattro corsie. Ero nella Valdelsa, non avrei saputo dire dove. Vidi solo il cartello «Firenze», e mi sentii veramente a casa.

Quando si fermò davanti a casa mia, il taxi disse semplicemente:
«Signore, siamo arrivati, può scendere.»
Stupido taxi, certo che siamo arrivati, riconosco casa mia!
Cercai di pagare, ma la voce sintetica mi disse semplicemente:
"La corsa è già pagata, signore, grazie."
Mi proiettai allora verso il portone e su per le scale. Faceva un gran caldo, fuori, e il primo pomeriggio della tarda estate non invitava certo a stare su un marciapiede; ma non fu solo per quello che salii le scale di corsa.
Arrivato alla porta di casa aprii piano e entrai cercando di non farmi sentire. Non so perché lo feci, fu un misto di rispetto per la sacralità del «nido» e di voglia di arrivare da Elena di sorpresa, per abbracciarla e ritrovare in lei la mia intimità così brutalmente violata. Elena non era in sala, e nemmeno in cucina. Andai allora verso la camera, sperando di trovarla a letto come l'avevo lasciata. Mi affacciai silenziosamente e, nella penombra delle tapparelle abbassate, la vidi distesa sul letto, nuda.
Non era sola.
Un uomo era di fronte a lei, una mano sul suo fianco scoperto. Era nudo anche lui, aveva la pelle chiara e russava leggermente. Dormivano assieme, di pomeriggio, come tante volte avevamo fatto noi d'estate.
Se avessi potuto, avrei urlato. Ma non potevo, il mio petto e la mia gola erano di pietra. Un dolore intenso, fisico, mi strappava il cuore. Ebbi paura di sentirmi male.

Ho sempre odiato vomitare, è la sensazione più brutta che abbia mai provato. Quelli furono i peggiori conati della mia vita. Non avevo niente sullo stomaco, ero a digiuno dalla sera precedente, ma non potevo fare a meno di contrarmi in spasimi dolorosi.
Chino sulla tazza del water, cercavo disperatamente di non fare rumore. Quando finì quella tortura, ero disfatto. Nel torpore annebbiato che seguì, iniziai a ritrovare un briciolo di ragione, e questo non fece che peggiorare la mia condizione.
Mi sedetti in terra, appoggiandomi al muro, e finalmente riuscii a piangere. Era troppo in un solo giorno. Prima il rapimento di quei terroristi o quel che diavolo erano, e poi scoprire il tradimento dell'unica persona che mi era sempre stata vicina.
Elena, Elena...
Vedevo i suoi occhi nei miei mentre facevamo l'amore, sentivo il suo odore mentre la tenevo sottobraccio passeggiando, avvertivo la sua presenza calda e morbida accanto a me nel letto durante la notte. Non avevo più certezze, non avevo più niente.
Proprio allora la porta del bagno si aprì, ed entrò. Aveva messo gli slip, quelli neri tutti pizzi e ricami che mi piacevano tanto, e solo quelli. Come mi vide sussultò e si portò una mano alla bocca, soffocando un grido. La guardai da sotto in su; dovevo avere un aspetto orribile, e l'odore acre delle poche gocce di vomito che ero riuscito ad espellere parlava per me.
«Elena, perché?»
Fece per aprire bocca ma la interruppi.
«Perché farmi questo? Che problema c'era tra di noi? Stavamo bene. E poi me lo potevi dire che c'era un altro, io avrei capito, io avrei accettato, ci siamo sempre detti tutto, anche quella volta che mi ero preso una cotta per quella collega, anche quella volta che...»
«No, tesoro, no, non è come credi, non ci capisco niente nemmeno io...»
«Lo immagino che non ci capisci niente, lo so com'è, ci si sente confusi, si pensa anche all'altra persona, sembra importante, ma non dovevi fare così, non dovevi fare così!»
Stavo iniziando ad alzare la voce.
«Amore, ti prego, lasciami parlare, cerca di capire...»
«Capire cosa, eh? Che ti sei innamorata? Che non hai avuto il coraggio di dirmi niente per non ferirmi? Cosa vuoi che ci sia da capire? Sei stata una vigliacca, mi hai fatto una vigliaccata!»
Oramai stavo quasi urlando. Sfogavo con lei tutta la rabbia e la frustrazione dell'intera giornata, e adesso devo ammettere che forse ero io che mi sentivo un vigliacco, e mi vergognavo.
«Sempre fedele, sempre presente. Chi lo avrebbe mai detto? E pensare che la scorsa settimana ho passato una sera intera a consolare Roberto, ricordi? Lasciato dalla moglie, tutto il tempo a sfogarsi con me. E io lì, per aiutarlo, ma intanto pensavo poveraccio, sono cose che succedono. Meno male che Elena questo non me lo farà mai. Che fesso, che idiota! Dovevo saperlo, dovevo dare retta agli amici, voi donne siete tutte uguali, tutte!»
Dietro di lei sentii dei passi pesanti, piedi nudi sul pavimento. Il suo amante le arrivò alle spalle di corsa, con un oggetto in mano. Sembrava pronto a tutto. Lo vidi bene, stavolta, alla luce della lampada del bagno. E dovetti subito chinarmi avanti di nuovo in preda al vomito.
Avrei voluto urlare il mio «No!» in modo che si sentisse fino in capo al mondo, invece non potei fare altro che cercare di respirare tra una convulsione e l'altra.
Elena non mi aveva tradito, nemmeno questa volta.
Elena era a letto con me.

Ho scritto queste poche pagine più in fretta che ho potuto, quando mi sono reso conto che dovevo lasciare un documento della mia esperienza e non avevo molto tempo. Appena finito, stamperò tutto e lo lascerò al bar di via Cavour.
È strano come cambino le cose. Quando ho conosciuto i Gemelli per la prima volta, ne avevo un terrore folle. E invece, se non fosse stato per loro non avrei mai superato i momenti terribili dopo l'incontro col mio doppio. Grazie a loro sono un uomo nuovo, e non mi sento più un vigliacco.
È stato difficile, all'inizio. Accettare il mio gemello, capire che nessuno dei due poteva rivendicare nulla di più dell'altro sulla sua vita precedente. La cosa più difficile è stata trovare un compromesso con Elena. Lei ci ama alla stessa maniera perché sa benissimo che siamo la stessa persona, quella persona alla quale lei ha giurato una fedeltà e una dedizione che ha mantenuto per così tanti anni e che non è per niente disposta ad interrompere.
Poiché non voleva perdere nessuno dei due, alla fine abbiamo instaurato un menage a trois, che funziona pienamente. In fin dei conti, non è un vero triangolo. Lei ci cura alla stessa maniera, ci ama ed è felice di averci. Solo ogni tanto colgo un'ombra nei suoi occhi, che viene sempre spazzata via da un sorriso quando vede che la osservo.
Il mio gemello la guarda come la guardo io, ma non sono geloso. Anzi, in questo modo riesco a dedicarmi a lei molto di più. Con lui ci siamo divisi i compiti, e passiamo lunghe ore a parlare, da soli o con lei. È bello avere una persona vicina che condivide tutto quello che pensi e che provi. È bello poter dividere in due ogni fatica, e avere quattro occhi e quattro mani per fare ogni cosa. Anche per la missione abbiamo tirato a sorte, e nessuno sa chi dei due si appresti a compierla.
Quando la mia radio è riuscita ad ottenere un'intervista al presidente della GPM, in visita per qualche giorno in Italia, noi Gemelli abbiamo studiato un piano.
Ripenso alla paura che avevo per la macchinetta che mi ha stordito due volte, quel giorno. Adesso ne ho una tra le mani: piccola, impossibile da rilevare con gli scanner. Caricarla questa volta ci è costato molto di più del solito. Ma ne valeva la pena.
Quando, durante l'intervista, colpirò l'uomo della GPM, lui non si accorgerà di niente, e nemmeno gli altri. Nel giro di poco, però, "mister president" sentirà dentro di sé una voglia pazza di dire solo la verità, tutta la verità. E io sarò lì a porre domande. Non le solite domande di cortesia.
I gemelli che abbiamo potuto piazzare faranno di tutto perché la trasmissione non venga interrotta.
Se tutto va bene, mezza Italia sarà informata della verità direttamente dalla bocca dell'uomo simbolo del teletrasporto. E con mezza Italia informata, tutto il mondo dovrebbe sapere presto. Ci saranno disordini, forse, ci saranno assalti alle Porte. Ma non ci saranno più lepri, non ci saranno più soppressioni. I gemelli avranno il diritto di vivere come tutti.
Ho fiducia nel nostro successo. Siamo tanti. Siamo il doppio.
Gemelli di tutto il mondo, unitevi.


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