L'assicurazione dell'auto mi scadeva il 25 maggio e perciò il 24, che era lunedì, avevo preso un'ora di permesso, per arrivare all'agenzia di Largo Pannonia con tutta calma e senza difficoltà.
Poiché detesto i problemi di traffico, parcheggio e disordine vario, cerco di organizzarmi sempre con largo margine di tempo, così uscii dall'ufficio alle 17 e cinque minuti, ben consapevole di avere quasi un'ora e trenta di manovra (l'agenzia chiudeva alle 18 e 30) e più che sicuro di poter rispettare l'appuntamento che avevo dopo con Gina, ai parcheggi della Metro San Paolo, alle 19.

* * *

È la tranquillità che dà valore e dignità all'esistenza di un uomo. Fare le cose con l'armatura inattaccabile di tutto il tempo che mi può servire – il tempo logico più il tempo illogico riservato alle avversità - fa si che mentre gli altri si fronteggiano e si sbranano su strade asfaltate e scolorite strisce pedonali, io possa scuotere con sacrosanta disapprovazione la mia testa grigia e anche provare, di fronte agli errori più grossolani dei maldestri, una paterna ed indulgente simpatia.
Di questa indulgenza mi sentivo ricco, alle 18 e 4 minuti del 24 maggio 1999, dopo essere passato per casa ed essermi lavato il viso e i denti e dopo aver trovato parcheggio ad un minuto di distanza dall'agenzia assicurativa di Largo Pannonia; il tempo mite, il cielo sereno, la luce del sole e l'idea di una cena che avrei passato in buona compagnia.
Di questa indulgenza mi sentivo ricco e una signora anziana mi dice: «Scusi, che mi potrebbe fare un piccolo piacere?»
In realtà, io non ho capito cosa ha detto la signora. Abito a Roma, dove si viene fermati in continuazione da persone che chiedono soldi, quindi in realtà ho sentito qualcosa come «Scusi, che mi potrebbe dare qualche cosa?», e di conseguenza sorrido, non interrompo il passo e meccanicamente dico: «No, mi dispiace.»
«È che co' 'ste gambe non riesco proprio a camminare», continua la signora, e realizzo che è molto bassa, anziana, con le gambe grosse e pesanti e che si trova in evidente difficoltà. Mi viene anche in mente mia nonna, che però è morta da tanti anni ed è sempre stata robusta e attiva fino all'ultimo giorno, tuttavia mi viene in mente, per cui comprendo che la signora prima mi ha detto:
«Scusi, che mi potrebbe fare un piccolo piacere?», guardo la porta dell'agenzia assicurativa a pochi metri di distanza, consulto l'orologio che segna le 18 e 5 minuti, e mi fermo.
«Cosa è successo? Le serve aiuto?», chiedo con gentilezza. Ho 25 minuti a disposizione.
«Che mi può accompagnare dal medico, qua dietro? Ci ho appuntamento adesso, che mi deve visitare, ma co' 'ste gambe non riesco a camminare.»
In effetti dondola sul posto, incapace di andare avanti e indietro, senza bastone ma in cerca di un appoggio che non trova. Alla fine della frase la sua voce prende anche una intonazione lamentosa, quasi di pianto, ed ha tirato fuori un fazzoletto con il quale si deterge il viso e forse anche un accenno di lacrima pietosa.
«Mi dispiace, ma devo pagare l'assicurazione», sono costretto a dire.
«Altrimenti mi chiude e non faccio in tempo.»
Lei mi guarda come se avessi detto una cosa poca ragionevole e mi chiede: «Ma lei ce l'ha la macchina?»
«Sì, ce l'ho, ma non è parcheggiata qui di fronte. Ci metto troppo ad andare a prenderla, poi non faccio in tempo a pagare l'assicurazione.»
«Ma se si sbriga, prende la macchina e in cinque minuti abbiamo fatto. Lo studio medico sta proprio qui dietro, non ci vuole niente. Ci devo andare perché il medico mi deve fare le analisi e riceve solo il lunedì. Se non ci vado come faccio... Questo è convenzionato, non posso andare da un altro», la sua voce comincia nuovamente ad incrinarsi. «È che devo fare questa cura per le gambe, che non riesco proprio a camminare più.»
Discutere richiede troppo tempo, la signora è anziana e ragiona in modo anziano, per cui decido di tagliare corto e dico: «Va bene, vado a prendere la macchina. Lei non si muova e mi aspetti qui.»
«Si sbrighi», sento, mentre mi affretto a tornare dove ho parcheggiato, ed immediatamente mi pento di aver deciso di darle una mano.
Si sbrighi? Cosa voleva dire quel si sbrighi? Porca pupazza, mi sbrigo si, che mi sbrigo, ma solo perché devo pagare la mia assicurazione! Anzi, mi faccio una corsetta pure.
Quanto ci avrò messo? Mezzo minuto? Salgo in macchina con un leggero affanno e metto in moto. Esco di retromarcia dal parcheggio, facendo appena una sgommatina. Prima seconda e terza marcia; fermo di fianco al marciapiede, proprio di fronte all'agenzia.
La vecchina dalle gambe gonfie è rimasta esattamente dove si trovava, tra me e l'ingresso della mia assicurazione. Scendo dall'auto determinato a sistemare la faccenda in pochi minuti.
«Venga, l'aiuto a salire in macchina», dico, mentre le apro la portiera di destra. «Ce la fa a salire da sola?»
«Sì, sì. Un momento», afferma. Sale con qualche contorsione e parecchi aggiustamenti, ma sale.
Quando si è sistemata, chiudo lo sportello dicendole: «Attenzione che chiudo», quindi raggiungo il lato sinistro e mi siedo al posto di guida.
«Allora, me lo dice lei, dov'è che devo andare», puntualizzo, sistemando la cintura di sicurezza con efficienza e determinazione.
Lei annuisce e punta il braccio destro verso il parabrezza. «Sì, deve girare a destra proprio in quella strada, lì di fronte, e dopo a destra di nuovo... È proprio qui dietro, in via Gallia. Cinque minuti.»
Cinque minuti. Siamo sul filo delle 18 e 15 minuti, penso, e imbocco la prima stradina a destra, a senso unico, per ritrovarmi subito, effettivamente, nella più grande e trafficata via Gallia.
«Ecco, un po' più avanti... Dove sono quei secchioni della spazzatura», mi guida la vecchina. «Sì qui, un po' più avanti. Lo vede quel portone? È lo studio medico. Io abito vicino, qui dietro... Lei accosti qui, che è più vicino al marciapiede, così mi aiuta a scendere, che io co' 'ste gambe, da sola non ce la faccio proprio.»
Accosto più che posso tra il cassettone della spazzatura e una vettura parcheggiata, quanto basta per poter aprire lo sportello di destra e fare scendere la signora anziana senza problemi.
«Ecco, sì, bravo... Mi aiuti col braccio», dice la signora, aggrappandosi al mio braccio e tirandosi fuori con fatica. «Basta che mi accompagna fino al portone, poi c'è il portiere, lo vede? Mi ci porta lui allo studio medico. Il dottore mi guarda le analisi e me ne posso andare. Così lei mi viene a riprendere e mi riaccompagna a casa.»
Stiamo facendo il piccolo tragitto dalla mia macchina al portone dello studio medico a passettini incerti e progressivi. Io ascolto quello che dice la vecchina e l'espressione «mi viene a riprendere e mi riaccompagna a casa» è palesemente assurda, ma contemporaneamente guardo il portiere, che ci sta guardando a sua volta, e penso a quanti minuti mi sono rimasti a disposizione.
«Non posso venire a riprenderla», dico comunque. «Ho appuntamento con una signora alla metro San Paolo e non posso farla aspettare.»
«Ma io abito qui dietro, proprio vicino... Io co' 'ste gambe non ce la faccio a tornare da sola. Co' la macchina sua ci vogliono cinque minuti solamente...
Quando il medico ha finito, l'aspetto qui, insieme al portiere, così mi riaccompagna a casa lei.»
Adesso stiamo proprio esagerando, penso, mentre nella mia testa ho la rappresentazione mentale di una lancetta dei secondi che continua a girare.
Comunque abbiamo raggiunto il portiere e dico alla signora: «Va bene, se posso vengo a riprenderla e l'accompagno a casa», mentre al portiere dico: «Senta, questa signora dice che ha un appuntamento allo studio medico. La può accompagnare lei dentro, per favore? Io le ho dato un passaggio, ma adesso devo proprio andare via.»
Il portiere annuisce e dice che va bene, mentre la vecchina lo saluta con una certa familiarità e dice che io sono una persona tanto per bene. Non ho altro tempo e mi sbrigo a salire in auto, ma mentre apro lo sportello sento lei che dice: «Allora io l'aspetto qui, eh?»
Sì, aspetta, aspetta, penso, con un bel po' di sarcasmo e di risentimento più che giustificato, ma le sorrido educatamente ed annuisco persino, quindi mi ributto nella strada fortunatamente poco trafficata, con l'orologio che segna le 18 e 18 minuti.
Giro alla prima a destra e dopo una viuzza scema giro di nuovo a destra. Sono tornato nella piazza in cui si trova l'assicurazione, grazie a tutti i santi ed al Signore, e un po' più avanti trovo persino un posto dove parcheggiare.
Il mio orologio segna le 18 e 21, ma forse è avanti di un minuto buono.
Mentre entro nell'agenzia assicurativa di Largo Pannonia, un orologio appeso alla parete più larga sta per segnare le 18 e 22.

* * *

Fatto. Finito. L'impiegato ha trovato sul computer la mia pratica, ha stampato il bollettino assicurativo, si è preso l'assegno e io sono fuori, al sole dei giusti, alle 18 e 26. Persino l'aria, sembra più pulita di com'era prima.
Bene, ora si tratta di andare alla stazione di San Paolo, da Gina
Chissà che fine ha fatto la vecchina, mi viene da pensare, mentre raggiungo con passo disinvolto la mia macchina. Magari adesso sta per uscire dallo studio del dottore, e apro lo sportello. Oppure è uscita e mi aspetta insieme a quel portiere, e metto in moto. È uscita ed è rimasta sola, la macchina si muove.
È uscita, è sola, si guarda intorno, non ci vede bene, cerca un appoggio zoppicando e sono soltanto le 18 e 33.
«È ancora presto», dico all'ambiente circostante, per giustificare il fatto che invece di andare verso San Paolo sto andando verso la via dello studio medico convenzionato. Tanto, per andare alla stazione ci vorrà sì è no un quarto d'ora, penso, e Gina, poi, non è mai stata puntuale in vita sua.
Rieccola: la sensazione che ci sia improvvisamente troppo traffico, che le vetture si muovano troppo poco, che ci sia un semaforo scassato, da qualche parte, o qualche cosa che non funziona. Dai, dai, muoviamoci! Adrenalina, irritazione, molta impazienza e voglia di pena capitale. Il tempo si materializza in una successione di tangibili secondi, disposti come una striscia di scacchi sopra l'asfalto che devo percorrere e attraversare.
Ecco lo studio medico. Sul marciapiede non si vede nessuno. Cioè c'è gente, ma non la vecchina. D'altronde con questi occhiali spessi da miope non è che io veda proprio bene.
Accosto e scendo. Il portiere di prima sta trafficando con un citofono probabilmente scassato.
«Mi scusi», chiedo, «Per caso ha visto una signora anziana che io...»
«Sto qua, sto qua», sento precisare alle mie spalle.
È la vecchina, che si era messa un po' in disparte, nascosta alla mia vista da chissà che cosa.
«Grazie, l'ho trovata», comunico al portiere, e invece «Eccomi, sono venuto a prenderla», dico alla dondolante signora.
«Se ne voleva andare via, eh? Non voleva venire più!», mi accusa, prendendomi completamente alla sprovvista.
Arrossisco leggermente e mi sento offeso. «Ho finito all'assicurazione e sono venuto a prenderla», chiarisco, ma lei annuisce con l'evidente espressione di chi pensa: «Sì, come no! Sai come ci credo che sei venuto subito qui.»
Comunque chiede: «La macchina dov'è?», e io dico: «Eccola», e l'accompagno a passettini ini ini fino allo sportello, per farla quindi rimontare.
«Allora, mi ha detto che la casa è qui vicino...», le ricordo, rimettendo in moto.
«Sì, sì, sta qui dietro. Glielo dico io. Lei vada avanti, ecco: deve girare a destra, a via Licia. Sì, qui... Si accosti. Ecco: deve citofonare al signor Finetti, a quel portone lì.»
Ho accostato e mi aspetto che lei scendi. Perché devo citofonare a quel portone lì?
Le chiedo: «Ma deve scendere a prenderla qualcuno? Lei abita lì?»
Scuote la testa e mi guarda con attenzione. «No, lì ci abita il signor Finetti, che è una persona tanto distinta, che lavora in banca, sa? Gli deve dire che è venuto a prendere la busta dell'olio e della camomilla...», e qui nella sua voce torna quell'intonazione piagnucolosa che mi aveva già colpito prima. «Che so' rimasta senza un goccio d'olio a casa e senza camomilla, che come faccio a prende sonno co' 'ste gambe che me danno così fastidio...»
«Ma scusi: io ho un appuntamento con una signora, che mica posso lasciare da sola alla stazione!», mi ribello, decisamente risentito per quella che sta diventando una fastidiosa situazione. «Lei mi ha detto che dovevo accompagnarla a casa: dov'è questa casa, per piacere, così l'accompagno e posso andare via?»
«Sta qui vicino, a cinque minuti. Co' la macchina non ci vuole niente. Io come faccio a portare la busta col boccione dell'olio? Che ciò 'ste gambe che me fanno male e che pe' camminà è una tribolazione...»
E che cazzo!, penso, poco educatamente, ricordando però che anche la parola "tribolazione" veniva usata da mia nonna, quando voleva sottolineare che fare una determinata cosa costava veramente delle pene esagerate.
Tagliamo corto.
«Va be'. A chi devo citofonare, ha detto?», chiedo. Come d'incanto, la sua voce smette all'instante di piagnucolare.
«Al signor Finetti. Gli dica di portare giù la busta della signora Erminia. È tanto distinto e lavora in banca. Su, vada, vada.»
Ma guarda che roba! Mi dice pure «vada, vada»!
Raggiungo il portone del palazzo e comincio a scorrere la lista dei nominativi sul citofono argentato.
Finetti, ha detto. Finetti.
Suono ad un certo Amilcare Finetti.
«Sì?», dice una voce flebile.
«Senta, mi scusi. Sono con una signora che mi ha detto che dovrebbe portare giù una sua busta... Una busta con una bottiglia d'olio.»
«Sì, la signora Erminia.»
«Sì. Può scendere è portare la busta, per favore? Io l'aspetto qui, sul portone.»
Il signor Finetti ha un momento di netta esitazione.
«Ma io non sono presentabile», mi spiega. «Sono in pantofole. Non posso scendere per strada con le pantofole.»
Questi due sono dei criminali, penso in un lampo. Sono d'accordo, si tratta di una trappola, mi fanno salire e mi rapinano di tutti i soldi e dei vestiti...
«Senta, io nemmeno la conosco, la signora. La sto accompagnando a casa per farle un piacere, ma non la conosco. Mi ha chiesto di citofonarle perché le serve la busta dell'olio e per favore la deve portare giù lei, perché io ho anche un appuntamento con una persona che mi aspetta, e non pensavo proprio di dover fare tutti questi giri.»
Breve silenzio di riflessione da parte del signor Finetti. Infine dal citofono si sente: «Va bene, allora scendo in pantofole. Mi dia un momento solo.»
E se fossero davvero degli imbroglioni? Guardo verso la macchina: lo sportello di destra è leggermente aperto, perché la vecchina vuole fare entrare dentro l'aria oppure è in attesa che l'aggiorni su quanto sta per avvenire.
Telefono a Gina. Devo avvertirla, anche come eventuale testimone, di che sto combinando e che potrei tardare.
«Pronto, Gina? Senti, mi sta capitando una cosa abbastanza strana. Ho dato un passaggio a una vecchietta, che era in difficoltà, e ora mi sta praticamente tenendo in ostaggio... Sì, sto aspettando un tizio che gli deve dare una busta con dell'olio e poi dovrei portarla a casa... Sì, dice che abita qui vicino, io spero, poi vengo subito da te, a San Paolo... Tu hai la macchina? Va bene, scusami. Sì, poi ti racconto... Aspettami in macchina. Io cerco di sbrigarmi prima che posso.»
Splendida Gina. Neanche una osservazione. Ha detto che non c'è problema e che
mi aspetta in auto. «Poi mi racconti i particolari», si è solo raccomandata.
Sembrava quasi divertita.
Rumore di passi, da dentro l'androne del palazzo. Lo scatto della serratura elettrica del portone d'ingresso e si affaccia un signore paffutello, con gli occhialetti e l'aria remissiva. Porta tra le braccia una busta di plastica, al quale ha fatto un vistoso nodo.
«Il signor Finetti?», chiedo. Lui annuisce, mi guarda un po' perplesso e dice: «Ho portato la busta con l'olio e un po' di odori. Dov'è la signora?»
«Sì. La signora è li, nella mia macchina. Anzi, per favore, se ci vuole parlare lei...»
Guarda senza entusiasmo verso l'Opel Corsa e forse alza un po' le sopracciglia in segno di delusione. «Ma io sono in pantofole», dice. «Non posso camminare sulla strada.»
Un altro anziano, non ancora anziano, che però ragiona d'anziano.
«Abbia pazienza», dico. «Come le ho detto, io la signora non la conosco nemmeno. Prima l'ho accompagnata dal medico, perché non poteva camminare da sola, e adesso la stavo accompagnando a casa sua. Solo che mi ha detto di citofonarle e adesso sono bloccato qui mentre mi aspetta una persona... Ci parli lei, per favore. Le dia la busta e le spieghi che io la devo riportare a casa sua... Ma ce la devo riportare subito, però, perché si sta facendo tardi... Per favore, venga un momento fino alla macchina e glielo spieghi lei.»
Assimila a fatica tutto il discorso che gli ho fatto ed annuisce senza spostare nessun accessorio della sua faccia inespressiva. «Va bene», dice, forse con un leggero sospiro di rassegnazione.
A passettini un po' più lunghi di quelli a cui mi ha abituato la vecchina, raggiungiamo finalmente lo sportello destro della mia vettura; lei gira il capo per vedere chi è arrivato ed i due anziani di spirito e di corpo si scambiano collaudate frase di saluto.
«Signora Erminia, buonasera. Come sta?», dice il signore non ancora anziano.
«Signor Finetti! Buonasera, scusi se l'ho fatta incomodare», dice invece la signora veramente anziana. «Il signor Finetti lavora in una banca, sa?», mi ripete, contenta, ed il bancario le sorride leggermente, sollevando la busta chiusa con il fiocco vistoso. «Le ho portato l'olio e gli odori», dice, passando la busta di plastica dalle sue mani a quelle della vecchia, e la signora gli chiede se dentro c'è anche la camomilla che le serve per andare a
dormire.
«Veramente, la camomilla no, non gliel'ho presa. Non me lo aveva detto, mi pare... Aveva detto di portarle soltanto l'olio e gli odori», attacca il portatore di buste, ed è evidente come un'orticaria che il problema della camomilla rischia di protrarre parecchio la conversazione.
«Adesso dovremmo proprio andare a casa sua, signora», intervengo, deciso. «Per favore, glielo dica anche lei.»
Il bancario annuisce, sembra d'accordo. «Eh si, signora Erminia. Adesso devo salire a casa anch'io. Sono sceso per strada ancora in pantofole, vede? Devo tornare a casa e prepararmi per la cena.»
Anche la vecchina annuisce, anche lei improvvisamente d'accordo. «Oh sì, ha ragione, mi scusi. Che l'ho disturbata a scendere e chissà quanto ha da fare...»
Lui, avrebbe da fare? penso, punto sul vivo, ma il bancario minimizza, modesto, saluta frettolosamente ed è già via prima che io possa protestare.
Mentre rimetto in moto la macchina, la vecchina insiste ancora: «È tanto una brava persona... Lavora in banca e chissà le cose che deve fare!»
Capisco che è perfettamente inutile, ma dico: «Se permette, anch'io avrei diverse cose da fare. Mi dica dove abita, adesso, e ce la porto subito, per favore.»
Ma non mi ascolta. Ha aperto la busta e la sua mente ora è occupata in altre dolorose riflessioni.
«E adesso come faccio senza la camomilla? Non ci ho più niente, a casa: prima mancava l'olio, poi so' finiti gli odori... E senza la camomilla come faccio ad addormentarmi, che ci ho ste' gambe che me fanno male e non me fanno chiude un occhio la notte intera...»
«Signora», insisto, «Mi deve dire dove si trova casa sua!»
Lei, per risposta, mi guarda con uno sguardo cristallino.
«Che mi accompagna alla Gi Esse?», dice, infine. «Così prendo la camomilla, che tanto è qui dietro.»
Non ho capito e glielo rendo noto.
«Non ho capito», dico. «Che cosa ha detto?»
«Se mi accompagna alla Gi Esse. C'è il supermercato, lì, in quella stradina. Si può entrare dentro con la macchina. Lì, vede? Dove sta quel cartello.»
Guardo in avanti e si, sopra un cartello spicca la scritta di un supermercato con una freccia rossa che punta a destra.
«Ma io devo andare alla stazione di San Paolo. C'è una signora, una donna sola che mi aspetta!»
«Sì, ma la Gi Esse è proprio qui dietro. Se scende per quella stradina siamo già arrivati. Le do mille lire e mi prende solo una scatola di camomilla, che mi serve per casa.»
Potrei buttarla fuori dalla macchina e fuggire via, ma non starebbe bene.
Secondo i canoni della mia lunga educazione repressiva, non sembra proprio che si possa fare.
Tagliamo corto, penso, un'altra volta ancora. Vado avanti una decina di metri, imbocco la stradina che mi ha detto e sbuco in un avvallamento dove si trova un grosso supermercato alimentare. In caso di leggera inondazione, mi viene spontaneo di pensare, qui moriranno tutti come topi.
«Ecco, aspetti che cerco le mille lire», dice la vecchina, cominciando a frugare in ogni dove.
«Non ha importanza. Alla camomilla ci penso io. Lei rimanga in macchina e non tocchi nulla. Io torno subito.» Come ultima raccomandazione aggiungo: «Lei non si muova.»

* * *

Sono così stupido? Sono davvero, dico, davvero così ingenuo?
Mentre cerco tra gli scaffali uno che abbia il tè e la camomilla, penso e ripenso che come sono fatto non mi piace.
Perché mi lascio incastrare in questo modo? E dagli estranei, poi, di cui conosco a malapena soltanto il nome.
Adesso, in questo momento, la mia macchina verde metallizzato, che adoro, è lasciata in balia di una perfetta sconosciuta, che forse è un'imbrogliona, sta fingendo, e non mi meraviglierebbe affatto se sparisse nel nulla insieme alla mia vettura.
Ma che potevo fare? Mandare la vecchina traballante al supermercato da sola?
Accompagnarla ed arrancare passettino passettino lungo gli spropositati corridoi? Tra l'altro quella santa donna di Gina mi sta già aspettando da un'infinità di tempo, penso, mentre faccio una breve fila per pagare il pacco più grande di camomilla che ho trovato, e quando esco dal supermercato sono già preparato al fatto che la mia macchina potrebbe essere sparita, che nella mia macchina potrebbe essere morta d'infarto la vecchina, che il finto bancario portatore d'olio potrebbe aspettarmi con un bastone o un coltello per rapinarmi oppure per farmi fuori.
«Ecco qui la sua camomilla. Le ho preso la confezione più grande che c'era», dico, invece, senza nessun colpo di scena, e: «Ah, grazie, bravo», mi risponde l'imperturbabile vecchina, che ritrovo tale e quale a come avevo lasciato poco prima.
«Che a casa m'è finito tutto e la camomilla mi serviva proprio...», aggiunge, porgendomi una sgualcitissima banconota da mille lire.
«Non si preoccupi, ci ho pensato io, gliela regalo», la informo, impugnando saldamente la chiave di accensione. «Ma adesso, per favore, andiamo a casa sua.»
Lei mi guarda, ma a dire il vero sembra pensare a tutt'altra cosa.
«Devo telefonare alla figlia di mia cognata e non ho la tessera del telefono a gettoni», dice infatti, mettendomi al corrente di quest'altra sua preoccupazione.
«Deve telefonare? E non può telefonare da casa? Ora l'accompagno a casa e così telefona a chi le pare.»
Scuote la testa. «No, perché a casa me costa più caro. Ci stanno gli scatti, invece dalla cabina del telefono che sta qui vicino, alla piazza, mi costa di meno. Solo che non ci ho la tessera, bisogna comprarla dal tabaccaio», e la sua voce si fa di nuovo lacrimosa, «Che so' rimasta senza niente, e dentro casa me manca un sacco di roba.»
«Va be', signora, ma io la devo accompagnare a casa... Le ho preso pure la camomilla, no? Adesso, per favore, io devo proprio andare via.»
«Mi presta il telefonino? Che devo chiamare la figlia di mia cognata per la casa, che forse s'è liberata. Che se non la chiamo non so se ci devo andare oppure rimango qua.»
Non ho capito nulla, ma prendo il telefonino, che ho l'abitudine di portare attaccato alla cintura.
«Va bene, solo che non c'è tanta carica, l'avverto. Cerchi di non scaricarlo completamente.»
«Ma lei ce l'ha la scheda dentro, no? Si può telefonare?»
«Sì, la scheda c'è, ma il cellulare è quasi scarico. Non si può parlare a lungo, capisce? Altrimenti si spegne e non si può usare più.»
«È che devo telefonare alla figlia di mia cognata», insiste, guardando il telefonino. Io gli chiedo il numero, lo digito sulla tastierina e mentre gli passo l'apparecchio scandisco in testa un sacco di parolacce, pieno di frustrazione.
«Pronto, sei Monica? Sì, sono Erminia. Ciao, tu stai bene? Eh, io ci ho 'ste gambe che mi fanno tribolare... T'ho telefonato per la casa... Eh, l'avete vista... Eh. Ma quanti soldi vonno?... Giovanna ha detto che ha parlato col figlio più grande e si voleva mettere d'accordo... Perché Giovanna lo sai com'è fatta, no? Anche l'altra volta, che ha detto che secondo lei non bastava... No, no che era troppo piccolo, lei diceva che era tutto rovinato...»
Non credo alle mie orecchie. Qui si fa conversazione da salotto. E meno male che doveva essere una cosa breve...
Guardo con disapprovazione la vecchina, ma lei è completamente presa dalla conversazione.
«E Tonio come sta? Lui che ne pensa?... Sì, dei soldi che bisogna dare...»
«Signora, guardi che così si scarica completamente», faccio notare, pensando tra l'altro al costo di questa telefonata senza fine. La vecchina però prosegue imperterrita, poggiando più forte il cellulare all'orecchio, per non farsi distrarre.
Ma è roba da matti, penso. E io, broccolone, che lascio che lei se ne approfitti e mi saccheggi la scheda come le pare. Dopo il passaggio dal suo medico! Dopo la sosta dal bancario! Dopo la confezione gigante di camomilla, per la quale non ha sborsato una lira sola!
«... E mo' vediamo anche quello che sta in via Acaia, che ha detto quello che vende la frutta che conosce Tonio... Coso, non mi ricordo il nome... Pronto?... Monica?...»
La vecchina scosta il telefonino dall'orecchio e lo guarda con preoccupazione.
«Che è, non funziona?», chiede.
«Si sarà scaricata la batteria. Glielo avevo detto che era quasi terminata.»
«E non ce l'ha un'altra scheda?»
«No, non si tratta della scheda coi soldi. Si è scaricata la batteria del telefonino. Era già quasi scarico, quando gliel'ho dato, e con la telefonata che ha fatto si è scaricato del tutto.»
«E lei va in giro con il telefonino quasi scarico?», mi chiede, sottintendendo il fatto che solo uno sprovveduto lo potrebbe fare.
«Scusi, sa, ma il cellulare è mio!», protesto. «Non pensavo che mi sarebbe servito così tanto e così non l'avevo messo a caricare.»
Mi guarda perplessa. «Ma io devo telefonare! Non lo può ricaricare, adesso, col coso...»
«Il carica batterie? E come faccio, in macchina? Non ce l'ho la presa con lo spinotto speciale... E poi non ho nemmeno il carica batterie, signora! Io la devo accompagnare a casa, invece. È un'ora che giriamo e io devo andare via!»
«C'è un tabaccaio, qui vicino, che vende le schede telefoniche. Se me ne prende una, poi posso telefonare dalla cabina che sta nella piazza, di fronte al tabaccaio...»
«Signora, io l'accompagno a casa e poi lei può fare quello che vuole...»
«Ma il tabaccaio è qui, che ci vuole? Cinque minuti. Che ci sta solo quella cabina del telefono, che funziona. Che io a casa non posso telefonare e ci sta Monica che ci stavo parlando, prima, e chissà che pensa che non mi ha sentita più!»
Non sopporto il modo in cui lei scivola inesorabilmente verso il pianto. E non sopporto di dover parlare con chi non sta a sentire e ragiona per conto suo.
Taglio corto, nuovamente, e spero in Dio.
«Va bene. Adesso le vado a comprare una scheda telefonica, ma poi andiamo subito a casa sua. Va bene? Siamo d'accordo, signora?»
«Va bene. Tanto a tabaccheria sta qua dietro», si gira, per indicare col braccio la direzione.
«E casa sua, dov'è?»
«Anche casa mia sta lì vicino, accanto. Deve risalire su, a via Licia, e poi girare a destra, che siamo arrivati.»
«Va be'», concedo, senza celare il mio scetticismo, e aggiungo con cattiveria: «Vediamo se è vero.»

* * *

Retromarcia, sterzata, muso puntato verso la salita, saliamo, giriamo a destra e dopo un poco giriamo di nuovo. È incredibile: siamo di nuovo in Largo Pannonia. Dove si trova la mia agenzia di assicurazioni, da cui ero uscito fuori così contento un sacco di tempo fa...
«E adesso, dove devo andare?», chiedo, con voce incolore.
«Dritto. Un po' più avanti. Ecco, di fronte al bar, lo vede? Dall'altra parte della strada.»
Vedo la tabaccheria; bisogna fare inversione. Guardo a destra e a sinistra e passo con la macchina sull'altro lato.
«Aspetti qua», mi raccomando di nuovo. Lei dice qualcosa riguardo ai soldi, ma non l'ascolto nemmeno. Entro nel negozio sapendo benissimo che i soldi li dovrò cacciare io.
«Vorrei una scheda telefonica da cinquemila lire, per favore», chiedo a una donna dall'aspetto attraente. Lei è dietro al bancone delle sigarette; un'altra ragazza più giovane è dietro al bancone delle giocate del lotto.
La donna mi risponde: «Le abbiamo finite, mi dispiace. Abbiamo soltanto quelle da diecimila lire.»
Io incasso la risposta e penso che altre diecimila lire da regalare alla vecchietta sono davvero un'ingiustizia plateale.
Non resistendo, dico: «E mi dia allora una scheda da diecimila. È incredibile quello che mi sta capitando... Anche una scheda da diecimila lire invece che da cinque... Se lo raccontassi, non ci crederebbe nessuno!»
L'ho detto per sfogarmi in qualche modo e come tutti gli animali in pericolo sento di provare una fortissima attrazione per questa donna che potrebbe salvarmi dall'estinzione, ma la signora ovviamente non capisce il mio stato d'animo e mi porge la scheda senza commenti. Penserà che sto parlando a vanvera, sicuramente, e me ne vado augurandole la buonasera.
«Ecco anche la scheda telefonica, tenga», comunico all'attuale fonte di tutti i miei problemi. «Senta, adesso la lascio alla cabina telefonica, e vado davvero via.»
Lei annuisce. «Sì, va bene, così telefono a Monica. Ma prima devo posare la busta co' l'olio e la camomilla, che casa mia tanto sta proprio qui dietro.»
Io ribatto. «Sì, però se la porto a casa poi basta, perché mi aspettano da un sacco di tempo e visto che si è scaricato il telefonino, adesso non posso nemmeno telefonare per avvertire!»
Lei annuisce di nuovo. «Sì, sì. Lasciamo solo la roba vicino all'ascensore. Ci vuole un attimo, senza salire. Lasciamo la busta vicino all'ascensore, al piano terra, e mi porta alla cabina del telefono, che così posso telefonare.»
«Scusi, ma dov'è questa cabina?», chiedo, esasperato.
«Eccola: è quella. Solo quella funziona, qua vicino...», cambia di nuovo intonazione di voce. «Che io ci ho 'ste gambe che non posso andare in giro, da un'altra parte.»
Basta, davvero basta... «Dov'è casa sua?», le chiedo.
Indica davanti e poi piega la mano a destra, dicendo: «Qui dietro.»
Parto, avanzo più o meno altri cento metri; giro una stradina a destra e quasi subito mi dice di parcheggiare.
«E dove, signora? Lo vede che è tutto pieno? Qui non c'è posto, per parcheggiare.»
«E la mette qui, no? Si fermi accanto ai cassettoni.»
Accanto ai cassettoni della spazzatura, intende. «Ma è in doppia fila! Se passa un vigile mi fa la multa e per come sono fortunato, magari me la portano pure via!»
«Ma no, la metta qui! Tanto ci vogliono cinque minuti», insiste la vecchina.
«Per cinque minuti, non gli fanno mica la multa!»
Ma che ne sa, lei, che è completamente rimbambita!, ho stampato in mente a chiare lettere, però sono in ballo e non mi resta che ballare.
Dico: «Sì, certamente! Tanto la macchina è la mia, no? Chi se ne frega!», e sempre borbottando accosto accanto a un cassonetto, scendo dall'Opel, le apro lo sportello e faticosamente ci avviamo insieme verso il portone.
È una palazzina vecchio stampo; anzi, un'insieme di palazzine confinanti dentro lo stesso spazio recintato. Passato il portone, entriamo in un ampio cortile interno col giardino, con i palazzi che si affacciano intorno, a fare cornice.
C'è anche subito a destra un piccolo locale destinato al portiere, con dentro un uomo che ci guarda passare; ma quando dico alla vecchina che potrebbe accompagnarla lui, lei si ribella e tira dritto ignorandolo, dicendo che il portiere è antipatico, e ho l'impressione che mentre passiamo di fronte al suo sguardo attento e silenzioso quello stia probabilmente pensando la stessa identica cosa.
E raggiungiamo l'ingresso della palazzina della mia rapitrice, finalmente, e la cabina dell'ascensore. Lei mi indica un punto per terra, dove poggiare la sua busta preziosa, e lentamente ritorniamo verso la mia vettura.
«Si vede che lei è proprio un bravo ragazzo», dice, improvvisamente benevola, aggiungendo: «Ma quanti anni ci ha?»
Da un po' di tempo, dire la mia età mi dà fastidio. Comunque rispondo: «Quarantadue, da poco.»
«Ed è sposato?»
Questa è un'altra cosa che mi piace veramente poco. «No. Sono ancora scapolo», chiarisco, e lei insiste: «E come mai?»
Faccio un respiro. «Beh, adesso andiamo un po' troppo sul personale, non le pare?»
«E perché? Che c'è di male? Lei è ancora giovane.»
«Sì, sì. Può darsi. Ma per sposarsi, secondo me, ci vorrebbe qualche anno di meno.»
Lei si ferma un attimo e si appoggia più forte al braccio con la quale la sto sostenendo. «E che? Ma se la gente si sposa pure a cinquant'anni... Che se poi si rimane soli, come me, lo vede che succede?», la sua voce riprende l'ormai familiare nota di dolore. «Che ti ritrovi vecchio e senza niente e nessuno.»
Non so che dire e le appoggio sul braccio anche l'altra mano.
Lei mi guarda con limpida fiducia. «E casa sua è grande?», chiede. «C'è una stanza libera per dormire?»
Porcaccia la miseria, ma questa è terribile! Ci manca solo che pensi al fatto che io la possa ospitare!
«No, ho casa piccola», mento spudoratamente. «E ho anche una madre anziana, che devo accudire.»
«Ma una stanzetta degli ospiti? Non ce l'avete un'altra stanza piccolina?», insiste, con fiduciosa ostinazione.
«No, gliel'ho detto. È una casa piccola, e io e mia madre ci entriamo dentro a malapena.»
«Ah», comprende, finalmente. Almeno credo. Per fortuna siamo arrivati di nuovo alla macchina e mi sbrigo a farla risalire.
«Allora», riepilogo, «C'è rimasta solamente la cabina telefonica e abbiamo finito. Ha preso la scheda?»
Mette una mano in tasca e tira fuori la scheda nuova.
L'unica cosa è che per tornare alla piazza devo arrivare alla traversa dopo.
Questa stradina è a senso unico e non posso fare marcia indietro.
«Adesso la riporto alla piazza, eh?», dico per tranquillizzarla. Giro alla prima a destra e poi di nuovo a destra, passo sull'altra corsia e mi accosto; questa volta siamo arrivati al capolinea per davvero.
«Venga, l'accompagno alla cabina del telefono», dico. Lei mi segue con poca voglia di parlare.
Raggiungiamo la cabina; le apro lo sportello per farla entrare.
«Allora io vado, signora», dico, guardando l'orologio che segna ormai le sette e tre quarti, ma la vecchina dopo aver provato due tre volte a mettere la scheda dentro l'apposita fessura dice: «Eeeh... Non funziona.»
«Aspetti, che provo io», propongo. Ma provo e riprovo ed in effetti l'apparecchio non trattiene la scheda.
«Eh, sì. Non funziona», ammetto, alquanto preoccupato. Lei annuisce, riprendendo la scheda, e dice: «Allora devo telefonare dentro al bar.»
Sta guardando verso un'insegna vicina e sono ancora speranzoso. «Quale? Quel bar?», chiedo, e lei annuisce. «Sì. Dentro c'è un telefono che funziona bene.
L'ho usato domenica, che quando sono uscita dalla chiesa mi girava un poco la testa e mi sono presa un tè.»
Okay. Va bene. Perfetto.
La riprendo sotto braccio e le dico: «Venga, che ce l'accompagno io.»
Passettino dopo passettino attraversiamo il lungo e largo marciapiede da un estremo all'altro, superando un'edicola e anche diverse panchine vuote. Si sta facendo tardi e non c'è più molta gente in giro.
Penso a Gina, che mi sta aspettando da più di un'ora, e alla vecchietta, che arranca con difficoltà al mio fianco. Saremo tutti così, fra qualche tempo, traballanti e ossessionati da futili paure. Non voglio pensarci. Saliamo sopra un gradino d'ingresso e siamo nel bar.
«Buonasera», ci saluta il barista col viso invisibile, dietro il bancone immerso in una pallida luminosità.
«Buonasera», rispondo, mentre lei chiede: «Che il telefono funziona?»
Il barista annuisce. «Sì Lo trova a sinistra, dietro il frigo dei gelati.»
La vecchina mi lascia il braccio e parte decisa. «Sì, sì. Lo so.»
Libero, penso. Libero davvero. Ma devo liberarmi anche la coscienza. Vado dal barista e gli dico: «Senta, pago un tè per la signora: quanto viene?»
Gli lascio un po' di più di quanto mi dice, per sicurezza, e me la squaglio, mentre la sento parlare al telefono con grande concentrazione.
Via, via, all'aperto, con passo spedito. Salgo sulla macchina e metto velocemente in moto.
Posso accendere la radio, adesso; abbassare il finestrino e fare quello che mi pare. Per prima cosa, una serie di respiri consapevoli, mentre rientro dentro il traffico vitale.
E concettualmente è tutto già passato, aneddoto, mai avvenuto. Ma nonostante la cadenza che proviene dalla radio, nonostante che attraversi indipendente e forte le vie che portano al parcheggio di San Paolo, la vecchina ed una sensazione di rimprovero rimangono per qualche tempo ancora nell'aria.


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