Quando anche l'ultimo ospite se ne va, al mio uomo torna l'espressione seriosa e lo sguardo cupo di sempre. Puntualmente arriva la telefonata di lavoro, si trascina al computer, si versa il suo whisky preferito e va a letto.
L'intesa fisica tra noi due non si è mai affievolita, è una passione che scava e ci consuma da anni; i nostri corpi si uniscono con violenta delicatezza, mescoliamo respiri ed odori e ci accogliamo fino a impregnarci completamente l'uno dell'altro.
La rigida integrità di Antonio e quel sottile cinismo sono proprio ciò che evito in un uomo, per spiegarmi, io vivo di pancia e lui vive di testa. Ho provato a stare senza di lui ma non ci sono mai riuscita, è un cordone ombelicale che non riesco a recidere. Per stargli accanto ho smussato eccessi e fragilità, ho placato una fantasia e una curiosità sempre in frenetico movimento.
Sono le 2,00 di notte, Antonio dorme, le sue ansie e la sua energia sono assorbite dal sonno, ha i lineamenti distesi e più delicati; mi fa tenerezza, lo bacio, mi bacia, con gli occhi chiusi accenna un sorriso, il suo braccio pesa sul mio fianco. Io non riesco ad addormentarmi, ho cambiato mille posizioni; il sonno mi accoglie che è quasi l'alba.
Il mattino seguente una forte pesantezza alla testa impedisce di aprire gli occhi ma una luce troppo violenta mi sveglia.
«Giulia, hai il primo cliente alle 9,00, se non ti sbrighi arriverai tardi» urla una voce dalle scale. Scale? Quali scale? Non ci sono scale a casa mia e nessuno ha quella voce.
Mi siedo di scatto sul letto, il mal di testa è insopportabile, mi guardo intorno: la stanza è tutta bianca, il pavimento di marmo è bianco, i mobili sono bianchi, le tende sono bianche. Non ho la più pallida idea di dove mi trovo... forse in Paradiso!
Rallento i pensieri mentre strati di panico e ansia si agitano dentro.
Mi alzo dal letto, il pavimento è gelido, giunge il rumore del traffico della strada, tutto è reale.
Scendo le scale, irrigidita dalla paura e mi accorgo di avere indosso una sottoveste di seta nera mai indossata prima.
La cucina è molto grande, colorata di azzurro e bianco, c'è un grande tavolo di granito
nel centro. Apro una porta di vetro a mosaico e mi trovo in una sala con un camino che troneggia e un grande divano a "elle".
È un sogno, non può essere altro!
«Questa notte non hai chiuso occhio» mi dice la voce di prima; mi giro di scatto e uno sconosciuto mi porge una tazza di caffè. È un uomo di media altezza, sui quarant'anni, capelli brizzolati, grigi occhi di ghiaccio e una bocca sottile; un bell'uomo ma di una bellezza statica, priva di espressione.
Non riesco più a contenere la paura, la sento uscire a fiotti dal mio essere, prende forma, mi si modella addosso.
«Non sto bene» quasi sussurro e almeno la mia voce è quella di sempre, anche l'odore della mia pelle è lo stesso, mi guardo le mani, mi tocco i capelli: sono io.
«Disdici l'appuntamento delle 9,00, io chiamo il medico» si avvicina, odora di dentifricio ed emana una forte profumo di Vetiver.
«No...non è il caso. Fammi un favore, disdici tu l'appuntamento» dico con quel poco di logica che mi è rimasto.
«Va bene, ma lo sai che il Signor Franchi ha un debole per te e... questa volta cerca di non sbagliare la vendita, l'attico deve essere suo e di nessun altro!»
La voce che prima non aveva sfumature adesso si fa grave, aumenta di tono e mi mette a disagio, se mai ce ne fosse bisogno.
Prima di andare mio "marito" mi bacia, sento la sua lingua indugiare e poi addentrarsi, sa di dentifricio e persiste quel forte profumo di Vetiver. Le sue mani salgono e scendono sui miei fianchi, scostano la sottoveste di raso, indugiano sulla pelle nuda ma non vanno oltre. Un ultimo bacio più frettoloso e l'uomo con gli occhi di ghiaccio esce.
Questa scena da pubblicità della famiglia perfetta è molto appagante, la casa da rivista di arredamento anche e l'uomo dei sogni me lo sono scelto a dovere.
Questa volta la mia fantasia ha pensato anche ai particolari; ora però devo svegliarmi, portare il caffè nello studio di Antonio, fare velocemente i lavori di casa e preparare il pranzo perché tra qualche ora arriverà mia cognata e i suoi piccoli diavoli pronti alla devastazione del salotto e farò tutto rigorosamente in pigiama di flanella perché la sottoveste di raso è solo per le grandi occasioni.
Come si esce dal gioco? Come ci si sveglia?
Suona il telefono e dopo qualche squillo si aziona la segreteria telefonica: Stefano e Giulia in questo momento non possono rispondere, lasciate un messaggio e sarete richiamati. Stefano, mio marito si chiama Stefano.
Entro titubante nelle stanze di questa strana casa senza colori, né odori, né ricordi. L'ordine è maniacale, tutto è privo di vita, di anima.
È talmente paradossale che non riesco neppure a tentare di capire, procedo senza resistenza verso qualcosa di totalmente sconosciuto, non vado incontro alle cose, aspetto che le cose mi vengano addosso.
Faccio una doccia calda che, però, non lava via l'incubo; scivolo in camera da letto lasciando impronte bagnate sul parquet; apro i cassetti per cercare qualcosa da mettermi addosso e finalmente uscire, prendo una gonna nera e un pullover color malva, cerco ancora e le mie dita toccano un pezzo di acciaio, qualcosa di freddo... una pistola. Sto per urlare ma il portone di casa si apre e odo delle risate.
«Amore, la riunione è saltata. Sono passato a vedere come stai.»
Ecco che sale le scale, sento ancora quel forte odore di Vetiver, ripongo la pistola e gli volto le spalle.
«Come stai?» si avvicina e mi bacia una spalla con labbra aride, senza la minima emozione.
«Meglio» rispondo di getto per mascherare la paura.
«Non direi Giulia, sei bianchissima e tremi tutta» l'uomo, serio, mi sfida con lo sguardo, osserva le mie reazioni, ha un'espressione che inquieta.
«Infatti» dico deglutendo «vado dal medico.»
L'uomo mi attira a sé con forza e mi stringe i fianchi, con il palmo della mano ben aperta mi stropiccia il volto. Allo stremo delle mie forze scoppio in un pianto disperato.
«Fai attenzione Giulia...fai molta attenzione. Ora ti rifai il trucco, sorridi e prepari la colazione per tutti» mi alita nell'orecchio «sono ad un passo dalla verità Giulia.»
Il suo profumo mi fa vomitare, sono tentata di sputargli in faccia o colpirlo, ma, Stefano, mi blocca i polsi.
Le gambe non mi sorreggono più, tremo, mentre preparo il caffè. Nella cucina echeggiano voci e risate di uomini in gessato e donne in tailleur. Dopo colazione tutti si dirigono nello studio di Stefano. Mi si avvicina un uomo completamente calvo con gli occhi buoni e un bel sorriso, evidentemente mi conosce bene perché mi stringe la mano.
«I documenti sono già nelle mani della polizia. Hai avuto coraggio a denunciare lui e il suo giro mafioso, senza di te non ce l'avremmo mai fatta» dice con una mano sulla spalla «è quasi finita Giulia, è quasi finita.»
Poi lo chiamano nello studio, tra lo stordimento capisco che il suo nome è Dario.
Quando tutti se ne vanno corro alla porta per scappare ma è serrata e non ci sono le chiavi; rimango seduta in cucina per un periodo interminabile, fisso il vuoto, non provo neppure a capire. Aspetto solo di svegliarmi ma non succede niente, l'incubo mi tiene stretta.
Squilla il telefono, non controllo più i nervi, mi alzo di scatto e timorosa mi avvicino all'apparecchio. Giulia, devi lasciare subito quella casa. È il messaggio di Dario sulla segreteria telefonica, ha la voce tagliata dal terrore, poi sento un urlo lacerante e uno sparo. Mi precipito a rispondere ma qualcuno ha attaccato, quel qualcuno che sta per venire da me.
Corro in camera da letto per prendere la pistola, rovisto, butto all'aria il cassetto ma la pistola non c'è più. Chiudo gli occhi, deglutisco tutta la mia disperazione, il cuore è impazzito, la paura preme dentro.
Sento aprire ancora il portone, corro in bagno a rifugiarmi. Mi lavo la faccia, mi guardo allo specchio: sono proprio io, ho gli occhi lucidi, lo sguardo folle, il volto scolpito nella paura, ma sono io. Mi stringo forte nel pullover verde malva di chissà chi, mi cullo, mi accarezzo i capelli e lascio che le lacrime continuino a scendere.
Sforzo la mia mente a pensare ad un piano per salvarmi ma non riesco a ragionare, prevale l'istinto. Mi precipito giù per le scale, il cuore e la mente stanno per esplodere, arrivo alla porta e...non si apre, vado in cucina e prendo un coltello. Sento il profumo di Vetiver, mi afferra da dietro e mi blocca la gola col gomito. Riesco a malapena a girare la testa e a guardarlo negli occhi; la sua fredda follia mi trapassa con lo sguardo di ghiaccio. Tento di divincolarmi ma la fredda canna della pistola preme sulla mia tempia, il grilletto sta per scattare.
Da quell'urlo animale sembra uscire tutto il mio essere.
«Giulia... calmati Giulia!»
Mi ritrovo stretta tra le braccia di Antonio, non riesco a smettere di gridare e agitarmi. Guardo il mio uomo, gli tocco la faccia, lo stringo, lo odoro, affondo in lui fino a calmarmi.
«È stato un brutto sogno amore, ma sono qui io, Giulia» mi dice con estrema dolcezza accarezzandomi i capelli.
Da stamattina ho ancora sulla pelle tracce di quel brutto incubo, affronto tutto frastornata e indebolita, ovattata tra sogno e realtà.
«Stasera ho invitato il mio nuovo capo per un dopo cena» dice Antonio.
Ha messo la giacca e ha esagerato con il gel sui capelli; è agitato e non lo nasconde, non gli interessa mostrarmi le sue fragilità. Mentre sistema nervosamente i documenti sulla scrivania io finisco di riordinargli lo studio che, con i manuali sulla pesca e la foto della sua squadra piazzata nel centro della biblioteca, rende poco credibile la sua immagine di navigato uomo di affari, ma io lo amo così.
«Se va tutto bene andiamo via per il fine settimana» mi dice mordendomi l'orecchio.
Suonano alla porta. Apro con noncuranza, penso già al mio viaggio romantico ma il profumo al Vetiver mi colpisce e mi ritrovo davanti i suoi occhi di ghiaccio.


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