Ecco qua.
Il lunedì era finalmente giunto.
Margherita scendeva le scale della sua palazzina, mentre guardava quelle lunghe finestre che si affacciavano sulla strada. Il sole era forte e caldo quel mattino, a differenza dei giorni precedenti nei quali si erano buttati un freddo gelido e dei nuvoloni carichi di pioggia.
Oggi il cielo sembrava invece sorriderle, a Margherita, e sembrava anche incoraggiarla nella sua impresa.
In quelle ultime settimane si era promessa e ripromessa che lunedì sarebbe andata dallo psicologo. Dal suo psicologo. Fino a quel momento si era sempre trovata occupata nel suo lavoro di disegnatrice per una nuova collana di libri per bambini, ma aveva svolto in anticipo tutti i suoi compiti, cosicché sapeva in anticipo che il lunedì mattina sarebbe stato tutto suo.
Uscendo nel cortile che precedeva la strada fu travolta dalla luce solare e in un momento rimpianse di non aver svolto più lentamente i suoi lavori. Così facendo, il suo piccolo topolino Nino sarebbe uscito più armonioso, meno gobbo.
La sua mano in quell'ultima settimana era stata tremula e frettolosa, tanto da caricarsi enormi debiti nei confronti di Nino.
In quel momento rimpianse di non averlo creato un po' più bello.
Rimpianse di non trovarsi rintanata nella sua camera a gettare schizzi di qualsiasi genere.
Rimpianse di trovarsi fuori alle dieci del mattino per andare da quello psicologo.
Ma che diamine! Se voleva ci andava lui da lei. Se solo lo avesse desiderato sarebbe potuto andarla a trovare.
Margherita era stata ad aspettarlo per mesi, in cerca d'aiuto, in cerca di conforto. Ma lui non si era fatto più vivo.
Ma lei non ci pensò più di tanto. Si infilò nella sua nuova Peugeot, sinonimo di anni di sacrificio passati con il sedere schiacciato sulla sedia di una scrivania, e guardò la strada di fronte. Caserta era deserta. Soltanto un uomo che attraversava col semaforo verde per le automobili. Gettava un enorme sacco nel cassonetto sul lato opposto e correva indietro, in poche parole da dove era venuto. Le chiome dei sempreverdi sul marciapiede si lasciavano trascinare dalle onde del vento e provocavano un sonnolento fruscio.
Margherita sospirò, mentre accendeva il motore. Prima o poi avrebbe dovuto risolvere quella situazione. Le pesava da così tanto tempo.

MEDICO PSICOLOGO DOTT. DOMENICO LIONE

Era quella la targhetta affissa sul muro, proprio accanto ad una lunga filza di citofoni.
Margherita pigiò sul bottone del dottore e restò in attesa. Non si presentò nessuna voce al citofono, soltanto il rumore elettrico del portone che si apriva.
Guardandosi nello specchio dell'ascensore, la ragazza poté notare i suoi lunghi capelli biondi e abboccolati. Ah se non ci fosse quella santa piastra per parrucchieri! Forse a quest'ora non sarebbe neanche uscita di casa dalla vergogna. Erano mesi che i suoi capelli si riducevano in un ammasso di filamenti lanosi. Oltre tutto la decolorazione che faceva regolarmente ogni mese gli donava anche una sensazione di fil di ferro. Ma la piastra magica aveva risolto ogni suo problema. Ed il nuovo balsamo al cocco acquistato per
l'occasione? Vogliamo parlare anche di quello?
Ma l'attenzione di Margherita era già scivolata sulle sue labbra ricoperte da un roseo lucidalabbra. Gli occhi azzurri risaltavano sotto quella linea nera della matita, mentre il fard sugli zigomi copriva tutti i suoi mesi di pallido digiuno.
Otto chili in meno. Il dottore se ne accorgerà. Se avesse guardato bene il suo seno forse sì. Era sceso di due taglie. Ma indossava un cappotto talmente gonfio che non si sarebbe accorto di nulla. Forse.
«Signorina, lei non ha prenotato». Margherita la guardava con un'aria intontita e si domandava chi fosse adesso questa qui. Da dietro il vetro sembrava un'altra persona.
Ma la segretaria uscì spazientita da dietro il vetro e Margherita si accorse di una nuova segretaria.
«È stata licenziata?», domandò d'istinto.
L'altra rimase interdetta, poi disse: «Io, no per fortuna».
«Ma non lei. Dico la segretaria».
«Ah sì. No, se ne è andata lei di sua volontà. Aspettava un bambino e dopo la maternità ha deciso di non tornare più a lavoro».
«Ah» Margherita mostrò un'espressione da pesce lesso.
«Che fortuna, eh?» fece la donna tentando di rompere il silenzio. Poi tornò seria. «Allora, lei non mi sembra abbia prenotato».
«No in effetti, no», rispose la ragazza come se fosse la cosa più naturale di questo mondo.
«E allora non posso farla entrare, mi dispiace» dichiarò la segretaria voltandosi verso il vetro. Fece per tornare al suo posto, quando Margherita la fermò.
«Eh no. Guardi che se lei dice al dottore che sono qui, mi farà entrare di sicuro».
«Certo, quando tutti i pazienti saranno andati via», fece la segretaria da dietro il vetro.
Quella lì aveva un sorriso amaro sulle labbra. Aveva il tono sarcastico nella voce. La stava prendendo in giro e questo lei non lo sopportava.
«Assolutamente no!», esclamò Margherita avvicinandosi allo sportello. Accostò il viso al vetro e disse sommessamente, ma con aria minacciosa «se lei dice al dottore che Margherita Logatto è qui, vedrà che mi farà entrare subito».
La segretaria continuò a fissarla per altri due secondi, poi sorrise come si fa con una povera pazza. «Adesso vediamo» disse posando la mano sul telefono accanto a lei.
Quel suo sorriso era davvero indisponente. Che donna maledetta doveva essere quella lì. Non solo si stava prendendo gioco di lei, ma adesso insinuava anche che fosse una matta. Non lo diceva chiaramente, ma il suo dolce sorriso confermava tutto.
«Scusi dottore, c'è qui una certa Margherita Logatto che dice di doverla vedere...» la donna si interruppe, forse il dottore aveva preso a parlare.
La donna sorrise. Quel sorriso largo non era bello.
«Va bene dottore» soggiunse poi. Attaccò il telefono.
«Allora?» fece Margherita con le braccia conserte.
«Ha detto che è molto occupato» si limitò a rispondere la giovane segretaria.
Margherita abbassò lo sguardo e deglutì visibilmente. Sbuffò, mentre con i passi tracciava un piccolo cerchio sul pavimento. No, non poteva andarsene proprio adesso che si era fatta coraggio. Sapeva che in futuro non sarebbe più tornata. Oltre tutto non poteva darla vinta a quella stupida befana. Doveva dimostrarle chi era quella forte tra loro due.
«Va bene» concluse dopo alcuni attimi. «Allora attenderò il dottore fino all'ultimo paziente»

Le tredici spaccate. L'orologio a pendolo sulla parete risuonava nella sala d'attesa deserta.
Alcuni minuti prima la bella segretaria era uscita per la pausa pranzo e per una buon'ora si sarebbe tolta dalle scatole.
Margherita attendeva sulla sedia in prossimità della porta. Quella porta si era aperta decine di volte e lei aveva intravisto la figura del giovane medico dietro l'uscio. Aveva ascoltato la sua voce virile ed aveva infine accavallato le gambe, sperando che lui la vedesse. Quel giorno aveva indossato le calze di nylon rosa ed una gonna corta come non faceva da mesi. Per un giorno aveva deciso di dimenticare il pigiama e gli jeans larghi di due taglie per potersi dedicare alla propria femminilità. Ma gli occhi del dottore non caddero mai su di lei.
Improvvisamente la porta si aprì. Margherita avvertì un cigolio leggero, poi un secondo cigolio, mentre guardava l'uscio richiudersi leggermente.
Dannazione! L'ansia la stava divorando. Ma chi era quel paziente che da più di tre quarti d'ora stava tenendo occupato il suo psicologo? Ed ora, invece di andarsene esitava anche dietro l'uscio.
Sarà mica una sua amante. Il pensiero la mise all'erta per un istante. Stava per alzarsi dalla sedia ed uscire dall'ambulatorio per non tornare più. Se il dottore aveva deciso di rifarsi una vita, lei non avrebbe voluto giocare il ruolo dell'intrusa. Tanto più per il suo amor proprio.
Poi la vecchietta uscì a fatica dalla stanza. Trascinava tutto il suo peso su di un vecchio bastone di legno dal manico ricurvo, proprio come gli ombrelli vecchio stile. E Margherita sorrise di sollievo quando si ricordò di lei. Circa un'ora prima l'aveva vista seduta su quella sedia, sul muro di fronte.
«Buona sera, signorina» salutò l'anziana donna.
«Buona sera», fu la risposta rapida di Margherita. La sua mente viaggiava già oltre la porta di quella stanza e faceva lo slalom tra tutte le parole giuste che le venivano in mente. Ovviamente, più le sembravano giuste e più apparivano sbagliate.
Il medico era tornato indietro e probabilmente si era seduto alla sua scrivania. Forse non sapeva che una delle sue pazienti era lì ad attenderlo.
Margherita si guardò intorno. Non c'era nessuno.
L'uscio della porta era semiaperto e lasciava intravedere un raggio di luce.
Proveniva dalla finestra laterale della stanza del dottore.
Margherita bussò alla porta.
«Avanti» disse il dottore.
Margherita entrò.
Il dottor Domenico alzò la testa e la sua mano rimase immobile sul foglio, impugnando una biro blu. Il suo viso era diventato duro. No, anche questa ci voleva! Fu il pensiero di Margherita. Adesso se non la smette con quella faccia prendo e me ne vado. In un attimo tutte le sue buone intenzioni sembrarono inutili.
«Come mai qui?», domandò il medico.
Maleducato di uno screanzato, pensò Margherita. Il dottore non si era neanche alzato dalla sua sedia.
«Secondo lei perché si viene dallo psicologo?», ribatté lei con tono indisponente.
Si chiuse la porta alle spalle ed avanzò verso la scrivania.
Il dottor Domenico Lione la fissava senza dire una parola. Il suo viso era freddo ed impenetrabile. Margherita si domandò che impressione gli avesse fatto. Le sembrava bella come sempre, oppure il dolore l'aveva resa brutta ai suoi occhi? E le gambe. Perché non guarda un po' più in basso? Non sarà mica diventato gay?
Ad un certo punto Margherita incontrò la sedia che era di fronte al dottore.
Dovette sedersi, tanto non valeva più la pena sfilare per lui.
«Si viene dallo psicologo perché non si sta tanto bene con se stessi» rispose Domenico.
«Bene, centrato l'obbiettivo», dichiarò Margherita. « Io, dottò, so mesi che no sto bene co me stessa».
Lo sguardo di Domenico incrociò per un attimo il suo. Il dottore lasciò cadere la biro sulla scrivania e si sporse in avanti.
«Margherita, che hai?», domandò affettuosamente.
A Margherita salì un groppo incredibile in gola. Non parlò, perché se lo avesse fatto sarebbe scoppiata in lacrime. Possibile che Domenico avesse già dimenticato tutto? Adesso si era fatto tutto carino, avvicinandosi al suo viso, per porle la solita domanda, quella che poneva a decine di pazienti ogni giorno. E l'affetto? Anche quello era finto. Più finto dei suoi capelli acconciati con la piastra. Era soltanto una tattica che serviva ad avvicinare il paziente al medico. Era solo compassione.
«Niente», fece lei delusa.
Domenico mostrò un leggero sorriso sulle labbra. «Ma come. Se sei venuta qui ci sarà un motivo».
È vero. Se Margherita era venuta lì un motivo ci doveva essere. E allora meglio togliersi il peso di dosso. Aveva fatto due, perché non fare tre?
«Io, dottore» iniziò. Poi sbottò: «Non ce la faccio più».
Domenico si guardò intorno imbarazzato. Oppure scocciato. Ecco, la scocciatrice era tornata a tormentarlo dopo tanti mesi di silenzio. In fondo aveva sempre fatto così negli ultimi tre anni. Non è vero?
«Dottò» continuò Margherita. «E nù guardà da nata parte».
Gli occhi castani di Domenico tornarono su di lei.
In quel momento Margherita non ci pensò tanto, ma più tardi, nel segreto della sua camera, mentre disegnava topolino Nino e gli animaletti allegri della fattoria, avrebbe pensato mille volte a quello sguardo. I suoi occhi su di lei. La sua immagine riflessa nelle sue pupille. Che bella sensazione dopo tanto tempo. Tutti i sogni che l'avevano accompagnata nelle notti fredde si stavano avverando.
O forse. Margherita tornò con i piedi per terra, o meglio con il sedere sulla sedia. Quali sogni? Si chiese in quel momento. Il suo bel dottore era lì seduto che la guardava con l'aria di un ghiacciolo.
«Allora?» la incitò il medico. «Maggarì, vuò parlà o no».
Margherita tirò un lungo respiro, poi si fece forza: «Sì, dottò, aggia parlà».
Poi improvvisamente divenne composta. Niente scene tragiche, niente pianti. Non avrebbe dovuto sottomettersi. Se poi lui l'avesse rifiutata se ne sarebbe dovuta andare con la coda tra le gambe. No, meglio un bel discorso alla pari, e poi si vedrà. «Volevo dirle che io sono mesi che non dormo bene. Bene, alla luce di questo...» ma che stava dicendo? «Domenico, insomma, volevo dirti che io non ti ho mai scordato. Sto passando un brutto periodo. Non mangio più, non dormo più, non disegno più bene e...». Per un secondo rimpianse di essersi truccata ed acconciata. Se si fosse presentata da lui tutta pallida e malconcia, Domenico si sarebbe accorto di quanto ci era stata male.
«Volevo chiederti perdono. Rummì, m' staj'a 'ssentì?».
«T' sjent, Margherì». La risposta di Domenico era piena di sufficienza. Adesso la guardava soltanto perché Margherita l'aveva chiamato, ma fino a quel momento Domenico era rimasto immobile con gli occhi sul foglio e le dita che giocherellavano con la penna. «E ti prego. Fernescela i me ra 'stu 'llei»
«Va buò, Rummì, a fernesco». Margherita si aggiustò sulla sedia. «Domenico, insomma, volevo chiederti perdono per tutto il male che ti ho fatto. Lo sai che le cose si amano solo quando si perdono...»
«Ah, che bella consolazione» l'apostrofò Domenico.
Ma la sua voce era risuonata amara tra quelle quattro mura. Erano dolore e frustrazione le emozioni che trasmettevano i suoi occhi. Margherita lo guardò sconsolata, ma una grande speranza si stava accendendo in lei.
«No, Rummì, nu volév ricere chest'. Volevo soltanto dirti che ho capito di amarti nel momento in cui ti ho perso...»
Domenico stava alzando di nuovo lo sguardo su di lei. Chissà cosa le avrebbe detto adesso. Forse era riuscita ad ammorbidirlo.
Ma qualcuno bussò alla porta.
«Chi è?!» gridò Domenico. La sua voce era suonata bassa e potente.
Dall'uscio della porta sbucò la testolina della segretaria. I suoi grandi occhi neri guardarono con sorpresa la ragazza seduta di spalle. Margherita si voltò e le sorrise divertita.
«Volevo dirle, dottore, che sono appena rientrata», disse soltanto.
«Va bene», rispose Domenico. Il suo tono si era di nuovo addolcito. «Adesso vai, vai...».
La segretaria guardò Margherita un'ultima volta. Aveva l'aria interrogativa.
Forse si stava chiedendo che rapporti avesse quella ragazza con il dottore. Un rapporto di amore. Pensò Margherita. Così la segretaria avrebbe rosicato ben bene e se ne sarebbe stata alla larga, nel caso in cui avesse già qualche bel programmino nei confronti di Domenico.
«Mi stavi dicendo qualcosa?», lo spronò Margherita quando furono soli.
Domenico la guardò. « Margherì, cumm' fazz'io a te crérér».
«Stavot' m'edde crérér» lo assicurò Margherita. «Mi devi credere» sottolineò poi. «Sbaglio o non siamo mai stati così lontani».
«No. Non lo siamo mai stati» concordò Domenico. «Ma giusto perché le altre volte mi ero sempre fatto vivo io. Adesso, ad aspettare te mi sarei fatto vecchio»
Gli occhi di Margherita si illuminarono. «Allora mi stavi aspettando?».
«A dire il vero sì. Ma solo fino a qualche settimana fa. Poi ci aggiu pers i speranz ed ho cominciato ad odiarti».
«No, Rummì bell, nu ricere accussì».
«E la verità, Maggarì».
«Secondo te perché io ho aspettato tanto a farmi viva?», continuò lei. «Perché stavolta sapevo che avevo esagerato e volevo chiarire le cose con me stessa.
Volevo capire se ti meritavo ancora». Il suo dolce sguardo scivolò su quello di lui come un povero randagio che chiede ricovero.
«Sh!» fu l'esclamazione sarcastica di Domenico. «Virìt' nu poc. È arrivat' l'angiolètto».
«No, Domenico. Stavolta m'edde credere. Ho preso in seria considerazione 'sta cosa. E se adesso sono tornata è perché ho capito che non me ne andrò più».
«Si, si. Comm' no» obbiettò lui. «Come l'altra volta in cui dovevamo passare la serata a casa dei miei. Guarda caso, tu ti trovavi a Capri per una comunione di tuo cugino. Ma 'sto cugino poi, ci esiste questo cugino?»
«No» rispose Margherita con un filo d'imbarazzo. Attendeva i secondi per sentirsi l'ira di Domenico scaraventarsi addosso.
«Ah, ma nunn'è mica 'na sorpresa. Oramai non mi stupisco più di nulla».
«Rummì, capisce'me» si difese lei. «In quel periodo non erano tanto belli i rapporti con i tuoi».
«Sì, sì. Ma che c'entravano i miei quando dovevamo andare in vacanza a Venezia e tu mi hai telefonato la mattina presto per dirmi che...» . Domenico non ricordava neanche più tutte le scuse che Margherita si era inventata nel giro di tre anni. Soltanto per evitare di stare con lui.
«Ma Maggarì» continuò Domenico. «dimmi una cosa. Che ci sei stata a fare con me tutti questi anni?».
«Perdono» disse lei.
«Eh no, mo m'edde ricére. A 'ssi nu 'mmo dici nun te ne vaj».
«Magari, Rummì. Fosse per me ti rimarrei sempre accanto».
«Quante stronzate che dici, Maggarì».
«Ti prego, Domenico mio. Non rivanghiamo il passato. Quel che è stato è stato, ed io ti ho chiesto di ricominciare da zero. Ho sofferto tanto in questi cinque mesi. Ho capito bene cosa voglio».
«Io no, Margherì. Mi dispiace». Lo sguardo di Domenico era grave su quello di Margherita, che si sentì un grande peso sul petto. «Io non so se ti amo ancora» dichiarò infine con gli occhi velati.
Margherita restò immobile per alcuni secondi, interdetta se andare via o restare ancora. Ma in un attimo capì che sarebbe stato tutto inutile. Si alzò dalla sedia. Domenico non la guardava più.
Fece un lungo respiro, poi disse: «Almeno ti chiedo di perdonarmi».
«Sì, ti perdono», asserì lui.
Ma la sua spontaneità era un chilometro lontana da lui. Domenico la stava perdonando soltanto perché potesse finalmente andarsene via. Uscire dalla sua vita.
Fuori della stanza non c'era nessun paziente. L'orario delle visite si era concluso da un pezzo e lei, Margherita, aveva costretto il dottore a restare in quell'ambulatorio per un'altra ora. Ma aveva costretto anche la segretaria a restare.
Guardò oltre il vetro. La donnina stava leggendo beata una rivista. Questa alzò la testa, forse si era sentita osservata. Margherita stentò un sorriso soddisfatto, mentre una lacrima le solleticava lo zigomo. Asciugandosi finse di grattarsi il viso.
«Arrivederci», le fece concentrando la forza nelle corde vocali. La voce risultò tremula soltanto a lei. Oltre il vetro la segretaria non se ne era accorta.
«Arrivederci» rispose l'altra.

La pioggia scrosciava rumorosa sui vetri della finestra. Una piccola lampada era rivolta verso la scrivania ad illuminare il foglio da disegno. Un simpatico cerchio giallo dai bordi celesti sfumati si dipingeva intorno al topolino Nino e ad un nuovo amico.
Margherita ci aveva pensato tutta la notte, poi era scesa dal letto verso le tre e si era seduta alla sua scrivania.
Dopo aver prelevato i fogli e le matite dal cassetto accanto, aveva dato sfogo alle sue immaginazioni. Dunque, la storia che in quelle settimane le toccava rappresentare trattava di un topolino. E fin qui ci siamo. Il bel Nino era stato inaugurato già da un po' di tempo, ma adesso toccava al suo antagonista. Il pezzo di gruviera. Come rappresentare un pezzo di gruviera che avesse tutte le funzioni di un essere vivente? Aggiungervi quattro arti, due superiori e due inferiori, sarebbe stato troppo banale. L'editore l'aveva messa in guardia:
«Non voglio le solite stronzate su quelle pagine. Dev'essere qualcosa di originale».
Margherita si era limitata a fare di sì col capo, ma in cuor suo già immaginava tutte le difficoltà che avrebbe incontrato. La sua fantasia, per quanto fervida potesse essere, aveva incontrato limiti di ogni genere, sempre legati alle descrizioni degli scrittori. Non poteva disegnare la gruviera con una coda e quattro zampe, magari aggiungendovi un collare con un bel nome impresso. No, quello scrittore, del quale adesso non rammentava neanche il nome, non aveva accennato ad un canide, o ad un gatto, neanche ad una perfida iena! Perdinci, che fatica stare dietro agli scrittori.
Poi quella notte ci aveva pensato tanto ed infine aveva trovato una soluzione.
Rileggendo le descrizioni di quel pezzo di formaggio, si accorse che spesso emanava odori poco piacevoli. Ma il motivo non era la sua natura di latticino stagionato, bensì i suoi problemi intestinali. Era quello il suo modo di difendersi dagli attentati del topolino Nino. Faceva dei suoi disagi di stomaco una buona arma per non essere mangiato.
In quel momento Margherita aveva alzato gli occhi alla finestra. La grandine scendeva pesante sui vetri, provocando lievi schioppi simili alla legna ardente.
Improvvisamente ricordò di quella sera in cui lei e Domenico si erano dati il primo bacio. Si trovavano a casa di lui ed i loro volti erano illuminati dal fuoco del camino. Durante i loro discorsi ingenui ed immaturi Margherita aveva avvertito quegli schioppi leggeri e visto le scintille che partivano dal focolaio, andandosi a spengere sul pavimento.
Un lungo sospiro la distolse da quei pensieri, poi guardò la sua puzzola gruviera. Se questa volta non accetteranno il mio gruvierino... Ma come si chiamava poi quel personaggio? Ah si, Mister Cheese. Che idioti gli scrittori italiani, pensò tra sé e sé. Erano convinti che la lingua inglese fosse migliore di quella italiana. In fondo Signor Formaggio non sarebbe stato tanto brutto.
Ecco qui. Alle cinque del mattino il suo disegno era già pronto. La settimana scorsa aveva consegnato il topolino Nino alla casa editrice che era rimasta entusiasta. Adesso temeva che non fosse lo stesso per il suo Mister Cheese. Ma come riuscire a fare un disegno originale quando lo scrittore non si era inventato altro che un banale pezzo di formaggio. L'unica sua particolarità erano le scoregge.
La pioggia aveva cessato di scendere, mentre il sole iniziava a far capolino tra le nuvole. Un sole timido ed insicuro. Mister Cheese guardava Margherita con gli occhi affranti e la sua coda bianco nera rivolta verso il basso. Non ne poteva più di essere rincorso da un brutto topo di fogna.
Margherita spalancò gli occhi trovandosi la camera pervasa da una luce opalina.
Guardò l'orologio a sveglia che era sulla scrivania e si accorse che erano le otto del mattino. Si mise a sedere sul materasso e si domandò intontita cosa fosse successo. Aveva la strana sensazione che quella notte fosse successo qualcosa. Ah si! Adesso ricordava. Si era svegliata in piena notte per disegnare il suo formaggino, poi si era rimessa a letto sfinita. Incrociò lo sguardo desolato di Mister Cheese e in parte si sentì responsabile della sua tristezza. In fondo era stata lei a rappresentarlo tanto mogio, ma non poteva certo andare contro il volere dello scrittore e, peggio ancora, dell'editore.
Quell'editore parlava davvero in modo chiaro.
Il suono del campanello la fece tornare alla realtà. Ma chi poteva essere che bussava a quell'ora, alla sua porta? Mise in fretta i piedi a terra ed indossò la vestaglia che era appesa dietro la porta della camera. Una rapida occhiata allo specchio dell'ingresso per constatare le occhiaie ed il viso scarno.
«Chi è?», domandò mentre si sistemava i capelli.
«Sono io». La sua voce era bassa e grave, ma c'era un motivo se aveva deciso di andare da lei.
Margherita aprì la porta con naturalezza, ma non poteva combattere contro il suo cuore che aveva iniziato a cavalcare furioso nel petto.
Domenico era lì, sulla soglia della porta. Aveva un aspetto del tutto diverso dalla settimana prima. I suoi capelli erano più lunghi e spettinati, la barba era cresciuta ed i suoi abiti... Margherita non capiva il perché, ma in quei giorni l'immagine di Domenico in camice bianco era l'unico ricordo che aveva di lui. Ora invece era vestito come un tempo. Come quando uscivano a fare le loro passeggiate.
«Domenico!», disse lei.
«Ciao, Margherì. Posso entrare?».
«Certo che puoi». Margherita si fece da parte, mentre lo vedeva scivolare nel soggiorno.
Domenico si guardò intorno, poi osservò che non era cambiato nulla dall'ultima volta. I mobili erano rimasti tutti allo stesso posto.
«Sì», rispose Margherita grattandosi la testa. «In questi mesi non ho proprio avuto occasione di pensare alla casa».
Domenico si avvicinò a lei, prendendole una mano.
«Margherì, quando ti ho detto che ti perdonavo, non mentivo. Sappilo».
Margherita sorrise compiaciuta: «Mi fa piacere».
«Era solo che stavo nu poco 'ncazzato».
«Certo, lo capisco». Ma dove voleva arrivare con quel discorso?
«Assittammoce 'ncopp a pultròn» suggerì lui.
«Va buon» concordò lei.
Restando con le mani intrecciate, Domenico la trasportò verso la poltrona.
«Margherita, io volevo dirti che ci ho pensato. Ho pensato bene al mio futuro e ci ho visto solo sofferenze...»
«Gesù, e perché mai?» l'apostrofò Margherita.
«E nu m'enterrompere, pe favòr» fece Domenico, poi riprese: «Ci ho visto sofferenze perché ho capito ca tu si na stronza».
Margherita non disse nulla. Era senza parole. Sì, forse Domenico aveva ragione, ma anche lei, non aveva ormai penato abbastanza? Meritava ancora i suoi rinfacci? «U Maronna mia, Rummì, e pecché?»
«Perché tu lo sai» rispose lui «perché ormai sai che io non posso fuggire da te. Perché sai che tu sei l'unica donna che voglio e te ne approfitti».
«No, nu'ssia mai 'na cosa accussì!» esclamò Margherita congiungendo le mani «ti chiedo ancora perdono. Non ti farò più del male».
«Maggarì, nu' ccapisci propj 'nu cazz». Domenico si alzò dalla poltrona.
Sembrava spazientito e camminava su e giù per la stanza. Sembrava fosse venuto lì, in casa di Margherita, soltanto per sputarle in faccia il resto della sua rabbia.
Che senso aveva adesso continuare a ferirsi a vicenda?
«E c'aggia capì, Rummì?» domandò lei.
«Edde capì che io nu' pozz' sta' senza e te». Domenico si inginocchiò davanti a lei. «Margherita», disse poi in tono più marcato «Io non posso fare a meno di te».
«U Maronna mia!» esclamò Margherita cingendogli il collo con le braccia.
«Questo vuol dire che credi di nuovo in me?»
«Sì, Margherita mia», fece lui guardandola teneramente. «Credo in te perché so che puoi migliorare e perché so che in fondo mi ami. Ma bada bene, Maggarì, chest'è ll'utima vota».
«L'ultima volta sì» ripeté Margherita.
Rimasero a guardarsi per alcuni secondi, poi Domenico la prese per mano e la portò nella camera da letto.
La stanza aveva ancora l'odore della malinconia e dei ricordi, ma si sarebbero dissolti presto. Anche il viso bucato di Mister Cheese adesso sembrava più sollevato. Eh sì, i raggi del sole al mattino provocavano brutti scherzi alla vista. I suoi riflessi disegnavano uno strano sorriso sul volto della gruviera.
Domenico si allungò gentilmente sul corpo di Margherita, prendendola per i polsi e baciandola sulle labbra. Trascinò le sue braccia lungo il materasso, oltre la sua testa e strofinò lentamente il suo naso contro la sua pelle.
Margherita si lasciava trasportare dalla dolcezza di quei gesti. L'odore delle sue labbra era quello di sempre. Si fece sfilare i pigiami di dosso, poi fecero l'amore per diverse ore, ma non seppero mai per quanto tempo. Margherita sapeva solo che ogni volta sentiva di impazzire.


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