Si dice che quando una persona ti osserva da lontano, istintivamente te ne accorgi e alzi lo sguardo verso di lei.
Ero immerso nel frastuono quieto e regolare del trattore con il quale scendevo lungo le fila di ulivi, solo, nel momento in cui la luce del giorno accenna ad inchinarsi tenuemente. Alzai lo sguardo, vincendo la concentrazione del mio lavoro e lo vidi, fermo sul tornante della strada che lambiva il mio podere e dolcemente scendeva verso il lago, che si sbracciava, sporgendosi dalla cabina della sua Ape Piaggio sgangherata, stracolma di cianfrusaglie di ogni genere. Alzai il braccio in segno di saluto; non aspettava altro, mi elargì un ampio sorriso e gongolante riprese la sua strada.
Giacomo era un... ragazzotto, in verità aveva superato alla grande i trent'anni, ma la natura lo aveva fermato per sempre a dieci, dodici anni. Un oligofrenico conosciuto da tutti in paese per la sua parlantina noiosa e petulante, che gli aveva procurato il nomignolo scherzoso di: "il predicatore".
Era alto e rubicondo, di un grasso molle e flaccido, dalla facciona rotonda spuntavano due labbra carnose come quelle di un neonato troppo cresciuto. Anche la voce era nasale, come quella di dei mocciosi di strada d'altri tempi. Me l'avevano presentato i ragazzi del posto, quelli che per una serie di strane circostanze si erano risolti a sopportare la mia compagnia.
Da queste parti mi chiamano il professore, non tanto per il fatto che dopo oltre vent'anni di insegnamento, avevo deciso di ritirarmi tra gli olivi e il porticciolo di quel paesino adagiato, come una pennellata di Dio, sulle rive del lago di Garda, ma per il modo con cui giocavo a carte nei bar.
Oltre ad una baracca, che avevo discretamente arredato nel podere tra gli ulivi, possedevo un vecchio 34 piedi a vela, ormeggiato nel porticciolo, il quale aveva di fatto assunto il ruolo di ufficio di rappresentanza delle mie reiette attività.
Infatti, dopo avermi osservato a giocare a carte nei bar, capitò che una sera la combriccola dei ragazzotti mi tese una specie di agguato.
Il mio carattere burbero e chiuso è noto tra i pescatori e la gente del lago come i temporali che repentini imperversano da ponente. Tuttavia uno di loro, che poi seppi chiamarsi Lorenzo, si era fatto avanti, mentre il gruppone gli copriva le spalle.
«Professore...» Aveva sussurrato.
«È successo qualcosa?» Risposi senza degnarli di uno sguardo, mentre scendevo nel pozzetto della Tranquilla»
«Vorremmo chiederle una cosa.» Incalzò Lorenzo mentre il gruppo mugugnava alle sue spalle tra l'attonito e il sorpreso.
Alzai lo sguardo e notai i suoi lunghi capelli ricci che gli lambivano le spalle, nonché il suo sorriso, un po' ironico, un po' scaramantico.
Il resto del gruppo taceva.
«Allora?» Chiesi, cercando di tacitare quel vago sentimento di nostalgia che impelleva nel mio animo.
«Vorremmo che ci insegnasse a giocare a quintilio.»
Proprio non me lo aspettavo. Credo che trasalii, la faccenda aveva tutti i caratteri della nemesi.
Avevo abbandonato il liceo in cui insegnavo filosofia e storia dopo che gli anni sessanta si erano chiusi con una stagione di bombe e terrorismo. Gli ideali di quel decennio erano malamente scivolati nelle più orride ideologie. Travolto dal senso di nullità, esasperato anno dopo anno dalla consapevolezza dell'inutilità del mio mestiere, maturai pian piano l'idea di mollare tutto. Nel contempo si andavano logorando anche i semplici rapporti interpersonali con allievi e colleghi. Pian piano vedevo sgretolarsi le mie idee, la mia vocazione, la fiducia che nutrivo nella cultura e nel suo potere di formare le coscienze. Agli inizi degli anni settanta sentivo che non avevo più nulla da dire ai ragazzi della scuola, tutto mi pareva estraneo ed inadeguato, per cui lasciai. Ancora oggi mi chiedo se fu una vigliaccheria o una lucida presa di coscienza, tuttavia è per questo che mi ritrovo da queste parti.
Ma non mi sarei mai aspettato che dopo qualche anno, qualcuno, anzi, dei ragazzi venissero a bussare alla mia porta per chiedermi di insegnare loro qualcosa, sia pure un gioco di carte. Ancora una volta la vita mi chiedeva rimettermi alla prova e da buon giocatore accettati la sfida.
All'inizio si trattava di un gruppetto di cinque, sei persone, poi, a tratti e con vicende alterne si allargò. Ora come ora devo ammettere che circa quindici, venti ragazzi dai diciotto ai venticinque anni bazzicano più o meno regolarmente tra la mia barca e i miei olivi.
Il professore è tornato ad esser il professore.
Era una sera di inizio maggio del '75 quando salutai Giacomo dal mio trattore, finii il lavoro verso le sei, sei e trenta, quindi mi avviai verso il porto. La serata era chiara, il paese già seminvaso da turisti che passeggiavano svogliatamente tra le viuzze.
La flebile luce all'interno della tuga filtrava dal tambuccio di prua, una battaglia già persa contro il sole che stentava a tramontare. Immaginai Lorenzo, il meno intellettuale del gruppo, intento a preparare la cena. Due figure snelle armeggiavano attorno alla randa, in controluce distinguevo le loro sagome, i movimenti ormai esperti. Solo in quel momento avvertii il leggero pizzicore sul volto della brezza da nord. Ci aspettava una delle nostre nottate da leoni.
Il quintilio è un gioco appassionante perché è una parodia della vita. Sulla base del più noto tressette, si gioca in cinque, ognuno per sé per quanto riguarda il punteggio, ma strategicamente la partita si svolge in due contro tre. La formazione di queste due squadre è un evento unico per ogni giro di carte: per cui nella prima parte della gara domina una strategia accorta, misteriosa, ricca di suspence e bluff, poi una volta palesate le strategie e le squadre, si gioca alla morte, per far vincere la coppia o il terzetto contrapposti. Nel giro di pochi istanti emergono i due grandi sentimenti contrastanti dell'umanità: l'individualismo, l'egoismo e il cameratismo, la fratellanza.
Ma vi è anche una possibilità estrema e rara: se vuole, se ne ha il coraggio e le carte giuste un giocatore può anche rischiare di giocare solo contro tutti e raddoppiare il punteggio. In questo caso spesso succede che questi debba palesare la propria intenzione di andare da solo il più tardi possibile, approfittando più che può della rivalità degli altri giocatori.
Quella sera il primo a tentare il solo fu Michele.
«Ecco la Mariangela!» Gridarono in coro Diego e Lorenzo, e giù tutti a ridere.
La prima volta che uno dei ragazzi profferì il nome Mariangela non capii.
«La Mariangela, mi spiegò Diego, è quella ragazza brunetta e dalle tette un po' grosse, quella che lavora nella gelateria del porto.»
«Ho capito, affermai, ma che significa in questo caso?»
I ragazzi si scambiarono degli sguardi sornioni e scoppiarono a ridere. Rispose Lorenzo per tutti.
«Sai, professore, la Mariangela è una ragazza che ha una grande passione...»
«In che senso?» Chiesi.
«Nel senso, continuò Michele, che ce la siamo passata un po' tutti.»
«E allora?»
«È una battitrice libera, continuò Matteo, se spassa con tutti, ma alla fine gioca da sola, nel senso che è lei a condurre il gioco.»
Questa storia della Mariangela è stato un leit-motif di molte nostre serate, ora l'argomento è decisamente decaduto. Quando uno dei giocatori riesce a fare un giro da solo e vincere, qualcuno si limita a sospirare: «Mariangela», non so se con una velata nostalgia o con malcelato dispetto.
Poi qualcun altro aggiunge: «Poveretta.»
Lorenzo, Diego, Matteo e Michele era il gruppo originario del quintilio, i più fedeli. quelli che avevano libero accesso alle mie cose.
Ormeggiammo in una baia a nord, dopo un'oretta scarsa di bolina. Lorenzo preparò il tavolino nel pozzetto e tra un giro di carte e l'altro ci serviva i suoi manicaretti.

Sullo sfondo, ad est si andavano via via illuminando le finestre della vecchia villa Sinaldi: una via di mezzo tra un palazzo e un castello, per nulla impensierito dall'assedio delle gracili barche di pescatori che punteggiavano la baia.
«Che fine ha fatto Filippo?» Chiesi, sovvenendomi del figlio dei proprietari della villa che per qualche tempo aveva fatto parte della combriccola.
«È andato.» Rispose Diego.
«È andato dove?»
«No, se ne andato con la testa!» Scherzò Lorenzo.
Tutti risero.
«È un periodo che non vediamo, spiegò Diego, credo abbia problemi con la famiglia.»
La serata trascorse tra episodi epici ed infami, tra eroismi e tradimenti, nella tumultuosa battaglia della giovinezza contro la senilità, della gioia contro la tristezza, dell'amicizia contro la solitudine.


Il corpo sfinito di Mariangela restò malamente impigliato nelle reti di Adelchi che una corrente inaspettata aveva trascinato a due passi dalla costa, all'alba del 17 maggio dello stesso anno. Lui restò attonito a contemplarla, mentre ogni parola gli moriva sul nascere. Il pallore delle membra nude sfavillava indecente nella tenue semioscurità dell'alba e ad essa sfacciatamente si contrapponeva. Solo qualche ciocca di capelli, appiccicata al volto, ne nascondeva il riso osceno di morte che percorreva amaramente il volto della fanciulla.
La notizia fuggi di bocca in bocca, di pensiero in pensiero, gelida come un vento di tramontana. Fui tra i primi quella mattina a vedere il corpo pietrificato di Mariangela adagiato sull'arenile dove pietosamente l'avevano trascinato i pescatori che erano accorsi alle urla di Adelchi. Quando sollevai la coperta che la pietà di qualche cristiano aveva steso sulle sue carni intravidi la ciocca di capelli che ancora celava con misericordia i tratti della morte.
Anche i carabinieri erano già sul posto e non fece in tempo il campanile del paese a battere il mezzogiorno che già si trovavano a casa di Giacomo, il quale come un bambino sgomento li seguì nella caserma.
Raggiunsi il porto nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno. Avevo trascorso la giornata tra la casa della madre di Giacomo e la locale caserma dei carabinieri. Notai da lontano la «Tranquilla» assiepata di ragazzi che ciondolavano tra il pozzetto e il tavolato di coperta.
Al mio avvicinarsi all'imbarcazione si disposero per aprire un varco per farmi salire, Diego addirittura mi porse la mano per aiutarmi. Capii che la mia presenza era attesa da come si era improvvisamente tacitato il chiacchierio mesto che avevo percepito da lontano. Tentai di rompere il silenzio che era caduto sulla mia visita, ma prima che riuscissi a pronunciare una sola sillaba, si intrecciarono come saette nell'aria pesante le stesse frasi, ripetute senza enfasi:
«Non è stato lui.»
«Non è possibile.»
«Hanno commesso un errore.»
Lasciai che per qualche minuto sfogassero il loro disappunto e la loro incredulità. Non vi era rabbia nelle loro parole, ma solo amarezza, disincanto, orrore, per quella tragica realtà che si era affacciata come un colpo di mannaia sulla routine a volte stanca delle loro vite
Quando gli animi si furono acquietati iniziai a parlare..
«Hanno trovato tracce di Giacomo dappertutto: impronte delle sue scarpe sul pontile dal quale probabilmente è stato gettato il corpo, le tracce dei pneumatici dell'Ape sul viottolo che scende alla spiaggia, un pezzo di stoffa del vestito di Mariangela sul cassone dell'Ape».
«Gliela avranno rubata, è tutta una messa in scena, troppo facile prendersela con lui.» All'enfatica dichiarazione di Diego seguirono una serie di commenti di consenso.
«È un povero imbecille, ma non un assassino.» Affermò Lorenzo.
«Imbecille sarai tu!»Esclamò Matteo.

Alcune sghignazzate soffocate temperarono l'aria rovente.
Ancora qualche secondo di silenzio, poi un ragazzo, seduto in disparte a prua, lanciò una bordata:
«Però Giacomo l'aveva vista sì e no solo in fotografia, magari...»
«Magari che cosa?» Chiese Matteo alzandosi minaccioso in piedi.
Il ragazzo non si fece intimidire.
«Magari quando una ragazza ha la fama di servirla in giro a destra e manca senza tante storie a tutti meno che a lui, qualche circuito gli può saltare in quel poco cervello che possiede!»
Questa purtroppo era una parte della storia che poteva avere un qualche fondamento, ma che nessuno voleva prendere in considerazione. Seguì una breve rissosa discussione, che non portò a nulla.
Renzo, il ragazzo a prua che l'aveva scatenata, non era cattivo, ma solo un po' schivo. Era uno dei tre del gruppo che frequentava l'università: giurisprudenza, assieme a Filippo Sinaldi, con il quale faceva coppia fissa e condivideva una stanza a Padova, per questo forse negli ultimi tempi si vedevano poco con il resto della compagnia.
Il terzo universitario era Diego: secondo anno di ingegneria, sempre a Padova, ma per lui trascinare una serata fino alle tre del mattino e poi saltare su un treno alle sei, rappresentava poco più che un banale esercizio ginnico.
«Dov'è adesso Giacomo?» Chiese qualcuno.
«È già stato trasferito a Verona, per ora nessuno può né vederlo, né incontrarlo.»


Nei giorni seguenti il giornale locale si sbizzarrì nelle più pirotecniche ipotesi, rivelando particolari inediti della vicenda, tentando di scavare nella psiche malata del presunto assassino, intervistando a destra e a manca personaggi più o meno illustri del paese. Ma nonostante gli sforzi encomiabili nonché funambolici di certi giornalisti per rendere la notizia il più appetibile possibile, la tragica realtà era che solo un misero ritardato mentale poteva compiere un delitto così assurdo, lasciando alla mercé del più scemo dei carabinieri tante e cotante prove della sua colpevolezza. Per cui la storia perse fin da subito i connotati di morboso mistero e suspence che avvolgono la maggior parte dei delitti e i poveri giornalisti si arresero ben presto e la lasciarono scivolare nell'inglorioso spazio delle brevi dalla provincia.
La bomba esplose una quindicina di giorni dopo, quando un bene informato, aveva informato un informatore della cronaca nera, circa i risultati preliminari dell'autopsia eseguita sul cadavere della poveretta assassinata e ripescata dal lago di Garda nella mattina del 17 maggio u.s.
La notizia meritava la prima pagina, con ampi servizi in cronaca: «La ragazza ripescata dal lago era incinta.»
Difficile capire da quel titolo se il fatto rappresentasse una colpa, un'aggravante (per chi? Per lei o per l'assassino?), una semplice casualità, o se a questo punto il caso non assumesse dei connotati più complessi di quanto a prima vista apparisse.
Di fatto, la notizia mise in fermento i ragazzi che non aspettarono la sera per incontrarmi al porto, ma capitarono alla spicciolata nel primo pomeriggio alla baracca tra gli ulivi.
«Un fatto è certo come il sole, dichiarò Lorenzo con il suo solito candore, non l'ha messa incinta Giacomo, su questo mi gioco... la facoltà di mettere incinta qualcuna io!»
«Stai attento a come parli.» Affermò ridendo Matteo.
«Chi l'ha messa incinta l'ha anche fatta fuori.» Dichiarò ancora Lorenzo sicuro di sé.
Paradossalmente la notizia, per quanto tragica, aveva ridato la carica ai ragazzi, forse intravedevano una via di uscita per Giacomo.
«Purtroppo, Giacomo può essere comunque coinvolto in questa storia.» Affermai.
«Forse è stato costretto, ricattato, plagiato, qualcuno gli ha promesso qualcosa, gli ha solleticato davanti agli occhi una cosina... ma non può avere la stessa colpa, non è normale.» Continuò Lorenzo.

«Nemmeno tu sei normale, Lorenzo!» Solita battutaccia di Matteo.
«Non facciamoci illusioni ragazzi, ribadii, io domani mi recherò a Verona, cercherò di incontrare una persona, un mio vecchio compagno di liceo, voi tenete le orecchie bene aperte, sentite con chi se la faceva negli ultimi tempi Mariangela...»
«Con tutti...» Affermò ridendo Lorenzo.
«Ma dai che è morta poveretta!» cercarono di zittirlo, ma lui continuò:
«Era una persona molto generosa.»

Non fu facile stanarlo all'interno dell'istituto di Medicina Legale, superai con difficoltà un paio di segretarie e altrettanti tecnici in camice bianco, ma alla fine quando incontrai il dott. Giovanni S. questi si dimostrò gentilissimo e gioviale come ai tempi del liceo. So che stona l'idea di un anatomopatologo allegro e brioso, ma Giovanni lo era sempre stato fin dai tempi del liceo.
Perdemmo un'ora buona a recuperare gli anni perduti, non sapeva del mio abbandono della scuola, ma non se ne rammaricò.
«Bisogna seguire il cuore.» Disse con benevolenza.
Quando giungemmo all'argomento Mariangela, mi aspettai che assumesse un atteggiamento severo, ufficiale, invece continuò con lo stesso tono confidenziale.
«Ah, sì, la ragazzetta del lago, si era incinta, quarto, quinto mese, mi pare.»
Chiesi altri particolari con una certa prudenza e un certo pudore. Giovanni non si sprecò a farmi raccomandazioni sulla riservatezza delle notizie che mi dava.
«Tanto, affermò, i giornalisti sanno sempre tutto.»
«Il feto aveva delle anomalie, continuò, abbiamo fatto qualche esame più approfondito e abbiamo scoperto che era affetto da talassemia maggiore.»
«Che significa?» Chiesi.
«La talassemia è una forma di anemia ereditaria, se è trasmessa da un genitore solo assume una forma benigna, quasi asintomatica, se trasmessa da entrambi i genitori si ha un quadro molto grave, quasi incompatibile con la vita, anzi i bambini affetti, devono essere trattai con continue trasfusioni, altrimenti muoiono nei primissimi anni se non mesi di vita.»
«È molto diffusa?»
«Pare si trattasse di una forma che inducesse una certa resistenza nei confronti della malaria, per questo si sarebbe selezionata nelle aree paludose, anche nelle zone del lago è abbastanza diffusa.»
«Per cui, azzardai, questo significa che chi ha messo incinta Mariangela aveva per forza una talassemia minore.»
«Bravo, scherzò Giovanni, vedo che nonostante i tuoi studi umanistici, capisci ancora qualcosa!»

La perpetua mi proiettò uno sguardo arcigno mentre apriva la porta dell'archivio. La storia che avevo raccontato al vecchio parroco lei non l'aveva bevuta, figuriamoci, un professore di storia che chiedeva di consultare l'archivio parrocchiale per un articolo che stava scrivendo per una rivista. No, io ero semplicemente un forestiero che veniva a ficcare il naso nelle cose del paese, e poi chi mai l'aveva visto a qualche messa quel tipo?
L'archivio era sistemato in alcuni armadi di ferro con porte scorrevoli. Su ogni anta era appeso un foglio con una breve descrizione del contenuto, individuai subito quello che mi interessava: registri di battesimo, matrimonio e morte. Dopo una rapida scorsa sfilai un polveroso volume contenente le registrazioni di morte dal 1862 al 1929.
Immaginavo che la mortalità infantile di quegli anni fosse elevata, ma mi sorprese il fatto che i parroci di quei tempi si preoccupassero di segnare anche una probabile diagnosi di morte. Tra i bimbi trovai segnata spessa quella di "arioma", che dovrebbe essere stata una forma di gastroenterite., ma non avevo la minima idea di tipo di diagnosi si ponesse per la talassemia maggiore.
Il mio amico Giovanni mi aveva anche riferito che da una coppia di talassemici la possibilità che nasca un figlio con una forma grave della malattia è del venticinque per cento.

Considerando che un tempo le famiglie erano molto più prolifiche che ora, specialmente in provincia, cercai di individuare dei fratelli deceduti per qualcosa di differente di «arioma» entro o intorno al primo anno di vita.
Cominciai a prendere appunti su un foglietto, quando individuai tra il 1910 e il 1917, quattro bimbi, dal cognome Bianchi, figli dello stesso padre.
Passai allora al registro dei battesimi per controllare se nello stesso periodo, fosse nato da quello stesso padre Bianchi un figlio che fosse sopravvissuto.
Il brivido di vittoria che mi percorse quando scoprii che nel 1920, da quello stesso padre era nata una bimba che non era stata trasferita al registro dei morti in poco tempo, mi morì nel cuore, come una fucilata nel ventre: la bambina nata nel 1920 si chiamava Angela Bianchi, ragazza madre che nel 1942, aveva dato alla luce un bambino di nome Giacomo Bianchi.
Chiusi i registri e li riposi negli armadi, abbandonai di corsa l'archivio, salutando frettolosamente la perpetua, soddisfatto almeno di non essermi sottoposto nemmeno per un secondo al suo sguardo inquisitorio.
Eravamo punto e a capo. Possibile che Mariangela si fosse concessa a Giacomo? Oppure era accaduto l'increscioso fattaccio di una violenza da parte di Giacomo e la ragazza per pietà o per vergogna lo avesse taciuto, fino a quando, scopertasi in gravidanza lo avrebbe minacciato di denunciarlo e questi per paura ecc. ecc.
La provocazione di Renzo in fondo non era così campata in aria.
Avvertivo che l'angoscia che saliva si sarebbe placata se avessi condiviso questi pensieri con qualcuno, ma non certo con i ragazzi, pensai, avrei distrutto ogni loro speranza di scagionare Giacomo.
Mi incamminai fuori del paese, verso la collina e inusitatamente mi ritrovai presso il cimitero. Entrai, poiché a cavallo tra un'idea cosciente e un'urgenza inconscia si materializzò il pensiero che anche quello, in fondo era un archivio delle famiglie del paese.
Non facciamola lunga sui molteplici pensieri che combattevano nel mio animo fino a quando giunsi dinnanzi alla tomba di famiglia dei Sinaldi. Bastò uno sguardo perché una frase a caratteri di bronzo si scolpisse nella mia mente: Maria Bianchi Sinaldi, nata il 12 giugno 1917, morta il 14 gennaio 1968, affranti piangono la sua vita spezzata negli anni più fulgidi il marito Carlo con i figli Giuseppe, Valentina e Filippo.
Quando la perpetua venne ad aprirmi la porta, non attesi di sentirmi dire una parola. Buongiorno, permesso furono le mie e come un treno in corsa mi precipitai nuovamente in archivio, mentre dalla porta la vecchia mi osservava come presa da una visione diabolica e con l'espressione di chi sta per essere assalito da una crisi di nervi. Lasciai che vomitassi una sequela di improperi, mentre affannosamente consultavo i registri. Quando deposi l'ultimo le elargii un sorriso sornione e aggiunsi:
«La ringrazio signorina per la sua ospitalità, lei mi è stata proprio d'aiuto, non mancherò di comunicarlo al reverendo parroco, verrò presto ad ossequiarla di nuovo.» E la abbandonai impietrita sulla soglia della canonica.
Cosa avevo scoperto? La defunta Maria Bianchi Sinaldi, madre di Filippo era l'ultima sorella di Giuseppe Bianchi, padre di Angela Bianchi, madre di Giacomo Bianchi. In altre parole era una prozia, consanguinea del povero Giacomo e molto probabilmente portatrice di talassemia.
Non era certo una prova per incolpare un ragazzo, tuttavia attesi la sera per saperne qualcosa di più dalla compagnia del quintilio.
Quella sera si decise di restare in porto, il cielo ad occidente non prometteva nulla di buono e un temporale dal bresciano non ci avrebbe certo permesso di goderci la solita partita. Il vento stava rinforzando e nell'aria saliva l'urlo delle sartie che somigliava al grido di uccelli preistorici. Anche i turisti indugiavano nei bar e noi tutti ci eravamo rifugiati sotto coperta.
«Ragazzi, parlatemi un po' di Filippo?» Chiesi senza cercare scuse.

«Filippo? Perché?» Chiese il solito Lorenzo.
«Poi ve lo spiego.» Replicai.
«Filippo..., riprese Matteo, Filippo è un povero ricco!»
«Sì, ci fa proprio pena, con tutti quei soldi, poveretto!» Aggiunse Diego, mentre di sottecchi leggeva le proprie carte.
«Che schifo, ribadì Lorenzo, dover girare con la Mercedes del padre.»
«Una pena, aggiunsi, suo padre che fa?»
«Principe del foro, penalista, origini e tradizioni meridionali!» Sentenziò ancora Lorenzo imitando un accento del sud e sfoderando uno sguardo ambiguo.
«Cosa nostra...» Aggiunse, Michele, che fino a quel momento pareva molto preoccupato per le sue carte.
«Sua madre è morta qualche anno fa.» Riflettei.
«Sì, e il buon avvocato, l'ha già sostituita con una trentenne mica male..., non so se mi spiego, il povero vedovo ha fatto presto a trovare un'anima consolatrice.» Affermò Lorenzo con un ghigno.
Sparammo un paio di giri di carte in tutta fretta, poi Diego senza che gli chiedessi nulla aggiunse:
«Filippo è un ragazzo sfortunato, un tempo eravamo intimi, poi l'amicizia si è persa. Lui di carattere non è male, ma ha un padre severissimo, poi la morte della madre deve essere stato un duro colpo. Non ha mai avuto tanti amici...»
«E amiche nemmeno l'ombra, si inserì Lorenzo, un tempo pensavamo che fosse dell'altra sponda...»
«Ma no, scemo, riprese Diego, credo che suo padre pretendi che si dedichi allo studio e basta, ha predisposto per lui il futuro e la carriera. Inoltre penso che non ami che suo figlio si mescoli con la gente comune, io mi ricordo che per un certo periodo aveva filato con una ragazza del paese, ma quando i suoi l'hanno saputo è successo un finimondo. Poi da quando suo padre si è risposato rimane rintanato a Padova il più possibile, penso che quella donna non riesca proprio a sopportarla.»
«Sarà più di un mese che non lo vedo.» Disse Michele.
«Io l'ho incontrato a Verona il mese scorso, l'ho incrociato una sera tardi, ma non mi ha nemmeno salutato, forse era di corsa, o distratto.»
«Quando è stato?» Chiesi.
«Questo me lo ricordo bene, rispose Lorenzo, è stata la sera prima del giorno in cui è morta Mariangela.»
Cambiai discorso in poche battute, non volevo coinvolgere i ragazzi nelle mie supposizioni, tuttavia dovevo trovare un modo per incontrare questo benedetto Filippo.
Come fare. Il modo più semplice che si conosca, una bella letterina con una scusa qualsiasi: è un pezzo che non ti vedo, vieni a trovarmi ecc...

Capitò inopinatamente la domenica successiva, su alla baracca. I cappelli ricci e rossastri, il naso arguto, la fronte spaziosa e la carnagione rosea proprio non avevano nulla a che fare con le supposte origini meridionali del padre.
Mi elargì un ciao malinconico, ma affettuoso, quasi mi vergognavo di averlo convocato per un secondo quasi inconfessabile fine. Mi incuteva l'impressione di un animale indifeso.
«Come vanno gli studi?» Chiesi.
«Bene!» Rispose.
«Non ne avevo dubbi, è un po' che non ti si vede.»
«Lo so, ma da queste parti, non mi trovo più tanto bene.»
«Capisco.»
Non mi chiese cosa avessi capito, vedevo che si trovava a suo agio con me, e questo alimentava ancor di più il mio senso di colpa.
Buttai il discorso sugli amici e tra una battuta e l'altra chiesi:
«Conoscevi Mariangela?»

«La ragazza che hanno trovato nel lago, non molto, gli amici la prendevano un po' in giro... poveretta.»
«La notte che fu uccisa eri a Verona, mi hanno detto.»
Per la prima volta lo vidi turbato.
«Non credo, non ricordo!»
«Ti ha incontrato Lorenzo, ma tu non l'hai nemmeno salutato, così almeno così dice lui.»
Il volto del ragazzo divenne buio.
«Sapevi che Mariangela era incinta?» Incalzai.
«L'ho letto sui giornali.»
Silenzio.
Attesi.
Poi parlò, tranquillo e tagliente, parava già un avvocato di fama.
«Allora, professore, ti metti a fare l'investigatore, hai tra le mani un colpevole con i fiocchi: figlio di buona famiglia uccide povera ragazza di famiglia dopo averla messa incinta per non precipitare nello scandalo, per questo riesce ad incolpare un povero scemo del villaggio ecc. Mi credi proprio così, è per questo che mi hai invitato casa tua?»
Mi sentii morire, ma proseguii, raccontai la storia della talassemia e lui rimase impassibile ad ascoltarla: o ora un freddo assassino o un altrettanto freddo innocente. Cosa lo aveva reso così?
«Quella sera ero a Padova, Renzo lo può confermare, ma non voglio tirare in ballo quel povero ragazzo.
«Allora?» Chiesi.
«Potrei sottopormi ad un esame del sangue, se non sono portatore di talassemia il caso è chiuso, non credi?»
Fui travolto dal suo coraggio e dalla sua determinazione.
L'indomani mattina attendemmo poco più di un'ora fuori dallo studio di Giovanni. Filippo rimase immobile come una statua, io passeggiavo rabbioso come una fiera in gabbia. Poi la porta si aprì e mi venne incontro Giovanni con un foglio pallido in mano.
«È negativo, sentenziò, completamente sano.»
Condussi il ragazzo in stazione, durante il tragitto nessuno parlò.
Quando scese dall'auto mi guardò in faccia:
«Ti ringrazio professore, avresti potuto fare di peggio...» e mi porse la mano.
«Mi dispiace.» Furono le uniche parole che riuscii a pronunciare, ma Filippo mi venne in soccorso.
«La prima volta che rientro a casa verrò a trovarti!»
Non potei trattenere una lacrima.
Purtroppo ancora una volta dovevo ammettere che non mi ero liberato del tutto da quello che era un punto debole del mio ex mestiere: siamo troppo abituati a giudicare, spesso a giudicare le apparenze, non siamo in grado di comprendere il contesto. Giurai a me stesso che mai sarei caduto nello stesso errore.

Il caso volle che alcuni giorni dopo morisse il nonno di uno dei ragazzi. Mi recai al funerale e per la seconda volta in poco tempo nel cimitero del paese. Dopo la sepoltura indugiai qua e là soffermandomi in quella porzione di camposanto destinata alle sepolture dei bambini. Il ghiaino candido delimitava delle piccole porzioni di terra su un lato delle quali sorgevano statuette in gesso chiaro di angioletti di varia foggia.
Ancora una volta un nome di un bimbo di poco più di un anno, morto nel 1966 colpì la mia immaginazione, ma questa volta non avrei commesso errori. Evitai anche la puntata in archivio, non volevo assolutamente essere influenzato da un sospetto così vago.
Annullai i miei impegni delle serate successive e all'imbrunire mi recai nel capoluogo. Scelsi un luogo un po' appartato ma di buona visuale sul tutto il piazzale della stazione.
Lo scorsi la quarta sera, alle nove e venti, lo vidi uscire con una cartellina sottobraccio. Scesi dall'auto e lo seguii da lontano, si era incamminato verso il centro cittadino. Giunto in piazza Brà si avvicinò ad una panchina nei giardini su cui era seduta una ragazza dai capelli castani. Lei sì alzò e i due si abbracciarono e si baciarono intensamente, poi restarono qualche istante a fissarsi negli occhi. Da lontano non potei notare i loro sguardi fluttuanti tra un'immensa gioia e un'offuscata tristezza.
Non avrei voluto rompere quell'incanto struggente, ma vincendo il mio pudore e tumulando i miei sensi di colpa, lentamente mi avvicinai alla coppia.
«Ciao, Filippo.» Dissi quando fui a due passi dai giovani.
Passò un istante, non di smarrimento, non di sorpresa, ma forse solo di rassegnazione.
«Ciao professore.» Mi rispose e la sua sofferenza interiore scomparve prima ancora che potessi percepirla.
La ragazza invece appariva francamente scossa dalla mia apparizione.
«Ti presento Francesca.» continuò Filippo.
Porsi la mano alla ragazza con un sorriso sincero sulle labbra.
«Piacere, dissi, mi chiamo Guglielmo, ma tutti mi conoscono come il professore, è veramente una ragazza splendida, peccato non averla conosciuta prima.» Affermai rivolto a Filippo.
«Tu lo sai che non è possibile.» Dichiarò ancora il ragazzo.
«Nulla di ciò che è onesto è impossibile, basta avere coraggio.»
«Tu non conosci mio padre, professore.»
La ragazza taceva, visibilmente spaventata.
«C'è un innocente in prigione, questo lo tu sai!» La mia non era una domanda, ma un'affermazione.
«Non ho ucciso io Mariangela, questo io so e questo lo sai anche tu.»
«Non è sufficiente, tu hai una responsabilità.» Il mio tono di voce cominciava a salire.
La ragazza piangeva sommessamente.
Mi rivolsi a lei.
«Francesca la sera del 16 maggio vi siete incontrati come questa sera, non è vero?»
La ragazza si rivolse a Filippo.
«Non puoi continuare a far finta di niente, non possiamo continuare a fuggire, ci dovremo fermare prima o poi!»
«Quella sera vi ha visto anche Lorenzo, ma tu lo hai ignorato, avevi paura che tuo padre venisse a sapere della vostra relazione, non è così?»
«Sì, sì, è così!» Rispose la ragazza tra le lacrime.
Il ragazzo scosse la testa in segno di sconsolato assenso.
«A che ora sei rientrato a Padova quella notte?»
«Era l'una passata.»
Attese un attimo, ma non attese l'incalzare delle mie domande. Il suo tono e il suo sguardo erano rassegnati, ma non disperati. Pensai che fosse un ragazzo forte e intelligente, ma compresso da eventi più grandi di lui.
«Quando rientrai Renzo non c'era, il suo letto era intatto. Tornò verso le sei del mattino, aveva un aspetto sconvolto. Gli chiesi dove fosse stato e mi aggredì affermando che erano affari suoi, che lui non aveva mai interferito con i miei, anzi che mi aveva sempre coperto. Mi intimò di tacere, altrimenti avrebbe detto tutto a mio padre.»
Qualche secondo di silenzio.
«Il mio in fondo era solo un sospetto, sapevo solo che negli ultimi tempi si vedeva con Mariangela, che la cosa non piaceva ai suoi, ma suo padre non era come il mio, e poi mi pareva una storiella da poco, come si può incolpare una persona di un delitto solo perché la notte del delitto se ne è stato in giro non si sa dove.»
«Hai ragione, affermai è solo un sospetto, ci penserà chi di dovere a trovare le prove, ma questo è un fatto che tu non devi e non puoi tacere se ti fosse chiesto.» Affermai a mia volta.
«Cos'altro sai tu?» Mi chiese.
«Ti ricordi cosa successe nove anni fa nella famiglia di Renzo?»

Non attesi che mi rispondesse.
«Nel 1966 a Renzo morì un fratello di poco più di un anno, era ammalato di talassemia maggiore...»
I due giovani mi guardarono attoniti, ma Filippo aveva compreso tutto.
«Vieni con me, dissi, questa notte dormirai a casa mia, domani ci aspetta una giornata molto dura.»


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