L'astronauta - Seconda parte

Xjjqz rimase senza parole a guardare la nave con a bordo Prrtky dilaniarsi e andare in mille pezzi, l'enorme palla di fuoco nascere quasi dal nulla dell'oscurità e folgorare le sue pupille.
Dentro di lui si mescolarono mille pensieri e mille sensazioni: qualcosa di simile ad un sottile e perverso piacere per la perdita di tutto ciò che conosceva e in fondo detestava, dolore per la morte di Prrtky, sconcerto perché era la prima volta che vedeva qualcosa esplodere, qualcosa non funzionare. E paura, una grande paura perché in fondo ciò che detestava era pur sempre la sua vita, la sua routine fatta di computer, di comandi e di missioni noiose. Non conosceva altro, non aveva altro. Solo i suoi strani sogni.
Ma non ebbe il tempo di razionalizzare il groviglio di emozioni intrecciate dentro di lui.
I frammenti della nave madre investirono ben presto la navetta Beta.
Le segnalazioni luminose e sonore si accesero all'unisono.
Lo schermo del computer di bordo era tutto un lampeggiare di lucette e un gracchiare di voci metalliche.
«Dati relativi all'angolo di discesa da reimpostare»
«Attenzione, velocità calcolata troppo elevata. Possibili danni allo scafo»
Xjjqz si fece prendere per un attimo dal panico.
Il computer era in tilt e andava riprogrammato prima che succedesse davvero qualcosa di serio.
Sentì come una scarica salirgli su per la colonna vertebrale.
Non sapeva che era adrenalina.
Mai sperimentato prima d'allora quella strana sensazione di eccitazione febbrile.
Solo una lunga distesa di calma piatta.
Passato lo stordimento ritrovò il sangue freddo e si diede da fare.
Era probabile che i disturbi causati dalla vicinanza del buco nero avessero fatto registrare al computer dati imprecisi e che l'esplosione avesse fatto deviare la navetta dalla traiettoria originale. Di conseguenza tutto ciò che era stato calcolato e impostato si ritrovava ora ad essere inservibile.
Ma ormai la navetta Beta era già dentro all'atmosfera, e Xjjqz sperò che almeno lì il buco nero non facesse sentire la sua presenza, e gli consentisse di eseguire al volo calcoli sensati.
Altrimenti cosa sarebbe successo?
La sua mente si bloccò un attimo mentre le mani continuavano a battere i tasti e la sua voce continuava ad emettere comandi vocali.
Altrimenti cosa sarebbe successo?
Per morire si andava sul pianeta Mor.
E Prrtky? Cosa gli era successo? Era morto? Ma come si faceva a morire?
Mai sentito che qualcuno fosse morto in servizio, che qualcosa fosse andato storto.
Quando ebbe terminato di reimpostare i dati non gli rimase altro che attendere il responso del computer.
Dall'oblò vedeva stralci di nubi schizzare veloci attorno alle paratie della navetta.
Ma non erano come i densi agglomerati di smog spaziale che fluttuavano sempre sulle superfici dei pianeti abitati.
Anche se le vedeva a velocità altissima gli sembravano diverse.
Erano più chiare, bianche, forse.
Bianche come la corazza di lega che ricopriva la terra secca?
No.
Facevano pensare a qualcosa di morbido.
Come una carezza.
Ma Xjjqz non lo sapeva.
Mai ricevuto una carezza in tutta la sua vita, mai sperimentato qualcosa di simile all'ovatta, alle nuvole chiare dell'alba, alla panna montata.
Forse si poteva dire che il campo di stasi sul quale riposava fosse in un certo senso morbido, ma non rendeva bene l'idea che stava nascendo nel suo cervello, nel suo cuore, nella sua mente.
La navetta si mise a vibrare, dapprima con delicatezza, un tremolio quasi piacevole, poi sempre più violentemente, finché Xjjqz fu assalito dal panico.
Gli piaceva sempre meno quella situazione del tutto nuova, e sul microchip con manuale di guida incorporato che gli avevano inserito nel cervello al suo ingresso nel corpo dei piloti non era spiegato il da farsi in tali circostanze.
Era anche ovvio.
I casi di mal funzionamento non erano più contemplati da diversi secoli.
E ora?
Ci fu uno scossone ancora più forte degli altri, e Xjjqz si ritrovò con la faccia schiacciata sul vetro dell'oblò rettangolare.
Quello che vide fu a suo modo sensazionale.
Colori.
Colori sfrecciare sempre più vicini, sotto di lui, venire incontro alla navetta.
Che fosse la volta buona?
Che la superficie di quel pianeta non fosse ricoperta dalla solita corazza di lega bianca?
Dalla nave madre non avevano potuto vederlo, perché l'atmosfera di quel pianeta era molto densa e non permetteva di osservare la superficie.
Poi ci fu un impatto violentissimo, e Xjjqz non pensò più a niente.

Certo la corazza di lega bianca aveva anche i suoi aspetti positivi.
Se non altro era stata a suo tempo progettata per fare in modo che in caso di incidenti il materiale di cui era costituita assorbisse in maniera notevole l'impatto, non si frantumasse, non creasse sporgenze appuntite e quant'altro.
Anche lo scafo di ogni astromezzo aveva simili caratteristiche.
Di conseguenza, quei rari casi di incidenti che si potevano ricordare, tutti capitati alcuni secoli addietro e imputati ad errori umani , non avevano praticamente avuto nessuna conseguenza per le persone coinvolte.
Anche la tuta che ricopriva il corpo degli uomini era compatibile con ogni materiale conosciuto, progettata appositamente per fare in modo che eventuali urti, per quanto violenti, si ripercuotessero in maniera molto lieve sull'organismo biologico in essa contenuto.
Ma questo pianeta aveva caratteristiche assai diverse da quanto l'umanità moderna, proiettata verso un futuro sempre più spinto, potesse concepire, o ricordare.
La navetta di Xjjqz per prima cosa aveva falciato un'ampia striscia di boscaglia rigogliosa, poi si era andata a schiantare contro una solida parete rocciosa, ora in parte sgretolata dall'impatto.
Naturalmente Xjjqz non sapeva neanche cosa fosse un bosco.

Xjjqz aprì gli occhi, ma per qualche minuto il segnale visivo non raggiunse il suo cervello.
Guardava senza vedere, senza cercare di interpretare minimamente ciò che gli stava attorno.
Anche perché, a dire la verità, non aveva mai visto niente del genere.
Poi i sensi cominciarono lentamente a risvegliarsi.
Quando Xjjqz fu tornato padrone di se stesso e del proprio corpo, ebbe un sussulto.
Che razza di posto era quello?
Il suo sguardo vagava a destra e a sinistra su un puzzle di colori mai visti, uno più chiaro e uno più scuro, che si intrecciavano e si rincorrevano in forme sconosciute, sottili, lunghe, contorte, morbide e nervose.
Non lo sapeva, ma stava osservando il cielo azzurro scuro della sera attraverso l'intrico di rami di una fitta boscaglia, la stessa solcata dalla sua nave prima che finisse contro il fianco roccioso di una collinetta.
Xjjqz si alzò a sedere continuando a guardarsi attonito attorno, finché non si accorse, in mezzo alla confusione dei suoi cinque sensi, che un braccio e un ginocchio gli facevano male.
Allora distolse un attimo lo sguardo da ciò che lo circondava per rivolgerlo verso se stesso, e vide un'altra cosa incredibile.
La sua tuta, la tuta che indossava da quando era nato, che era cresciuta assieme a lui, che si puliva da sola, che mai aveva lasciato scoperto un solo centimetro della sua pelle, dal collo ai piedi, si era rotta.
Dal taglio slabbrato che aveva sul braccio sinistro usciva un rivolo di sangue ora seccato, di un colore rosso scuro.
Lo stesso colore dipingeva anche un sasso appuntito posto a un passo da lui.
Sicuramente era contro quello che il braccio di Xjjqz aveva sbattuto.
Sul ginocchio, invece, la tuta non era tagliata, quanto piuttosto completamente mangiata, così come la pelle che gli ricopriva la rotula.
Xjjqz era frastornato dalle novità.
Certo sapeva che il corpo umano era fatto di tessuti, di ossa, di organi interni, ma non aveva mai visto il suo sangue, né la sua urina, né niente di niente, se non la tuta bianca che lo ricopriva.
E non aveva mai provato dolore fisico.
Era una sensazione nuova che lo sconvolgeva.
Il taglio e la sbucciatura bruciavano, ma Xjjqz quasi sorrideva.
Per quanto ne sapeva lui quei traumi potevano anche portarlo alla morte, non aveva idea di come funzionasse il suo corpo sprovvisto della tuta, ma piano piano una strana euforia aveva invaso la sua mente, un fortissimo senso di eccitazione sconvolgeva i suoi sensi.
In preda a queste emozioni si alzò in mezzo a quel mondo sconosciuto, e quando fu certo di poter restare in piedi mosse i primi passi guardandosi attorno avido di meraviglia come un bambino.

Alla vista della sua navetta piuttosto malconcia Xjjqz era rimasto attonito, ma si era dato da fare, e dopo essersi letto gran parte dei manuali per l'avvio delle procedure di riparazione automatiche, peraltro mai usate prima d'allora, aveva programmato l'indistruttibile sistema informatico dell'astromezzo perché rigenerasse lo scafo e tutta la strumentazione andata distrutta nell'impatto, compresa una nuova tuta in lattice per il suo corpo.
Non poteva sapere se la navetta avrebbe funzionato di nuovo oppure no, dal momento che una procedura del genere, per quanto testata col simulatore ad ogni partenza, non era mai stata sperimentata nella pratica.
In questo Xjjqz sarebbe stato una specie di pioniere, come del resto nell'esplorazione di quel nuovo e strabiliante mondo.
Dopo che ebbe impostato tutti i dati il display visualizzò il tempo previsto per le riparazioni.
Venticinque ore.

Xjjqz aveva cominciato ad esplorare i dintorni.
L'unica cosa che si era portato dietro era una specie di sacca con dentro quel po' di cibo che non si era disintegrato nell'impatto con la parete rocciosa.
Per il resto aveva addosso solo la sua tuta malconcia, e nient'altro.
Tutto, in quel posto, era strabiliante.
Il terreno, non rivestito di lega bianca, era abbastanza soffice al contatto e molto scuro, quando non veniva coperto dalla vegetazione.
Ma naturalmente Xjjqz non sapeva cosa fosse un albero, né una pianta.
Rimase per diversi minuti a toccarne le foglie, il tronco, a sfiorare i fiori che poteva vedere, ad annusarne il profumo.
Si muoveva con circospezione.
Per quanto ne sapeva, qualcosa poteva anche essere pericoloso, mortale, forse.
Camminava trascinando un po' la gamba destra, ma il dolore passò presto in secondo piano, lasciando il posto alla meraviglia.
E i suoni?
Non riusciva bene a capire cosa fosse a produrli, ma ogni tanto udiva degli stridii, dei mormorii, dei rumori non identificati, soffusi, impulsivi, strozzati.
Poi qualcosa prese ad accarezzargli il volto, i capelli, senza che Xjjqz riuscisse a vedere, a capire di cosa si trattasse.
Era il vento.
Fu allora che capì che alcuni dei rumori che sentiva erano dovuti alle foglie che si sfregavano una sull'altra nell'aria della sera.
Quel posto era davvero incredibile, ad ogni passo vedeva qualcosa di nuovo, scopriva cose che non aveva neanche mai immaginato.
In passato era stato così per tutti gli uomini? Millenni prima un posto del genere sarebbe parso tanto alieno? E un mondo fatto di metallo, di linee geometriche, di assenza di emozioni, di colori, come sarebbe sembrato?
Una cosa normale?

Continuò a camminare in mezzo alla vegetazione scoprendo passo dopo passo nuove meraviglie, finché si imbatté in qualcosa di ancor più stupefacente.
Dopo alberi, piante, fiori, la sensazione del vento sulla pelle del viso, i suoi occhi si posarono su una cascata alta quattro o cinque metri, con un laghetto ai suoi piedi.
Sulle rive erbose si stavano abbeverando degli strani esseri mai visti prima d'allora.
Xjjqz si arrestò per lo stupore e la paura.
Che forme di vita erano mai quelle? Potevano essere pericolose?
Rimase immobile ad osservarle, ma anche loro si accorsero della sua presenza.
Si girarono per un istante a guardarlo con occhi dolci e inoffensivi, poi sgambettarono via sulle quattro zampe agili e lunghe che avevano.
Il cuore di Xjjqz batteva forte.
Si avvicinò zoppicando alla pozza che conteneva quello strano liquido cristallino e gorgogliante.
Xjjqz non aveva mai visto l'acqua allo stato naturale. Solo quella addensata che prendeva in tavolette quadrate.
Ma quel posto gli trasmetteva una sensazione positiva.
Aveva notato che gli esseri di prima, per quanto strani fossero, avevano due orecchie, due occhi, un naso e un bocca come gli uomini, e affondavano il muso nello specchio d'acqua, intenti forse a bere.
E se fosse stato un liquido velenoso?
Xjjqz era talmente preda delle proprie emozioni che non ci stette a pensare su molto, e avvicinando lentamente una mano alla superficie del laghetto la immerse intento a scoprire quali altre sensazioni avrebbe provocato in lui.

Xjjqz non sapeva cosa fosse il legno, non sapeva cosa fosse una baita, ma nel vedere i tronchi disposti in quella maniera intuì che doveva trattarsi di una qualche forma di abitazione.
Erano passate sette ore dal momento in cui aveva abbandonato la sua navetta.
Avrebbe trovato qualcuno lì dentro?
Rimase fermo nella stessa posizione per diversi minuti, fissando la strana costruzione che gli stava davanti, attento a cogliere ogni possibile suono, ogni movimento.
Ma non percepì assolutamente niente.
Si lasciò consumare un po' dall'indecisione, poi mosse i propri passi verso quella che gli sembrava la porta.
Xjjqz non aveva mai visto una maniglia in vita sua, sulle astronavi e nelle basi non ne esistevano, tutte le porte avevano automatismi che le facevano aprire e chiudere senza bisogno nemmeno di sfiorarle, ma il suo cervello cominciava stranamente ad entrare in sintonia con quel posto, e a suggerirgli che se non avesse afferrato quel pezzo di legno non avrebbe mosso un passo di più.
La porta si aprì cigolando.
Xjjqz la scostò lentamente, eccitato e spaventato da quello che avrebbe potuto trovare.
Era troppo chiedere, sperare di imbattersi in qualcuno, in un essere vivente, intelligente, capace di comunicare?
«Ben arrivato» sentì dire da una voce flebile.
Xjjqz trasalì.
I suoi muscoli si contrassero e cominciò a guardarsi freneticamente attorno.
Gli ci volle un po' per capire che quella cosa stesa su una specie di letto era un uomo.
Un uomo coi capelli lunghi e bianchi, spettinati, la barba rada e scomposta.
Non indossava la tuta, ma aveva degli strani teli avvolti attorno a sé.
Xjjqz non aveva mai visto un essere umano senza tuta, né uno così disordinato, né uno così affascinante nella sua totale stravaganza e diversità.
«Chi è lei?» disse Xjjqz col candore di un bambino.
«Veramente sei stato tu a venire qui, a venire da me. Dovrei essere io a farti questa domanda»
«Mi chiamo Xjjqz»
«Il solito nome impronunciabile» fece l'uomo sorridendo e tossendo «Io sono Damian»
«Damian» ripeté Xjjqz.
Che nome insolito. E che strano pronunciare quella parola. Dava come un senso di distensione alla sua bocca, alla sua lingua mentre la emetteva.
Damian.
Una parola affascinante. Suonava antica.
L'uomo continuava a guardarlo con una strana espressione sul volto.
«Non sei il primo ad essere arrivato qua. Ma sarai l'ultimo a vedermi. Sto morendo. Lo sai cosa vuol dire?»
«So cos'è la morte» disse Xjjqz «ma non ho mai visto morire una persona»
Ripensò a Prrtky.
Era morto? E se sì, come? Xjjqz non riusciva ad immaginarselo.
«Perché stai morendo? È perché non hai la tuta?»
Il vecchio rise e tossì ancora.
«Non ho mai portato quella vostra maledetta tuta. Si vive benissimo anche senza, sai? Non è affatto indispensabile. Anche tu che la indossi da quando sei nato potresti abituarti a farne a meno, lentamente. Altri uomini che sono venuti qui l'hanno fatto»
«E adesso dove sono, questi uomini?»
«Sono rimasti sul pianeta. Hanno fondato alcuni villaggi. Non saprei dirti dove sono. Dovresti andarli a cercare»
«E come mai sono giunti qui?»
Damian ebbe un attacco di tosse.
Il suo respiro emetteva a tratti un suono liquido.
Xjjqz gli andò più vicino senza avere idea di cosa gli stesse succedendo.
«La curiosità li ha spinti qui. Come per te, credo. Da millenni l'uomo si è reso una creatura arida e fredda, ma qualcuno conserva ancora, dentro di sé, la curiosità che ci ha sempre animato e distinto. Per questo c'è ancora speranza»
Xjjqz non era sicuro di capire quanto il vecchio gli stava dicendo, ma sarebbe stato molto felice di incontrare le altre persone che popolavano il pianeta.
«Sto morendo, figliolo» ripeté Damian «Ma prima voglio farti un regalo»
Il vecchio rimase a fissare il vuoto per qualche istante, come avesse perso il filo dei propri pensieri. Poi stese un braccio magro e spigoloso, ripiegando tutte le dita all'infuori dell'indice, che rimase dritto a puntare oltre il muro della casa.
«Lo senti questo rumore che va e che viene?» sussurrò.
Xjjqz si fermò ad ascoltare. Era tutto così nuovo, così strano e inusuale che dovette cercare di isolare quale suono il vecchio intendesse.
Gli sembrò di avere capito e fece cenno di sì con la testa.
«In questo posto troverai molte cose che non hai mai visto, ma una la devi assolutamente vedere subito. Esci da questa porta, gira attorno alla casa e sali sopra la collina di sabbia. Ti si aprirà alla vista uno scenario che non ti lascerà indifferente»
Xjjqz esitava. Non sapeva se uscire dalla casa. Aveva tante cose da chiedere al vecchio, tante cose da scoprire, e non voleva lasciarlo.
«Cosa aspetti? Vai...vai e poi torna da me. Voglio vedere i tuoi occhi dopo che avrai visto...»
Xjjqz tentennò ancora, poi se ne uscì in fretta per fare nel minor tempo possibile quello che Damian gli aveva chiesto .

La sabbia aveva una strana consistenza, sotto i suoi piedi.
Non era solida come la lega bianca, né come il terreno scuro su cui aveva camminato per giungere fino a lì, non era morbida come il campo di stasi su cui era solito riposare. I suoi piedi affondavano di un paio di centimetri ad ogni passo, e Xjjqz poteva vedere piccole nuvolette di minuscole particelle alzarsi come sbuffi. Anche il colore era insolito. Chiaro ma diverso da ogni altra cosa da lui mai vista.
Il rumore di cui parlava il vecchio continuava a farsi sentire, ritmato ma mai uguale ad ogni ripetizione, a volte più lungo, o più corto, sempre più potente e fragoroso ad ogni suo passo.
Ma Xjjqz non poteva immaginare cosa avrebbe visto al di là di quella piccola collinetta sabbiosa che gli impediva lo sguardo.
Quando ne raggiunse la sommità rimase fermo, immobile per un paio di minuti ad osservare uno scenario di tale bellezza che all'inizio la sua mente si rifiutò di accettarlo, di osservarlo, di lasciarsi avvincere dalla sua incredibile meraviglia.
Aveva davanti a sé il mare.

«L'hai visto?» chiese Damian.
Era passata un'ora da quando il giovane Xjjqz era uscito dalla porta, e il vecchio aveva pensato quasi di non riuscire a vederlo più.
Invece era tornato.
Sembrava straziato dalla meraviglia, quasi che la bellezza di ciò che aveva visto gli avesse donato un'incredibile sofferenza, uno struggimento a lui del tutto sconosciuto.
Doveva averlo visto per forza.
Glielo si leggeva in volto.
«Come si chiama?» volle sapere Xjjqz.
«Ciò che hai visto è il mare» disse il vecchio.
«Il mare» ripeté Xjjqz lentamente, per assaporare a fondo il gusto di quella parola.
Un'incredibile tristezza gli mascherò il viso.
Damian provò pena per lui.
Per tutta la vita non aveva fatto altro, il vecchio lo sapeva, che vivere circondato dal metallo, dal bianco della lega che invadeva quasi tutti i pianeti conosciuti, ovvero tutti quelli che la Federazione credeva esistessero nei dodici universi noti. Altri glielo avevano raccontato. Vivendo in quel mondo asettico e ordinato non aveva mai saputo cosa fossero la meraviglia, la bellezza, la gioia, la fantasia, l'irrazionalità, il mistero. Ora era come se tutte le sensazione che non gli avevano consentito di provare si fossero scatenate dentro di lui lasciandolo sgomento, senza difese, smarrito al pari di un bambino.

Xjjqz si svegliò e aprì gli occhi.
«Stavi sognando» disse il vecchio.
«Cosa?»
«Stavi sognando» disse ancora Damian «Ti muovevi e parlavi nel sonno»
«Allora è vero» fece Xjjqz «Cosa sono i sogni?»
Damian non si stupì. Anche agli altri viaggiatori pellegrini giunti prima di Xjjqz aveva dovuto spiegare molte cose. In un certo senso si sentiva come un angelo che ridonava umanità agli uomini.
«I sogni sono storie, immagini, suoni che vedi e senti quando dormi, creati dalla tua mente sulla base dei tuoi ricordi, delle tue conoscenze, delle tue paure. Possono essere sogni belli oppure sogni terrificanti, incubi, puoi sognare cose vere o cose che nella realtà non possono esistere. Mai sognato di volare?»
«Non lo so» rispose Xjjqz.
Si guardò attorno spaesato.
«Ma dove mi trovo?»
«Questo è il pianeta da cui tutto ebbe inizio. Il pianeta Terra»
«Terra?» fece Xjjqz «Questo posto si chiama Terra? È un nome buffo. È un termine che esiste ancora»
«È un nome semplice» disse Damian. «Per molto tempo gli uomini abitarono solo qui, su questo pianeta. Soltanto quando si furono evoluti, migliaia di anni dopo la loro comparsa, partirono per colonizzare altri pianeti, finché colonizzarono tutti gli universi conosciuti e scordarono addirittura il luogo dal quale erano partiti»
Damian ebbe un attacco di tosse.
Sembrava peggiorasse di minuto in minuto.
«Mi spiace, figliolo. Lo so, avresti mille domande da rivolgermi, ma non potrò risponderti. Puoi trovare altri che sazieranno la tua curiosità, quelle stesse persone che sono giunte sul pianeta prima di te, che mi hanno insegnato la vostra lingua, e che mi hanno chiesto di insegnar loro molte cose, quand'ero giovane. Non hai che da raggiungerli, da trovare il villaggio. E troverai tutte le riposte che vuoi. Se poi deciderai di tornare alla tua vita, ti chiedo solo di non rivelare alla Federazione l'esistenza di questo posto. Non fare che lo ricoprano di lega bianca, come mi hanno raccontato, non fare che lo distruggano, che lo sezionino per studiarlo. Non permettere...»
Il vecchio tossì ancora, violentemente.
«Non lo permetterò» disse Xjjqz
Damian si distese, febbricitante.
Il suo corpo prese a tremare.
Xjjqz non sapeva cosa fare.
«Damian?» lo chiamò. «Damian?»
Preso dall'angoscia cominciò a guardarsi attorno, incapace di pensare.
Xjjqz non conosceva la malattia, né la morte.
Era totalmente in balia di quello che stava succedendo, e non aveva la minima idea di cosa fare.
«Damian» disse mentre gli occhi gli diventavano lucidi «Damian!» urlò.
Ma nessuno lo stava a sentire.

Dunque era così che moriva un uomo?
Tutti sapevano, tecnicamente, cosa succedeva nel momento esatto della morte.
Il cuore smetteva di battere.
Era un concetto semplice, ma nessuno l'aveva mai visto nella pratica, se non quelli che venivano lasciati a morire senza la tuta protettiva sul pianeta Mor.
Ma vederlo coi propri occhi era un'altra cosa.
Xjjqz lo considerò una specie di privilegio, a suo modo, un'esperienza che gli altri uomini del suo mondo non potevano compiere.
Dolore e malinconia si mescolarono con tenerezza nel suo animo, partendo dal suo cuore indurito per la vita che aveva condotto sino a quel giorno e procedendo poi lenti fino ad avviluppare dolcemente ogni più piccola fibra del suo corpo e della sua mente.
Dunque era così che moriva un uomo?
La sua vita scivolava via, i suoi occhi si svuotavano di consapevolezza, il suo cuore non batteva più, e tutto quello che era stato, che aveva visto, che aveva pensato, si dissolveva come la scia di un astromezzo nello spazio interstellare, e tornava a diventare polvere di stelle e di pianeti e di comete sognanti, vagabonde nello spazio infinito.
Oppure no?
Rimaneva qualcosa?
Damian gli aveva fatto un grande dono morendo davanti ai suoi occhi.
Gli aveva fatto scoprire sensazioni che mai avrebbe immaginato esistessero, gli aveva dischiuso un grande universo, una vita nuova, l'aveva privato delle risposte che da sempre inseguiva, gli aveva donato la bruciante curiosità di continuare ad inseguirle, e di raggiungerle, un giorno, trovando gli altri uomini che abitavano il pianeta.
Gli aveva donato anche due lacrime calde che presero a scorrergli giù sulle guance lisce.
Anche quelle Xjjqz non le aveva mai viste, né aveva sospettato che potessero esistere.

Note al racconto

Questo è in assoluto il primo racconto di fantascienza uscito dalla mia penna.
L'Astronauta, rimaneggiato più volte a mesi e mesi di distanza e più volte cambiato di finale, è nato tutto da una precisa immagine che si è impressa nella mia mente, l'immagine di un essere umano che non conosce il mare davanti all'immensa distesa d'acqua, al tramonto, in silenzio, ammutolito dalla meraviglia, con l'espressione del viso tra la malinconia, l'assoluto stupore e qualcosa d'altro, d'indefinito e struggente.
Nella mia immagine mentale il cielo era rosato, l'aria fresca, e scendeva anche la neve, a lenti e grandi fiocchi.
Quest'ultimo elemento l'ho tolto dal racconto per non sconvolgere troppo il povero Xjjqz.
Non so se sono riuscita a rendere bene l'idea di questa scena, ma ora che ci penso, che mi sono messa qui a scrivere del perché ho scritto questo racconto, posso quasi affermare che tutto il racconto è venuto fuori al solo scopo di arrivare a dipingere quel momento sul mare.
Ecco, mi è venuta fuori una storia solo per poter mettere su carta un'immagine.
La trovo una cosa molto curiosa.

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