VISITA POMERIDIANA

Erano circa le sei e quarantacinque di pomeriggio e stavano portando via i vassoi con i resti del pasto della sera. La sua degenza durava da circa quattro mesi per cui sia che si trattasse dei vassoi o del passaggio dei medici, oppure dell'orario di visita dei parenti lui non aveva bisogno di guardare l'orologio. Anche perché durante il suo lungo ricovero nessuno era andato mai a trovarlo. In compenso aveva fatto amicizia con un'infermiera, che a volte terminato il suo turno di lavoro si fermava a parlare con lui. Quel giorno sapeva che lei finiva di lavorare alle diciotto e trenta e già pensava che non sarebbe passata a salutarlo quando lei fece il suo ingresso:
«Ciao Carlo,» disse mettendosi seduta, «non dirmi che pensavi che non sarei passata.»
«Infatti avevo pensato proprio questo Chiara,» così dicendo si tirò su a sedere nel letto, «sai il fatto che tra qualche giorno sarò dimesso mi preoccupa molto.»
«Certo non sarà facile tornare a vivere, sai cosa intendo,» lui la guardò, «dal punto di vista economico sei a posto, almeno per un periodo, la casa è tua, lei non ti ha chiesto niente, le interessava come mi hai raccontato andarsene via con quell'altro il più presto possibile,» lui non provava più nessun tipo di sentimento per la sua ex moglie, ma la sofferenza per quella dolorosa e umiliante separazione era ancora tutta dentro di lui, «Alberto sarà dimesso anche lui in questi giorni, quindi penso che tu possa contare sull'amicizia nata tra di voi qui in ospedale, e non credere che io appena uscirai di qui mi dimentichi di te. Quindi fatti forza e affronta la cosa il più tranquillamente possibile, lo so che non è una cosa facile ma tu puoi riuscirci, ed Alberto con te. Ora devi scusarmi ma oggi ho delle faccende da sbrigare, domani sono di servizio e ci rivedremo, ciao Carlo,» gli accarezzò i capelli si alzò ed andò via.
Lui la salutò con la mano e mentre lei usciva dalla stanza il suo pensiero andò ad Alberto l'uomo con cui aveva fatto amicizia in quel reparto ospedaliero, anche lui come Carlo era giunto in ospedale in gravi condizioni, anche se in modo diverso i loro incidenti avevano lo stesso scopo, il fine era analogo.
Si alzò e si diresse verso la stanza accanto alla sua dove c'era Alberto, mentre andava rivedeva gli ultimi minuti prima del suo ricovero.

UN MURO ED UN CANE

Era nella sua auto, il motore spento. Pensava all'epilogo della sua storia con la donna che era stata sua moglie.
Negli ultimi tempi aveva ravvisato in lei uno strano comportamento e dopo più tentativi era riuscito a sapere cosa stesse accadendo alla sua donna. Gli disse che lei si sentiva profondamente in crisi riguardo i propri sentimenti verso di lui. Aveva poi ammesso, ma solo dopo le insistenze di lui di vedersi con un altro uomo, mentendo aveva detto che non c'era stato niente di più che qualche bacio. Quando lei gli aveva chiesto un po' di tempo per riflettere, lui le aveva risposto che di tempo era disposto a dargliene ma non più di tanto, ed a patto che non si fosse vista con quell'uomo. Per qualche giorno sembrò che la cosa funzionasse, lei era meno distaccata ed un poco più disposta al dialogo. Ma un giorno rientrando trovò quella che non si può definire una brutta sorpresa. Girando la chiave nella toppa si era accorto che le mandate, che lui aveva dato alla serratura dopo che la moglie era uscita, non c'erano più. Qualcuno, cioè lei, era entrato. Il sospetto che non fosse sola neppure prese forma che lui era sulla porta della camera da letto. Riuscì nonostante ciò che vide a mantenere un minimo di controllo, quel tanto che gli bastò per giungere alla porta di casa, ed andarsene dopo averle urlato di non volerla più trovare in casa al suo ritorno.
Guardava il muro di fronte a lui distante una cinquantina di metri ed ancora si chiedeva perché per lasciarlo aveva adottato un sistema così umiliante e crudele.
Aveva messo in moto e dopo essersi assicurato, per altro inutilmente, che la cintura di sicurezza non fosse allacciata si era lanciato accelerando sempre di più verso il muro di pietra.
L'impatto, poi il buio, ma il muro aveva ceduto.
Alberto nella sua stanza fissava il soffitto e ripensava ad un ippodromo.
Un giorno un suo amico l'aveva invitato a fargli compagnia all'ippodromo. Lui aveva accettato per fare una cosa nuova, non aveva mai assistito a corse di cavalli. Qualche scommessa per divertimento, un caffè e quel pomeriggio lo passò in modo molto piacevole.
Ma qualche giorno dopo andò di nuovo in quell'ippodromo, stavolta da solo. Cominciò scommettendo poco, ma giorno dopo giorno le sue puntate si facevano sempre più alte.
In breve tempo cedette la sua attività commerciale per onorare i suoi debiti di gioco, si fermò solo quando era quasi senza l'ombra di un soldo. Il denaro che gli era rimasto bastava per dargli la possibilità di riprendersi da un punto di vista economico, intraprendo una nuova attività lavorativa. Più modesta della precedente ed a prezzo di sacrifici. Ma non era questo il problema che lo assillava, era ossessionato da ciò che aveva fatto , i sensi di colpa lo schiacciavano e così decise.
Dal marciapiede aspettava un'automobile o un altro mezzo su quattro ruote che andasse abbastanza veloce. Vide un'auto in lontananza e valutò in un momento di lucida follia che era quella giusta. Quando l'auto fu abbastanza vicina si lanciò. Ma pochi metri prima di lui un cane sfuggito al suo padrone attraversò costringendo l'auto ad un prima brusca frenata, proseguendo l'auto l'aveva poi investito, l'impatto era stato forte ma non abbastanza.
Carlo entrò nella stanza ed Alberto appena lo vide lo salutò sorridendo, si misero a parlare, parlarono fino a quando non ebbero più argomenti, almeno per quella notte.

DIMISSIONI

Uscendo all'esterno abbassarono gli occhi entrambi, era una mattina molto luminosa. Non certo per loro due che si apprestavano a ricominciare a vivere, o riprendere a vivere, se lo erano chiesto e se lo erano detto, ma ogni volta che affrontavano quel discorso finivano sempre per tacere tutti e due.
«Pensaci un po', io mi chiamo Carlo e tu Alberto, in nostri nomi uniti formano quello di un re,» così dicendo Carlo abbozzò un timido sorriso.
«Invece presi da soli come sono, formano il nome di una nullità,» Alberto stava parlando con molta amarezza, «almeno per ciò che mi riguarda, in quanto a te, sei tu che lo sai.»
Tacque così come tacque Carlo, entrambi non accettavano ancora il fatto di essere ancora in vita. Erano avviliti e avevano paura di un futuro che non vedevano.
«Ecco il taxi,» e come reagendo almeno in quel delicato momento, «lo paghi tu Alberto, questo è chiaro,» riuscì a ridere, e l'amico: «Come è chiaro che il pranzo al ristorante lo pagherai tu»! risero, insieme stavolta e salirono sul taxi, dissero all'autista dove doveva accompagnarli e il taxi partì. Era ancora presto per andare a pranzo, quindi andarono a casa di Carlo. Avevano deciso di stare insieme, almeno per un periodo e salvo novità, un po' a casa di uno ed un po' a casa dell'altro.
L'appartamento di Carlo era costituito da due camere da letto, soggiorno con l'angolo cottura ed il bagno, così anche Alberto avrebbe avuto una sua stanza. Finito di sistemare le loro cose si sedettero sul divano in salotto e cominciarono a parlare, questo dopo qualche minuto di silenzio, pareva che ognuno dei due non sapesse da dove cominciare, ed in effetti era così, poi Alberto ruppe quel silenzio che rendeva l'atmosfera angosciante:
«Senti Carlo oggi è sabato, so che non significa niente ma cerchiamo di rilassarci per quanto possibile, soprattutto dovremo mettere un po' di ordine nelle nostre menti.» Carlo aspettò almeno un paio di minuti, poi rispose:
«Sono d'accordo, un paio di giorni di relax ci faranno sicuramente bene, anche se almeno ciò che mi riguarda ci vorrebbe non so quanto tempo per superare l'ansia e lo stress vissuto in attesa di queste dimissioni.»
Il suo amico gli fece capire semplicemente guardandolo che per lui era più o meno la stessa cosa ed aggiunse: «Il problema più grosso ce lo troveremo di fronte quando dovremo decidere cosa fare e soprattutto in che direzione andare. Io futuro non lo vedo nemmeno lontanamente, ti ho già detto che il fatto che mi abbiano salvato la vita non l' ho accettato!»
«E come me non hai accettato di dover vivere ancora,» inspirò, poi emise un lungo sospiro e riprese a parlare, «non so proprio come andrà a finire.» Nelle sue parole c'era tutta l'amarezza di chi sente di subire la vita, Alberto a quel punto si alzò di scatto:
«Per il momento, almeno per adesso, non stiamo a pensarci, vieni andiamo al ristorante»!Si scambiarono una pacca sulla spalla ed uscirono.

BINARI

Uscirono dal ristorante ridendo, mangiando e chiacchierando erano riusciti stavolta a rilassarsi veramente. Avevano parlato anche del futuro, non che avessero fatto progetti, ma ipotesi ne avevano fatta più di una per il futuro prossimo. Uscendo avevano scelto di non prendere l'auto, Carlo ne possedeva una ancora in efficienza, ed erano giunti in quella zona con il tram. Attendevano sulla banchina l'arrivo del tram quando la loro attenzione fu attirata da una ragazza che passeggiava avanti ed indietro a piccoli passi, ad un decina di metri dalla banchina. Fu questione di un attimo poi si dissero che probabilmente non voleva stare in mezzo alla gente. Proprio facendo commenti su quel fatto, per altro abbastanza normale, incrociarono il loro sguardo con quello della ragazza. Un attimo e la ragazza si voltò di spalle di scatto, loro due si guardarono e molto lentamente si portarono verso la ragazza. Il tram stava sopraggiungendo. Loro due erano a fianco della ragazza indietro di qualche passo in modo che lei non si accorgesse di loro. Il tram era vicinissimo. Lei fece per fare un passo in avanti. Si trovò improvvisamente a fianco Alberto e Carlo che la tenevano per le braccia. Il tram sfilò davanti a loro poi si fermò davanti alla banchina.
Lei li guardò con lo sguardo pieno di rabbia poi controllandosi per non gridare come avrebbe voluto:
«Chi cazzo siete! E cosa volete! Perché vi siete impicciati?» i due di fronte all'aggressività della ragazza non sapevano che dire poi fu Carlo a parlare:
«Senti ora cerca di calmarti, andiamo in quel bar, bere qualcosa ti farà bene.»
«Per bere il mio amico non intende caffè o alcol.» aggiunse a sproposito Alberto, la risposta della ragazza non si fece attendere.
«Ascoltami pezzo di stronzo,» la sua voce era un sibilo come quello prodotto da un serpente che si muove rapidamente, e se i suoi fossero stati denti lo avrebbe avvelenato, «chi credi di esser per parlare così, un angelo del paradiso? Un angelo che se ne và in giro a salvare chi a smarrito la retta via. Avevi paura che morendo in quel modo sarei finita all'inferno?» era chiaro che stava essere preda di una crisi isterica e Carlo avendolo capito: «Decideremo quando saremo nel bar cosa bere, perché non ci dici come ti chiami?» e senza darle il tempo di replicare, «Io mo chiamo Carlo, lui Alberto.»
«Io mi chiamo Ilenia,» il tono di Carlo calmo e suadente pareva funzionare, lei stava per mettersi piangere ma reagì, «allora entriamo, io vorrei bere qualcosa di fresco.» pronunciando quelle parole sentì tutto il freddo che sentiva dentro di lei, e anche se non sapeva perché era sicura che anche i due uomini che le avevano salvato la vita poco prima, vivessero in loro lo stesso angosciante gelo.
Usciti dal bar decisero di andare a casa di Carlo. Durante il tragitto lei ebbe conferma che ciò che aveva percepito dei due uomini giusto. Prima Alberto poi Carlo avevano narrato, sia pure brevemente ed in modo sintetico, la loro esperienza. Frattanto era arrivati all'abitazione di Carlo e dopo essersi accomodati lei preso coraggio cominciò a parlare, scaricando almeno in parte l'angoscia che sentiva in se e la tensione vissuta negli ultimi giorni:
«Avevo una relazione con un amico di famiglia, tutto filava liscio finché non lo scoprì mio padre. Ho detto scoprì perché avevo tenuta nascosta la cosa visto la mentalità di mio padre. Avrei voluto cercare di spiegare, anche se sapevo che sicuramente sarebbe stato inutile, ma non mi dette nemmeno il tempo di aprire bocca,» a quel punto fece una pausa, raccontando tutto in un fiato le parole le stavano morendo in gola, deglutì, «mi disse che se non avessi troncato subito con quell'uomo, che per altro era libero da vincoli, visto che ero maggiorenne dovevo andarmene immediatamente, io non volli cedere e così me ne andai il giorno stesso. Mia madre, poverina, aveva cercato di mediare ma era stato inutile, quando la salutai stava piangendo.»
Si alzò e versò dell'acqua nel bicchiere, bevve e si mise di nuovo seduta, «persi presto il piccolo impiego che avevo, il mio datore di lavoro era amico di mio padre, e senza mezzi termini mi licenziò. Avevo ancora un po' di denaro e il piccolo appartamento dove vivo è di mia proprietà,» prendendosi di nuovo una pausa guardò temendo di annoiarli i due uomini, ma si accorse che non era così, anzi i due amici la stavano ascoltando con evidente interesse, «finito il denaro pensai di chiedere aiuto a mia madre, ma era troppo rischioso per lei, visto che qualche volta l'aveva picchiata per motivi molto meno importanti. Per il suo bene rinunciai, comunque ci tenevamo in contatto attraverso una sua amica. In quanto all'uomo con cui avevo la relazione vi dico soltanto che vista la situazione troncò senza darmi neanche una spiegazione. Arrivai così a prostituirmi,» dal suo tono si capiva che non si stava affatto giustificando, «fu umiliante, ma riuscii a sopportarlo. Finché un cliente, un porco bastardo, mi umiliò in modo osceno, inenarrabile, io mi ribellai e finii al pronto soccorso. Qualche giorno dopo ero di nuovo a posto, stamattina non vedevo più segni sul mio viso, e nemmeno sul mio corpo.»
Poggiò il suo viso sulla spalla di Carlo e pianse a lungo.
I due avevano assistito al suo sfogo in silenzio, poi quando lei sembrò essersi ripresa Alberto per spezzare una tensione quasi palpabile propose un gioco, la prima idea che gli venne in mente fu di proporre una partita a carte. La cosa funzionò, e dopo aver giocato per gran parte del pomeriggio la sera ordinarono delle pizze per telefono.
Mangiarono e continuarono a parlare, chiaramente evitando di toccare certi argomenti, poi vinti dalla stanchezza e dal sonno andarono a dormire.
Carlo aveva ceduto la sua stanza ad Ilenia, e si era sistemato sul divano in soggiorno, mentre prendeva sonno pensava al giorno dopo, avevano deciso di fare una gita.

IL BORGO

Dopo circa due ore di auto giunti nei pressi di un piccolo borgo decisero di fermarsi. Il posto era più invitante dei paesi che avevano attraversato fino a quel momento. Era piuttosto antico, non molto grande, poco distante si vedeva svettare sulle vecchie case il campanile di una chiesa. La cosa più strana stava nel fatto che il paese sembrava disabitato. Capirono che così non era, alcune case avevano le imposte o le finestre aperte, davanti a qualche casa cerano il bucato steso ad asciugare.
«Guardate, qualche essere vivente c'è.» disse Alberto additando alcune galline che insieme a delle oche passeggiavano per un viottolo. Per quanto scrutassero attorno a loro non vedevano anima viva.
«Gli abitanti sono certamente pochi considerando il paese,» disse Ilenia, «forse a quest'ora sono tutti in chiesa.»
«Guardate che la messa il parroco la dice alle otto del mattino,» si voltarono per vedere chi avesse parlato e si trovarono di fronte una vecchia signora che aveva un'aria simpatica, «avete sentito un suono di campane arrivando qui?» uno di loro fece cenno di sì, e l'anziana donna, «i rintocchi delle campane erano dodici, e qui la gente và a mangiare a quell'ora. Poi oggi è domenica e qualcuno se ne andato giù in città. »
«Vive da molto qui signora?» chiese Carlo.
«Ci vivo da sempre e non dirmi che non l' hai capito. Vedo che conosci le buone maniere visto il sistema che hai usato per chiedermi quanti anni ho,» poi rivolta ad Ilenia, «tu sei la più giovane, dimmi quanti anni ho secondo te.»
Ilenia era in evidente imbarazzo: «Non saprei signora,» si limitò a dire.
«Ne ho novantasette, tra non molto arriverà la mia ora, ma lo sapete anche voi che tutti dobbiamo morire,» la vecchia non si accorse che l'espressione sui volti dei tre era mutata di colpo, «comunque qui non c'è niente da vedere, tranne la chiesa che è molto antica, ora è chiusa però,» detto questo si voltò e rientrò in casa.
«Su quel cartello c'è scritto belvedere vogliamo andarci?» Carlo era stato il primo a riprendersi dall'effetto provocato dalle ultime parole dette dalla vecchia.
Alberto prendendo sottobraccio Ilenia che era rimasta praticamente bloccata e continuava a guardare a terra disse: «Dai andiamo, ci sarà sicuramente un bel panorama.»
Poco dopo erano giunti al belvedere, in effetti il panorama che offriva la vallata era mozzafiato, per la bellezza ma anche per l'altitudine. Si sedettero a terra erano in uno stato di prostrazione totale, Ilenia trovò la forza per parlare:
«È proprio spettacolare questa vista,» smise di parlare e come pensando continuò, «sentite anche voi la vita che si respira dall'atmosfera che sale da laggiù?» e senza curarsi di una loro risposta, «c'è anche tanta pace in fondo a questa valle,» a quel punto afferrò i due per la mano e si alzò, loro seguirono il suo movimento, erano ora in piedi, i precipizio distava poco più di un metro. Loro però non se ne avvedevano, restavano ritti in piedi con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto il telefonino di Carlo squillò, lo estrasse dalla tasca quel tanto per vedere chi lo stesso chiamando, si trattava di Chiara: fissava il telefonino...


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