La signora * penetrò nello studiolo, dove sapeva avrebbe sorpreso il marito posatamente intento ai suoi disbrighi – che richiedevano un raccoglimento e un'operosa inerzia più volte rogati e nondi-meno mai (pressoché) incontrastati – con la medesima intrepida arditezza che la "Pucelle d'Orleans" avrebbe profuso nello sguardo rivolto ai fortilizi da prendere d'assalto: – Per venerdì prossimo (non questo, ma quell'altro ancora), siamo stati invitati a una festa in campagna.
Il signor *, che nel corso degli anni aveva imparato ad opporre il più misurato sangue freddo alle traversie che la sorte recapita, lasciò smottare giù in caduta libera le palpebre, sopraffatte da un peso improvviso, e se in apparenza appoggiò quieto la schiena alla poltroncina, in realtà si abbatté sullo schienale, folgorato nella psiche.
– Io, per me, una festa in campagna la preferisco – incalzò l'aggreditrice – : c'è più cordialità, si sta più rilassati senza troppe formalità, c'è un senso maggiore dell'ospitalità, meno bisogno di fare ele-ganza... non credi? – ma l'interrogativo, lungi dall'essere retorico soltanto, nascondeva – eccome! – un'inflessibile asserto, comparabile a quello di quel gran sardo: "... e chi non beve con me... peste lo cτlga!"
Il signor * accolse l'ambasceria con genuina apprensione, poiché provava un'istintiva ripulsa per i ricevimenti in genere, e con la più giocosa amara ironia che seppe trarre, debolmente si difese: – Chissà che non ci troveremo pure quella simpatica signora che conosce impareggiabilmente tutte le storie delle famiglie e non si lascia sfuggire la benché minima occasione di riversare il suo sapere nelle orecchie del più vicino ascoltatore... Era in effetti un'apologia scarsotta, dalla moglie facilmente dispersa replicando che no, la donna era fuori sede, a trovare la figlia maritata con un ufficiale medico della Marina, provveduto di baffi e di altre fastidiose complicazioni di genere venoso in zona peritonea-le – così dimostrando, per l'occasione, di non soffrire soggezione alcuna di scialbe, marginali rivalità nel campo dell'informazione qualunquistica.
– E non può essere che ci sarà quel tipo che non conosco e che vuole sempre che gli presenti signorine che altrettanto non conosco?
Anche costui non sarebbe stato presente, a detta della signora, perché giammai più nelle grazie della padrona di casa, da quando aveva gloriosamente dichiarato alla cameriera, presa strategicamente in disparte, di possedere facoltà pranoterapiche, per mezzo delle quali, attraverso la previa imposizione delle mani, le avrebbe inoculato – sarebbe proprio il caso di dire – insperati "serenità" e "benessere".
– E se poi c'è quella signora che si riempie la borsa di cibarie e dolciumi varî... e poi si ricorda improvvisamente di essere pressata da un'occorrenza indifferibile che la costringe, tutta rossa e conge-stionata nel faccione da guardarobiera licoressica, ad andarsene a metà serata?
– Ah, povera disgraziata, – rammentò la signora – ma quella là... Ah, poveretta! Lascia stare... quella è ricoverata in una clinica a Palermo... – Lavanda gastrica?
– No, macché... esaurimento nervoso... poveretta...
– Ha voluto tentare il "colpo gobbo" e l'hanno sorpresa ad occultare qualche pietanza volumi-nosa? Che so... teglia di lasagne da competizione?... pentola di spezzatino da primatisti della crapula?
Rispose la signora – non senza una puntina di malvagia soddisfazione: c'è sempre qualche cosa di consolante nelle disgrazie altrui, così come qualcosa di sconfortante, offensivo, per contro, nei suc-cessi – che la sorella dell'esemplare in questione aveva richiesto ed ottenuto che un dietologo la visitasse, e questi le aveva imposto una forte limitazione calorica, che la ghiottona aveva interpretato invece come una diretta minaccia rivolta alla
propria incolumità, una sorta di spietata cospirazione familiare finalizzata a sottrarla di mezzo al grande mondo, certamente per impadronirsi delle coperte in cantù e "al tombolo", dono di una vecchia zia amatissima, sì, ma così segaligna, ossuta, che quando morì e venne il momento di imbustarla nel feretro, il facchino funerario, colpevole della più esecrabile distrazione, avendo ancor una mano occupata con una corona di fiori, con l'altra la sollevò per adagiarla sul cataletto – né più e né meno come avrebbe fatto per riporre provvisoriamente un utensile; accortosi però subito della marchiana gaffe, mortificato e confuso la lasciò cadere maldestramente sul cataletto, dinoccolando-le la mascella in un'orrenda grottesca smorfia che terrorizzò tutti i presenti, alimentando da quell'episodio – improbabilmente parificato dalla fantasia popolare con altri aneddoti bizzarri, come quello, per citare un abusato esempio, di una repentina guarigione, in tarda età, da una frattura al femore – una serie di corrugate credenze a proposito di una mefistofelica riconducibilità "ad vitam contra natura" della vecchia megera.
– Allora, – venne a patti rassegnato il signor * – andremo alla festa... inserisci la mia camicia azzurra e i pantaloni blu nel bucato di lunedì. Non badare a spese: mettici pure le calze blu, perché dopo sei o sette volte che le indosso, non avverto più quel gioioso senso di disinvoltura e di spontaneità che provo quand'esse son fresche di lavata. Dopodiché vai avanti per la tua strada libertina, ma non senza avermi prima dato un pezzo della tua torta traditrice e un goccio di chinotto, poiché io, dal canto mio, mia cara, mi accingo a folleggiare.
E si apprestò così ad allontanarsi fieramente – in senso spirituale, s'intende – dal luogo della sua resa all'incirca incondizionata, per ritornare alle sue più serie occupazioni con il grave contegno dell'uomo che può fornire prova di spezzarsi, di piegarsi: giammai, e malgrado ciò quell'accanita gli fu ancora addosso:
– Secondo me una festa in città, al contrario, non è altro che una gran seccatura.
– È vero...
– Ti ricordi l'ultima volta, del tempo che ho impiegato per farmi una piega più arricciata ai capelli? Con te che mi facevi fretta: e infatti non mi son venuti come avrei desiderato, e alla fine per poco non arrivavamo in ritardo... per fare che, poi? Per fare tappezzeria, ecco, visto quanto ti sei annoiato.
Meno male che io ho fatto quattro chiacchiere con Franca, se no avrei fatto la figura di quella che se ne sta tutta sulle sue...
Il signor * benissimo si ricordava del precedente: il richiamo della moglie gli aveva prepotentemente riportato davanti agli occhi una brunetta pericolosa assai, dalla quale essendo così difficoltoso staccare lo sguardo – ed il pensiero soprattutto – , s'era forzato a fabbricare tanti sbadigli artificiali – per distogliere l'attenzione da qualunque esteriore sintomo della sua interna temperatura – quanti n'occorsero a procurargli un'autentica leggera sonnolenza, contagiata al suo vicino il quale, sbadiglian-dogli accanto, dalle fauci oscenamente spalancate intorno gli riversava avvolgenti tanfate d'alito (non propriamente virginale) – indizio preclaro di digestioni tormentatissime e di salute malferma alquanto – che l'obbligarono a chiudersi in bagno, oppresso da violenti conati di vomito; ma in considerazione di tutto ciò, si guardò bene dal rammentare alla candida sposa che quel ch'ella chiamava "quasi ritardo" si riferiva a due ore belle piene, e che difatti la cena era stata iniziata senza di loro.
– Ah sì! Mi ricordo bene. – offerse timidamente.
– Ma sicuro! E poi, ti ricordi quando eravamo pronti, vestiti di tutto punto, e ci siamo messi ad aspettare come gli allocchi, per paura d'arrivare troppo presto, e una volta arrivati, abbiamo parlato quasi unicamente tra di noi..?
– E no..? – sospirò il signor *, lucidamente memore dell'interminabile conversazione – ma si di-rà meglio: monologo della moglie – avente per oggetto la zia Smirolda e le sue folte cretinate.
– Certo che se non ci fossi stata tu... – e, comprensibilmente, non terminò la frase, che non a-vrebbe avuto fedelmente un significato di molto lusinghevole per la coniuge, inesauribile vessillifera di tutti gli sfiati umorali.
– Proprio così! E allora, me lo dici, tu, – e si avvertiva, decisamente, che in quel "tu" c'era una replica, inconscia forse (forse non troppo), alla precedente frase non terminata del marito – me lo sai dire, tu, – calcò una volta ancora su quel terribile "tu", con ogni evidenza soddisfatta del primo exploit – che mi sono vestita a fare con tanta cura? Che differenza avrebbe fatto, se invece di mettermi carina, mi fossi messa addosso una coperta da cavallo?
L'immagine della consorte, paludata sotto una coperta da cavallo, vellicò lubricamente alcune particolari riposte prurigini del signor * – abitualmente sorvegliato nelle intonazioni esteriori – , dimodochè, nonostante si fosse vietato una viscerale reazione di stillante lascivia, non seppe trattenere una seppur impercettibile leziosaggine col muso – per l'occorrenza – smanceroso:
– Ho motivo di credere, cara, che se tu avessi indossato una coperta da cavallo la differenza sa-rebbe saltata agli occhi di chiunque... – provando, a questo palpabile double entendre, la segreta soddisfa-zione che ogni buon sfaccendato deve gustare quando ritiene d'aver forgiato una buona battuta.
La signora *, tuttavia, non mostrò di volerne afferrare il senso: – Qui – persisté imperturbabile – vedrai, avremo un ricevimento semplice, alla buona, all'antica.
Intervenne melico quel gran poeta ch'era, in fondo, il signor *, ispirato su arie de "La chanson de Fortunio" di Offenbach:

Niente scarpe di vernice
che mi dolgon la pernice,
né cravatta con la giacca
né capelli con la lacca,
né bustini troppo stretti
(compressori maledetti!),
né fasulli complimenti
detti in luogo dei commenti,
non locali male aerati
pei miei bronchi incatarrati,
né capricci della moda
che mi pestino la coda,
né pβtés e charlotte russe
che mi tirano la tosse,
né farfalle col salmone
(appiccicosa colazione),
né prosciutto col melone
ripetuto tormentone,
né spiedini e cacciagione
a danno della digestione,
né gli scampi e l'aragosta
che rimane poi indigesta
o crostini ai gamberetti
per la colica perfetti,
né risotti col tartufo
(ché n'abbiamo ormai ad ufo),
ma piuttosto sarei pago
(qui lo dico e non lo nego)
d'un arrosto con verzura
preparato con premura
e sentir la pura brezza
nella quiete e l'allegrezza
d'un ambiente fresco e ameno
campagnolo e rusticano
con gli olivi e il sicomoro
col carrubo e con l'alloro
dov'io resti se mi va
solo in pace... e basta là!

La signora * lo sfiorò con una guardata che esprimeva quel misto di compassionevole indulgenza e rassegnata tolleranza adatta ad un figliolo – ancorché non pericoloso – gravemente ammalato di nervi, e con il trasparente intento di sdrammatizzare continuò:
– Ci saranno sicuramente dolci e gelato. Secondo te cosa potrei mettermi?
– Mah... io direi... qualcosa di molto semplice... no?
– Allora, – (apprestandosi a trionfare su un antagonista ormai irremissibilmente sotto scacco, volle stringerlo con l'ignobile "mossa del barbiere") – visto che non ho niente di molto semplice da met-termi, dobbiamo – (attenzione! Amabile lettrice, gentile lettore! Impara dunque, attraverso questo mira-bile esempio, l'ineffabile arte dell'espugnazione e
dell'usurpazione che più d'un trionfo ottenne ai do-minatori privi di esitazioni e di scrupoli ancor meno: "dobbiamo" !) – andare a fare qualche spesetta...

***

– Comincio a temere – dichiarò il signor * dopo il quarto giorno di spesette intensive – che il tuo abito sarà troppo semplice...

***

Ogni ora di quel delicato periodo adduceva nuovi pacchi e riqualificati conti da pagare. Si sa: come "asso porta re", la borsetta richiede scarpe appropriate, le scarpe reclamano una cintura conforme, la cintura esige accessori armonizzati, borsetta scarpe cintura e accessori pretendono orpelli e fronzoli non meno confacenti, e questi ultimi comandano ornamenti, guarnizioni, gale, fiocchi, decorazioni, monili, pendagli, ciondoli, bardature, finimenti, e via così in un'insaziabile teoria di paramenti e addobbi agghindativi che si tiran dietro l'un l'altro come le ciliegie belle e mature. La vita in casa * aveva ripreso quel forsennato abbrivio che aveva già conosciuto in altre simili circostanze deliranti. Ore convulse dominavano ormai la condotta della signora *: ella si tormentava suggestionandosi con autoproliferanti esigenze sempre in relazione all'abbigliamento, si sobillava furente per ogni nuova preoccupazione col-legata agli acquisti, così che non c'era quasi più un nuovo oggetto che non le desse motivo di esasperar-si fino a cadere addirittura, in certi casi, in un deliquio di posseduta dal demonio che a vederla faceva male al cuore. In certi momenti pareva maledicesse in sordina, al modo d'un sacerdote birmano che scagliasse verso un cielo fatto di cenere e piombo nefasti anatemi contro un
odioso nemico invisibile. Il signor *, preoccupato, durante alcune più acute crisi arrivava a chiedere all'ossessa: «Tesoro, come ti senti? Non mi fare preoccupare...»

***

– Ma allora se è così che la pensi, ci conviene – (lettore! «"ci conviene"! impara, impara...) – cercare fra gli accessori qualcosa di lussuoso! Dico bene?
Il signor *, celatamente inorridito dal calibro della bestemmia pronunziata per di più sotto l'influsso d'una raccapricciante e blasfema buona fede, osservò che, secondo lui, la bellezza della moglie poteva fare benissimo a meno di pletoriche guarnizioni, che la vera eleganza prescinde dalla somma degli artifici; quando tuttavia cominciò a penetrare il concetto che l'invasata, in protervo spregio verso ogni buon senso, voleva in ogni caso surclassare la più sgargiante livrea di qualsivoglia stregone boscimano, sciamano maori, fattucchiere transilvano che si fosse, si industriò d'arginare per quanto possibile il disastro e non diede espliciti segnali di dissenso nel momento in cui l'esaltata lo catechizzava con il precetto che il suo abito sarebbe apparso ridicolo senza alcuna passamaneria, lustrino, paillettes. O for-se egli avrebbe preferito un leggero foulard intonato che lasciasse libero respiro alle sottili bretelline? Vagheggiando di sopportare un male minore, il signor * disse che sì, senz'altro preferiva un arioso fou-lard che agevola il "semplice che fa chic e non impegna".
La signora * disse: – Benissimo.

***

Il giorno dopo arrecò un altro pacco e un altro conto, e l'arrivo di una sarta che unitamente alla figliola minorata da un ritardo psichico, si allogò a dimora fissa per i giorni a seguire – ma la notte, va pur detto, raggiungeva i suoi familiari, e, in fondo, la povera bimba non arrecava altro e assolvibile disturbo se non quello di guaire mestamente (anche se in continuazione), come un cuccioletto investito da un carretto – dando vita ad un continuo cucire con la luce solare e con quella elettrica. Allorché cadde la sera del quarto giorno di cucito, l'abito era, finalmente, allestito per ricevere tutte le bellezze della signora *, ma insieme alla sera cominciò a cadere una pioggia indecente, esagerata, motivo per cui fu at-traverso il fango più contaminato e i pantani più infetti che il signor * percorse un chilometro e sette-centoventiquattro metri al fine di raggiungere il meccanico rifinito Linguanti Tommaso – inteso dai compatrioti nativi, senza formalismi, "Masu 'u stordu" – che gli fissò l'accordo secondo cui l'autovettura fiat 600, afflitta da problemi endemici di carburazione ed espettorazione, sarebbe consegnata diretta-mente a casa per l'indopodomani, purgata d'ogni malanno. Poi ripercorse le medesime melme, riattra-versò gli stessi acquitrini, guadò ancora le paludi tali e quali, ma forte di una promessa che lo riscattava dal livello dei gracidanti batraci e lo elevava al rango superiore degli automobilisti, adorno quindi della disposizione d'animo dell'uomo che si affranca dall'abiezione e dal disonore.

***

Giunto una volta per tutte il giorno della festa, col cuore gonfio di fede ed ottimismo, il signor * telefonò al Linguanti, ricevendo la comunicazione dal garzone di costui che il titolare, scusandosi per il lieve ritardo dovuto all'affollamento degli impegni giornalieri, – benché letteralmente formulasse: « 'U Stordu è fora, ma capace che mentre furrìa ci porta 'a mαchina...» – avrebbe consegnato l'automobile nel corso di uno dei suoi circuiti tra clienti e fornitori.
Iniziò dunque la vestizione in casa *.
La signora * non riuscì a trovare il suo foulard.
Il signor * si fece cadere il caffè sulla camicia.
Poi però la signora * trovò il foulard.
Poi la domestica – guercia da un occhio ma tanto simpatica e umana! – annunziò che il cane era scappato seco menando una scarpa del signor *.
Il quale ritornò nel fango, – ridimensionato in realtà, dacché il giorno prima aveva concesso un sole amabile – con le pantofole, in cerca del cane. Lo trovò. Riducendosi un lazzarone nel limo ancora fresco, ergo: nuovo bagno con l'acqua nel frattempo infreddatasi per il precedente consumo, ma lo trovò (non bisogna sempre stare a guardare il capello).
La signora * minacciò di impazzire per l'esagitazione causata dalla fretta dei preparativi e dalla nuovo fanghiglia portata in casa. Ci volle il bello e il buono a calmarla, non essendo sufficienti le sole ragionevoli giustificazioni imposte dalla contingenza, ma poi telefonò Franca per sapere dei preparativi e il lume del sorriso della donna repentinamente rischiarò la sala che fino ad un attimo prima era incupi-ta da una tenebra malsana.
Poi aspettarono la macchina, vestiti di tutto punto.
Poi l'aspettarono alla finestra, pronti ad interpretare ogni rumore che la strada proponeva.
Poi aspettarono seduti.

***

Trascorsero tre settimane e la macchina non arrivò.

***

Dopo due giorni dalla festa i signori * seppero che questa era stata molto piacevole ed elegante: in molti c'erano andati e riferivano d'essersi divertiti un mondo. Almeno un terzo di costoro aveva dato molto da fare nei giorni prima, con le loro autovetture, al Linguanti che non era riuscito a far fronte a tutti gli impegni.


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