Quando cadde la bonaccia sul maremagno dei disordini etilistici in cui s'era voltolata la brigata, si avvertì nella sala dove s'era posto bivacco un senso ondoso di accasciamento, di spossatezza – e sì che aveva tardato a manifestarsi, viste le antecedenti scompostezze prodigate.
Erano convenuti infatti, per l'occasione, i più eminenti rappresentanti dell'università della crapula, la vera crema del bagordo professionale, i campioni invitti nelle specialità della bisboccia singola e a squadre, gl'imbattuti primatisti del baccanale sinfonico, della gozzoviglia solista, nonché i nemici giurati d'ogni affinità alla temperanza e alla costumatezza – tutti partecipi dell'istessa armonia d'affetti e d'intenti – una con i sibariti più volte segnalatisi nell'orgia da camera o nell'abiezione 'en plein air'.
Ah! Che leggendaria gilda..! Quale illustre consorteria d'ineffabili edonisti!

***

Con rapido colpo di mano s'impadronì dell'attenzione generale lo stimato Professor Incardona – affettuosamente inteso Testa 'ri pìu – e magnetizzò l'uditorio emanando dalla sua persona queste parole:
– Ma lo sapete voi, eh? che il caso più curioso che mi sia capitato a proposito di autosuggestione avvenne circa sette o dodici – mi pare – anni fa...(o forse erano cinque?)? Ciònondimeno, non bisogna di certo scavare il pelo nell'uovo, e nemmeno fare come a quello ... insomma fu una cosa curiosa assai! Io stesso non ci crederei se non fosse che ci devo credere per forza perchè è così che andò... non so se mi sto sapendo spiegare...
L'uditorio si apprestò a comprendere un pochino meglio il discorso che prometteva meraviglie, lacune manifeste, incongruenze vistose, e ogni sorta di strampalaggini che rendono stuzzicante ogni curiosa amenità.
– Professore, raccontate, raccontate – fecero quasi tutti – non ci fate perdere una virgola, per favore!
Testa 'ri pìu, cui l'alcolico carburante aveva conferito sicumera e baldanza, raccontò questa storia:
– Ah! Ah! Cose, cose dei turchi! Quella sera si trincò alla "Signore basta più!", datosi che stavamo festeggiando la riconciliazione del nostro ospite con la moglie – (ah! brava! bravissima!) signora pregiatissima che s'era inserita d'autorità nella classifica delle più nominate della nostra gloriosa provincia (per motivi che qui non necessita annotare), la quale era ritornata a lui dopo una assenza di un certo triste periodo durante il quale mio fratello (difatti era lui l'ospite) s'era permutato in un strofinaccio inservibile – e nella comitiva era presente pure l'avvocato Vannino *, detto "Nuncinnècciù" per la sua proverbiale implacabilità nel ridursi ai confini del conoscibile con l'abuso di vino e cibarie di preferenza stantìe – poiché, come lui sosteneva, dopo un poco di permanenza all'aria aperta, le vivande "si prendono di sapore".

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(Una istruttiva digressione riguardante quest'illustre personaggio ne delinea sufficientemente alcuni dei suoi "vasti" tratti fisionomici:)

Il grasso avvocato Vannino *, che l'Autore ebbe modo di conoscere personalmente, e che era – può ben esser detto – uno dei capi scarichi più scarichi che si possano incontrare in un isola, era affetto – tra le altre non meno pittoresche – da una triste infermità: non poteva fare venti passi senza essere tormentato da una sete formidabile: tanto che gli capitava di frequente, quando percorreva un tragitto che metteva a sacco quasi tutte le sue risorse, di scolarsi sino a dieci, quindici bicchierini di robusto cognac, temperati da altrettante dosi di fernet, poiché manteneva incrollabile la convinzione che un buon fernet riesce a correggere adeguatamente il retrogusto del cognac, e non avrebbe abbandonato giammai la sua idea neanche in cambio della conquista dello scudetto da parte dell'Internazionale.
Un giorno – un radioso giorno d'estate – incontrò pane per i suoi denti.
Secondo la campana della Chiesa Madre era corretto suonare mezzodì. La temperatura al suolo era incredibilmente alta. Lo sputo di un piazzista di scope-bagnarole-carabattole e materassi modello "Quannu passa 'ron Giuvannìnu si 'ròmme 'na maravìgghia" – durante il suo effimero volo dall'ape – si disseccò prima ancora di toccare terra. Le pietre si lamentavano tacitamente di ciò, mentre un cane bastardino boccheggiava, fiacco e flemmatico, steso a un passo dalla teoria di seggiole più o meno sconnesse del gruppetto di anziani che facevano da licheni distribuiti presso il marciapiede del caffè 'Mokambo' nella piazza principale.
Nel bel mezzo della generale disidratazione, quel buon debosciato di leguleio arruffacarte incontrò senza aspettarselo affatto il signor Trummìo, carrozziere titolare di una sfilza altrettanto copiosa di aneddoti autentici – nonché apocrifi – circolanti sulla sua – non proprio riverita – persona.
Siccome non s'erano veduti da circa dieci anni, – periodo durante il quale il carrozziere aveva vissuto in quel di Torino, ammassando nei suoi mendaci "curricula" più che fantasiose e romanzate avventure a sfondo – prevalentemente – sessuale in cui egli figurava pressoché come un conquistador dei due mondi talvolta, talaltra come castigamatti esperiente d'ogni lussuria e d'ogni godimento carnale – bevvero almeno una trentina di cognacchini e fernettini prima di chiedersi se si fossero stretti la mano.
– Ma insomma, – fece allora Vannino – oggi si muore dalla calura, eh?
– Privo diddìo! – Rispose l'altro degnissimo compare – già è più di un'ora che cerco di togliermi la sete e non c'è verso propriamente!
– La stessa cosa mi succede pure a me, – agganciò il buon vecchio Vannino – epperò sono obbligato a confessare che una bella bottiglia di fernet ci ha sempre il suo fascino...
Il carrozziere salutò questa affermazione con una smorfia che voleva ampiamente significare che in nessun paese civile una bottiglia poteva mai avere lo stesso fascino di due, tre, o quattro bottiglie dello stesso liquore. Ma ritornò presto affabile con il suo occasionale compagno di merenda e seguitò:
– Avvocato, mi dica una roba – Trummìo infatti giudicava indispensabile, ogni tanto, inframmezzare nei discorsi calate e bestemmie in stile "settentrionalese", per non lasciar mai decadere negli interlocutori, la memoria della sua trasferta torinese – ma lei, cheffà, lei veramente provò mai nella vita la vera sete, una volta?
– La sete? Ah, volete sapere se io ho provato la vera sete... allora, caro mio, visto che mi avete provocato, ve lo dico io com'è il fatto della sete, quella vera, quella impossibbile da combatterci: un giorno che mi trovavo in Calabria in pieno mese di agosto... stavo guidando la macchina mia, modestamente, mi ero perso per via di certe deviazioni e lavori vari che facevano in quelle strade del continente...– Fu prontamente interrotto dal carrozziere, infoiato per l'inaspettata occasione:
– Ah! Aaaah! Per favore non mi dite a me il fatto del continente! Aaah! Per l'amore diddìo! Aaaah! Là veramente sono persone civile e evoluti, no come qua che siamo come le bestie... aaaah! – e ragliava, e bramiva per rafforzare le sue asserzioni – aaah! Io lo so queste cose! Io ci ho stato tant'anni, là, nel nord! Altra vita, altre situazioni, tutta un'altra storia! Qua siamo come i beduini! Là i fìmmini non si fanno tanto priàri ...non si stifinìano tutte se un cristiano di sostanza le avvicina! Eh, Cristo divino! Una volta per esempio...
A sua volta fu bloccato da Vannino che riprese la parola:
– E comunque quella volta ebbi una sete, ma una sete, ma una sete così terribbile, che non ci ho visto più dagli occhi e mi sono bevuto, in un solo fiato, un litro sano di vernice che avevo nella macchina!
– Vernice?
– Fresca.
– Ma acqua non ce n'era proprio?
– Oddìo, acqua, mah! Acqua, e forse c'era... forse ci poteva pure essere... ma che volete... con quella sete, uno non è che pensa a lavarsi!

***

– Ma... chèpper caso, – fu interrotto il brillante professore da un astante – stiamo parlando di Vannino " 'u piecuru ", nipote di "facci 'ri scacciùni "?
– No, quello che dici tu – rispose prontamente con sussiego – è il marito della "Vucca 'ri fàngu ", mentre questo invece è il nipote di "don Giuvanninu 'u test'e nanu", sposato con la figlia di Suzza "'a scuncintrata" , hai presente..? quella che si coricava con Tatò "'u purcarìa", l'amico stretto di Tano "'u 'mmaccatièddu" capito, no? E comunque, vi dico in tutta tranquillità che verso la mezzanotte, il povero Vannino era carico fuori misura di imbriachitudine come un perduto, recitava lamenti funebri in una lingua che nessuno riconosceva, disperdeva enormi goccioloni di sudore putrescente e lacrime di martire immolato, ragione per cui i compagni tutti, compassionevoli, gli travasavano in gola traboccanti razioni di vinello ristoratore, al fine di soccorrere quell'anima, devastata da strazio e indicibile tribolazione...
– Poveretto, – fece un pio, intenerito ai casi di un esempio talmente fulgido di abnegazione alla santa causa della mortificazione delle carni – e soffriva assai assai?
– Ah, per carità diddìo, no, non ne parliamo, – rispose il professore commosso – non vi potrei descrivere... ma come si fa? Cose, cose di non credere! – E al ricordo di tale rimescolamento di sovrabbondanti emozioni gli occhi di amare stille gli si gonfiarono.
Il momento era toccante. Nello stanzone si riversò un'effusione d'incontrollati impulsi di rammarico e mestizia.

***

– Oh, non gli saltò in mente, – così riprese coraggiosamente contezza l'Incardona delle proprie responsabilità – all'improvviso, di spogliarsi nudo e rimestarsi nella fanghiglia che la pioggia battente produceva nel giardino? Noi lo seguivamo preoccupati, ansiosi di contenere il suo tormento entro limiti di sopportabili deturpazioni fisiche... lo agguantavamo in un angolo, e quell'infelice subito sfuggiva alla presa, immelmato com'era; lo incalzavamo gettandogli secchiate d'acqua gelida, costringendolo tra le siepi, e quello, furbo e imbrattato, sgusciava con un agilità che mai si indovinerebbe in un corpo deforme di creatura obesa; cercavamo di serrarlo percuotendolo con le sedie, con le scope, con quanti oggetti potessimo usare a mò di baionetta per ridurlo all'impotenza in una infossatura, e quello, sempre meglio impratichito alla guerriglia, mostro infuriato reso folle dai combattimenti precedenti, ci ricacciava stordendoci con ruggiti potenti, con latrati agghiaccianti, urla orribili che ormai più nulla conservavano di umano.
Peppino Incardona accusava, a questo punto del suo racconto, un senso di affaticamento, di sconforto, preda dolente forse nella morsa di ricordi gravi, di opprimenti rimorsi. Ma si riscosse ad un tratto, si ridestò, si riportò al presente – si dirà – da un sonno lontano in un mondo remoto, da un torpore avvilito in cui era sprofondato sotto gli sguardi impressionati dell'intera adunanza.
Indi ricominciò la travagliata narrazione:
– Nella sua folle fuga verso un'impossibile salvezza – da se stesso?
Dall'orrore che lo estenuava? Mai si poté sapere... – Vannino si precipitò alla volta dell'uscita.
Fu così che andò a schiantarsi, con meraviglia pari solo al fracasso, contro uno specchio, in gran parte imburrandolo di fango ed altre organiche lordure.
Accadde allora qualcosa di indescrivibile: vide la propria immagine, terrifica, riflessa nello specchio! vide la propria figura abbrutita, vide l'orrore della sua esistenza in rovina. Egli si vide!
– Ah, sei qui porco schifoso! – gridò rivolgendosi al proprio doppio riflesso – Qua sei arrivato, schifo depositato sulla terra attraverso i millenni! Pezzo di fango! Catarro purulento della feccia più abbietta! Sterco di cane malato!
Cosa inutile e vile! – noi ci sbalordivamo sempre più in ragione della crescente violenza con cui il miserabile si disprezzava addossandosi le offese più sanguinose che potesse trovare nei recessi della sua memoria stuprata...
– Talè, talè come t'arriducisti! Vergognati bestia! Mi fai schifo solo a pensarti! Faccia di m..., incrostazione di cesso pubblico! Complimenti, immondizia! – ci fece paura!
Alcuni di noi, quelli più sensibili, inorridirono letteralmente nel vedere quel bravo ragazzo assumere le espressioni scellerate di un angelo del male. Poi si domò: attentamente si osservò fissando gli occhi su quelli del sosia soggiogato dentro il cristallo, si guardò di profilo, anzi si guardò da tutti e due i profili, fece qualche passo indietro, ritornò in avanti, indietreggiò ancora ancheggiando, riavanzò con le movenze di un modello dei cataloghi di vestiario di vendita per corrispondenza, concepì qualche piroetta, danzò brevemente elaborando alcuni inverosimili movimenti perversi, mimò oscene manovre, infine, quando raggiunse qualcosa che doveva essere come un orgasmo psichico, si pietrificò. Non capimmo più chi dei due – quello nello specchio o quell'altro,
usurato, fuori dello specchio – fosse quello reale, quello giusto... anche perché... mah..! nessuno dei due ci parevano tanto giusti... beh, certo, non è che in quel contesto fossero in molti, i giusti... Ciònondimeno, dopo un tempo che non vi saprei dire con precisione, ma che poteva essere, che so, due minuti, tre minuti, quattro minuti...
– Professore, facciamo che era un tot, che dice? – interruppe un impertinente.
– E vabbè, niente ci fa, facciamo che fu un tempo indeterminabile...
Ma quello di nuovo:
– Professυre, 'na paùra, sìnni futtìssi, l'impottànte è il pensiero..!
E un altro: – Muto, cosa vile, facci raccontare il fattaccio al Professore!
– Tu sì crastu, e 'cu tìa nun ci cuntrastu! – gli rispose quello.
Un altro ancora: – Oh camurrìa! Tagliatela! E come schifìo si può fare che con
voi finisce sempre a frischi e pìrita!
E via, come per magia, nell'insperata interruzione, spontanea e impaziente, la cagnara esplose, troppo a lungo trattenuta sino ad allora da parte di quelle anime represse dalla curiosità e dall'attenzione.

***

Presto la quiete tornò a regnare, previo un minimo di tafferugli in curva nord, qualche insignificante baruffa in gradinata, un po' di strepito per sfogo naturale, tre sputi ribelli scoccati dalle retrovie, e così i galantuomini riguadagnarono le prime file al racconto del professor Peppino, il quale fece sua la masnada avvincendola con queste parole:
– Ma insomma, dopo una breve pausa durante la quale si fulminò letteralmente con lo sguardo, infliggendosi le più feroci mortificazioni, riattaccò:
– Disonesto! Mentre tu ti riduci un escremento, tua moglie – anche se è quello che è (povera bestia, cosa ci può fare lei?) – ti aspetta per darti il giusto tormento che meriti; tuo padre e tua madre – che Dio li conservi in salute nella loro prudente ottusaggine – ti pensano e si preoccupano per te; tua nonna – santa donna cui rubi i soldi dal borsellino mentre si fa accompagnare a fare i suoi bisognini – prega la Madonna addolorata e il Cuore di Gesù che sanguina per le tue malefatte; ma ora sentimi bene, carogna! Infame! Vomito di lebbroso consunto..!– dovevate sentire il tono di straordinaria autorità che avevano le sue parole! – Ora tu, immondizia, te ne vai di corsa a casa, ti corchi, domani te ne vai a lavorare, come un curnùto, e guai a te se ti vedo toccare un bicchierino! Se ti vedo solo un bitter in mano ti faccio cadere i denti! Forza! Muoviti, cosa vile! – e spostandosi come fosse in trance dalla fossa di redenzione in cui s'era mortificato in quel modo inattendibile, con passo da sonnambulo, nudo e spalmato di materia untuosa, ma con una inquietante esibizione di dignità se ne andò senza salutare nessuno, neanche l'immagine riflessa, che per qualche istante ancora, prima di dissolversi tra le chiazze di sozzume nello specchio scrutò sbigottita il suo clone allontanarsi nella notte.
E qui cadde una pausa in cui si sarebbe potuto sentire volare – incredibile a dirsi – una moschina dell'uva troppo matura, se ci fosse stata, durante la quale il professore ingollò qualche sorsata di Fernet alternata con pregevole simmetria ad altrettante generose libagioni di Biancosarti vigoroso, per meglio riannodare il filo della memoria, quindi ripartì con l'edificante apologo: – Noi eravamo frastornati per l'imprevisto, ma nei giorni seguenti restammo, in fondo, convinti che si fosse trattato di un'altra delle spassose buffonate di Vannino *. Macché! Non l'abbiamo più rivisto per un bel pezzo! Dopo alcuni mesi vengo a sapere che aveva per davvero messo la testa a posto, che lavorava con una serietà mai vista, che addirittura i capi dello studio legale dove era impiegato cominciavano a trattarlo in maniera diversa: non lo mandavano più a prendere le sigarette o i caffè per loro conto, non gli affidavano altre umilianti commissioni, non lo carezzavano sulla nuca come si fa, sapete no? Con i cagnolini o i minorati, e per farla breve, era riuscito ad operare su di sé un'esperienza magnetica per mezzo della sua immagine riflessa. Si era convinto, in stato d'ipnosi, che era diventato una persona seria, posata, dedita alla famiglia, uno che non beve o fa altre porcherie, uno bravo! Hai capito a Vannino..?

***

Tutti avevano ascoltato la storia con grande interesse. Patonsio, soprattutto, appariva vivamente colpito.
– Ma tu che pensi, professòre, – domandò con espressione tra l'ironico e il guardingo – che il trattamento potrebbe riuscire anche con altre persone? Ah, che dici?
– E perché no? in ogni caso si può sempre fare la prova...
(L'ottimo Incardona sapeva bene che darsi da fare per convincere qualcuno ad allontanarsi dai suoi vizi, da quel che rappresenta una parte molto radicata di sé, equivale a stringergli un laccio intorno alla gola, in altri termini ad aggredirlo, ed è in questo modo che vivrà l'incursione nel suo privatissimo territorio, dal momento che in realtà è davvero imperdonabile voler distruggere qualcuno a modo proprio, impedendogli di distruggersi a modo suo.)
Patonsio si alzò, si diresse risoluto verso uno specchio, e, sorvegliato dagli altri gentlemans nel perplesso agnosticismo unanime, si scoccò terribili, feroci sguardi. Si trattò come l'ultimo dei debosciati colpevolizzandosi per gli eccessi nel bere, nel fumare, nel mangiare, – in realtà si imputò anche altre accuse di pertinenza sessuale trascinato da un sussulto mistificatorio – si minacciò con truce cipiglio, passò in rassegna tutte le ingiurie conosciute in un raggio più vasto dei confini provinciali.
Ora Patonsio si insultava in dialetto, ora in italico, ora in maccheronico, ora in un idioma parlato da una popolazione di cui è ben legittimo il sospetto ch'egli fosse l'unico membro esistente.
Quando esaurì un repertorio pressoché completo, Patonsio uscì difilato senza far motto.
– Mi pare – fece uno della banda– che pure lui fici comu 'u cani 'i Minìu, ca manciàu, vivìu e s'innìu..!
– Non credo – obiettò un altro – che Patò ci diventa ora avvocato di grido...!
Un nubifragio di risate si rovesciò costringendo tutti a difendersi come meglio potevano dal soffocamento.

***

Non erano trascorse neanche due settimane dal simposio che Carmine, rincasando, ebbe l'idea di consentirsi un peccatuccio di gola consistente in nocive fritture di rosticceria.
Stava già pregustando la piccola gozzoviglia quando, nell'uscire, scorse Patonsio appeso precariamente al bancone della bottega di vini accanto.
Sembrava un tantinello invalidato a causa della difficoltà nell'articolare frasi di lunghezza superiore ai lemmi bisillabi e tronchi, ma ciò non gli impedì di invitare, dopo essersi spento per distrazione la sigaretta nel petto, con garbo quasi squisito l'amico ad un brindisi tra confratelli correi.
– Ma come, Patò..? – stava per interpellarlo Carmine.
– E che vuoi fare, compare Carmine, – riuscì a rispondere, molto affaticato per il forzato rientro dalla terra dell'abdicazione e dell'oblio – non è che quella cosa... quella porcheria... là... la cosa... come si chiama... l'autosungestione... funziona con tutti i caratteri...


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