Quel corbello di uva nera - Seconda parte

Di un altro piccolo fuoco ho un ricordo vivido, e non solo la vista ne era colpita, anche nel naso si spandeva la consapevolezza di quella luce bluastra: era l'acetilene. Con quella piccola bomboletta il mezzadro compiva l'ultimo giro nella stalla dove lo aspettavano le due vacche: Bianca e Rondine, i due vitelloni dell'anno ed i piccoli redi, messi nella stalla piccola, staccati da madri e fratelli per evitare inconvenienti. Scendevo anch'io nel buio appena interrotto da quel bagliore cilestrino, nel tepore della stalla, dove l'odore diffuso del letame portava ancora con sé l'aroma dell'erba medica, brucata verso sera, e del fieno, ruminato lentamente nella mangiatoia. Le sagome bianche delle bestie erano immobili, la notte le aveva liberate dalla necessità di muovere la coda per scacciare l'invadenza fastidiosa delle mosche, ma all'entrare del contadino voltavano un attimo la testa, curiose, e socchiudevano gli occhi per l'improvviso chiarore, poi, disinteressate, tornavano a voltarsi verso la mangiatoia, superiori in questa loro pacatezza all'uomo che, giunto a sera, si affanna ancora senza tregua. Ma il fuoco vero, quello per cui valeva la pena di rischiare senza esitazioni era quello legato alla distruzione delle stoppie nei campi e delle erbacce secche dei fossati. Doveva essere sorvegliato, guardato a vista, era un briccone che scappava per ogni dove. Acceso da un lato, come uno gnomo maligno tendeva sempre a correre dalla parte opposta, coglieva il vento, anche il più lieve respiro, venisse dalla macchia, odoroso di aromi aspri, o dal mare, arso e salato. Si nascondeva, quando aveva consumato ciò che gli era stato dato come nutrimento, e sotto la cenere sottile dell'erba e delle stoppie la scintilla occhieggiava, pronta a ricominciare a saltellare in ogni luogo. La figlia del contadino, bardata come un uomo, col cappellaccio in testa, le vecchie brache sdrucite e le sgangherate scarpe di vacchetta a ripararsi dal calore e dalle ceneri, ci chiamava in aiuto e noi, come sentinelle, controllavamo che niente sfuggisse dal falò e si disperdesse per ogni dove. Questa fiamma utile, ci veniva detto, per ripulire i campi e concimarli, poteva diventare uno dei maggiori disastri possibili.
Qualche volta, infatti, avevamo sentito raccontare che su quella terra, che non un goccio di pioggia addolciva nei lunghi mesi d'estate, il fuoco aveva divorato, ruggendo, un olivo, una parte di macchia e non ci era sfuggito quel campo che tutto, come un tappeto, si mostrava nero e rosso, già bruciato e ancora ardente al tempo stesso.
Non ho mai confessato che, benché controllassi col cuore in gola che nessuna fiammella si allontanasse non vista, allo stesso tempo mi chiedevo cosa sarebbe mai successo se il fuoco avesse deciso di scappare, quale cataclisma ci avrebbe sommerso e quasi quasi speravo che potesse succedere.
La Bisnonna criticava sempre questo sistema:
" Non c'è testa, con questo secco si rischia troppo, son grulli. "
Poi, però, riprendeva il mezzadro che ancora non aveva liberato dalle erbe, cresciute a dismisura dalla primavera, le fossette tra i campi per lo scarico dell'acqua.
" Quando comincerà a piovere - la sentivo ripetere con una certa monotonia - i campi si allagheranno e saran dolori! "
Mi chiedevo come mettere insieme la pulizia delle fosse con il divieto di bruciare le erbacce.
Povera Bisnonna, e povera Nonna, che, morta la prima, si era assunta il ruolo di saggia Cassandra! Se potessero vederle oggi quelle fossette, addirittura i fossi lungo la strada comunale...
Quando la fatica era tutta dell'uomo, quando si usava falcetto e furlana, tutto veniva cesellato e ordinato, magari aiutati da qualche bestemmia fiorita, da qualche colorita imprecazione contro una vita così faticosa e avara, oggi in poco tempo si pulisce tutto, ma è sciatto e disordinato il risultato lungo le prode della via e certo tra i campi non si mantengon più i fossatelli, le osservazioni di Nonna e Bisnonna, che ripetevano le raccomandazioni codificate da secoli di esperienza, si sono dileguate come, purtroppo si sono dileguate loro, anche se, a dar retta agli occhi della memoria, non sono mai state così vive e presenti come quando lo erano davvero, perché allora io, bimba, correvo via per seguire i richiami magici della campagna, mentre ora sono con me ovunque io vada.
E ancora un fuoco c'era che mi affascinava, anche se non si faceva conoscere molto spesso; cominciavano di mattina presto, qualche richiamo fra le donne, farina che volava leggera dentro la madia e fasci di tralci di vite, quelli tagliati nelle vigne l'inverno precedente ed affastellati con sapienza nella legnaia, davanti al forno. Correva un brivido per la schiena: il pane!
Al forno si trovavano le donne di famiglie diverse, spesso fra loro non correvano buone parole. Non ho sentito niente di ciò direttamente, non potrei testimoniare questo malanimo, ma ascoltavo la Bisnonna che criticava la contadina vecchia che se la prendeva sempre con le due ragazze, le figlie del mezzadro:
" Son bimbette - diceva -chi ha più giudizio più n'adopri." e con questa frase lapidaria ed assoluta, come molte altre che infarcivano il parlar comune di quelle parti, terminava il discorso, come se nient'altro, oltre ciò, avesse valore.
Ma con l'acqua che avvicinava tutte alla fonte, così anche il pane, il doverlo impastare, il cuocerlo, d'estate e d'inverno, al caldo e al freddo, doveva avere un'importanza catartica. Ignoravo, allora, che fosse così, ma era anche troppo chiaro che le donne si aiutavano, preparavano insieme il fuoco, infornavano insieme le grandi forme bianche, chiudevano la bocca del forno con il piccolo portello nero, affumicato da secoli di fuoco, attendevano sempre insieme, ciondolando nei paraggi, perché non si sentivano di abbandonare la loro creatura, la base essenziale di quel nutrimento con cui avrebbero sfamato la famiglia, gli uomini, al ritorno dai campi. Poi, ancora insieme, al momento opportuno spalancavano la bocca di Mangiafuoco ed estraevano i pani rotondi e croccanti.
Li prendevano con una pala di legno, e da un momento all'altro mi aspettavo che si strappassero i capelli per ripulire quell'antro ancora rosso di tizzoni accesi, come ogni fornaia che si rispetti, a dar retta alle favole, intendo. Quei pani venivano messi su delle assi adatte all'uso, in fila, a ogni donna il suo; si riconoscevano bene, perché ogni forma era segnata da un cerchio, fatto con un bicchiere e, all'interno di quel cerchio, le donne incidevano le iniziali del capofamiglia: AP, per il mezzadro della mia Nonna, EM per il vicino, la famiglia ostile.
Quei cerchi sul pane mi rammentavano l'ostia che veniva consacrata sull'altare e per molto tempo a venire ho confuso spesso il pane e l'ostia e mi sono sorpresa a chiedermi se le donne non sapessero di compiere qualche cosa di sacro in quel forno e che, per questo motivo, e solo per questo, sospendessero in quel frangente i loro litigi, e mi spiegavo anche, allora, perché mai la domenica in una chiesa praticamente vuota il prete chiedesse quanti fossero intenzionati a comunicarsi, perché le particole consacrate sarebbero dovute essere quelle e solo quelle. Nel Veneto, in città, dove abitavo ed abito, la fila di chi ogni domenica si comunicava era lunghissima, in quella chiesetta di campagna si alzavano solo le nostre mani e quelle delle due suore francescane, che tenevano l'asilo.
Però, in città sul pane non avevo mai visto quel simbolo rotondo, il pane di città, evidentemente, non era sacro. Questo fuoco che si accendeva nel forno andò spengendosi prima di altri fuochi: un apino cominciò a girare per i cascinali, vendeva il pane che qualcuno, chissà dove, aveva impastato ed infornato, era ignoto il suo nome, perché nel cerchio lasciato dal bicchiere non c'erano le cifre obbligatorie, non avrei mai voluto che fosse comprato e che si mangiasse, non avrei mai voluto che si perdesse l'abitudine a quel grande rito cui amavo così tanto partecipare, ma le donne, le massaie ne avevano troppe da fare e quel pane già pronto era un sollievo, una benedizione. Dunque, addio!

TERRA

Una cosa che ha sempre lasciato perplessa la generazione di donne della mia famiglia era la mia necessità fisica di toccare la terra. Credo che non abbiano mai capito veramente questa voglia che mi spingeva, verso il tramonto, oppure sotto il feroce sole del primo meriggio, a correre, come una capra, tra le zolle arate, saltando da una all'altra, senza tregua, fino a scoprire il mio personalissimo trono. Ogni anno cambiava, ovviamente, in quanto si trattava di una particolare posizione di qualche zolla che offriva la forma, ad aver molta, ma molta fantasia, di una grande poltrona, e non tutti gli anni trovavo arato lo stesso campo. Io mi ci sedevo, non so bene perché, e mi sembrava che il calore sprigionato da quell'arida terra dall'indefinibile colore, ora ocra, ora rossastra, dovesse provocare qualche miracolo. Non erano troppo lontane dalla mia mente le novelle che mi venivano spesso narrate, in fondo Testa di Bufala abitava sotto terra, ed una scala di cristallo purissimo era celata proprio da una pianta di vile cicoria, e sicuramente, all'inizio di questa mia abitudine, da piccola piccola, ci deve essere stato il desiderio di scoprire se davvero, da qualche parte, avrei potuto incontrare un personaggio di tal fatta. Più tardi, sapendo che quel luogo era stato terra di Etruschi, e conoscendo come il saggio vecchio bambino, Tagete, fosse sgusciato fuori dalle zolle appena rivoltate dall'aratro, credo di aver trasformato il mio pensiero originario in uno diverso: da quella terra la leggenda aveva fatto nascere un saggio, la storia ci parlava di saggi, forse anch'io avrei appreso la saggezza, solo sedendomi lì, assaporando in quel silenzio agreste, che ora è un ricordo lontano, l'essenza stessa dei campi. La mia pietra filosofale giaceva ai miei piedi, ed il segreto della serenità devo averlo appreso in quegli anni lontani: non posso esimermi nemmeno oggi, dopo così tanto tempo, dal recarmi laggiù, nel campo. Non mi siedo sulle zolle, ormai farei ridere, mi prenderebbero, a vedermi, per una pazza romantica, cosa che non sono, ma mi chino, laggiù, lontano dalla casa, all'orizzonte del podere, e sfioro quelle vecchie zolle con la mano, un attimo, un ricordo, e ancora il loro potere taumaturgico si sprigiona e sento che la giornata non è persa. Da quei campi sono sempre arrivati giochi misteriosi ed importanti, bastava seguire passo passo il mezzadro nei suoi lavori durante l'arco della giornata: appiccicata a lui mi inerpicavo anch'io volentieri sui pagliai, quelli che ora non esistono più, fatti come dei covoni più grandi, mentre sassi pesanti, legati con un filo di ferro rugginosissimo, pendevano dalla sommità, legati intorno al palo centrale, per schiacciare il fieno stesso, comprimerlo. Io credevo che servissero a non farlo volare via, quando il vento di maestrale o di libeccio, o la tramontana estiva soffiavano con furia. Qualche pagliaio era costruito di balle compresse, ed era formato come una casetta, con pieni e vuoti. Era il regno dei gatti, lì la vecchia gatta dei contadini figliava, ed i piccoli mici venivano accomodati ben bene proprio nel punto in cui era ficcata un'arma terribile, una sorta di vanga dai bordi affilati come un rasoio, con cui il mezzadro tagliava la porzione di fieno necessaria per la giornata. Il pagliaio in quel punto era come una torta, e sul ripiano che si era creato i gattini sonnecchiavano, protetti da vipere e da altri pericoli, in attesa di aprire gli occhi e di gironzolare da soli. Era davvero un guaio per noi che il mezzadro fosse tanto severo: guai ad avvicinarsi al pagliaio dove c'era quello strumento di morte, se ci avesse trovati nelle vicinanze sarebbero stati davvero dolori. Poco importava che attraversassimo i pagliai a casetta, rischiando di morirci dentro soffocati, e nemmeno era un vero rischio quello di trovarci faccia a faccia con qualche vipera: si sa, la campagna ha di queste sorprese. Penso che le ritenesse avventure normali, solite, non era colpa dell'uomo se la paglia soffoca, seppellendo l'ingenuo, se una vipera morde, stuzzicata e disturbata nel suo rifugio: il vero pericolo, la cosa che non doveva assolutamente essere sfidata era lo strumento creato dall'uomo. Quello era davvero il rischio che non potevamo permetterci di correre. È da allora che sento l'importanza di ciò che l'uomo costruisce, credo che sia il fatto che fin da piccola ho avuto questo messaggio, che la natura può anche essere pericolosa, ma non è ingiusta, rientra nell'ordine delle cose tutto ciò che fa, sono gli strumenti, le armi, gli oggetti in generale che l'uomo si è procurato ad arte che escono dagli schemi, peccato che questo non mi abbia davvero spaventato.
Il dover ubbidire, il non aver mai potuto vedere da vicino, toccare con mano ogni strumento in uso al podere, e quando sono cresciuta ed avrei potuto farlo ormai di questi strumenti si era perso anche il ricordo, mi ha lasciato addosso una curiosità, un rispetto, un amore, forse, per gli oggetti, per il frutto dell'ingegno, che non mi abbandona, che anzi ancora mi solletica e mi spinge. E così di carezzare quei selvatici gattini non se ne parlava proprio. Per fortuna conigli, polli e galline erano alla nostra portata. Ma si ritornava a rischiare quando si trattava di vacche o di maiali, perché grandi, pericolosi, inadatti a dei bimbi.
Quella volta, la ricordo ancora viva nella memoria, era il pomeriggio assolato di un settembre ancora caldo. Qualcuno, uno dei contadini, gridava qualcosa riguardo ad una vacca, la Bisnonna, affacciata alla finestrella di casa si preoccupava subito di farci entrare in casa. Mio fratello ed io eravamo lì intorno, ma dove sarebbe stato difficile dire, se la vacca era davvero scappata dal pascolo, se davvero, come altre volte aveva fatto, era arrivata sull'aia a corsa sfrenata, con la testa tesa in avanti, le corna appuntite pronte all'assalto, la coda ritta e tesa come un filo di ferro, era bene che i piccoli fossero al sicuro. Non valeva niente dire che non c'era pericolo, la povera bestia aveva solo sete e si buttava sulla pila, dove un leggero velo di acqua muschiosa l'avrebbe potuta dissetare, e che già altre volte io mi ero trovata sulla sua strada ed avevo imparato che mi scansava, non voleva travolgermi, forse aveva più paura lei di me, ma si sa, le Nonne temono sempre che accadano brutti incidenti ai loro nipotini: ingenue!
Io mi ero resa subito conto che non si trattava di questo, qualunque fosse il motivo per cui stavano strillando tutti in ogni dove, le vacche erano tutte e due nella stalla, che pericolo potevo mai correre?
Mi avvicinai alla porta e sbirciai dentro, uno strano silenzio che si poteva toccare, una delle due vacche, Rondine, credo, si voltò a guardarmi e mi sentii stringere il cuore dall'occhiata che mi lanciò, vedendomi emise un muggito, ma strano, non avevo mai udito niente del genere. Mi avvicinai lentamente, attenta a non passare dietro gli zoccoli, per evitare un calcio, dato magari senza intenzione, e mi avventurai a sfiorarle con una mano il grande dorso. Probabilmente le ho dato lo stesso fastidio di una mosca, oppure no, non lo saprò mai. In quel mentre entrarono il mezzadro col figlio, mi scansarono senza tante scuse e cominciarono ad affaccendarsi intorno alla vacca. Ero incuriosita, da sotto la coda una strana escrescenza si andava delineando. Stavo per domandare cosa fosse, se stesse male. In città di cose del genere non se ne vedono, forse i bambini non le conoscevano nemmeno, io certo non ne sapevo niente. Ma prima che potessi chiedere, ecco che, ingrossatasi oltre misura, quella stranissima bolla scese fino a terra e mi resi conto che si trattava del vitellino, di cui da qualche giorno sentivo parlare. Era nato, non avevo capito bene come, ma era stato così bello, così strano ciò che avevo visto, che ritornai più e più volte nella stalla, per controllare Rondine, per vedere se la trattavano bene, se era la stessa di prima, e solo quando mi fecero assistere all'allattamento mi convinsi che non c'era niente di sbagliato in quello che era capitato. Così, semplicemente, il mezzadro mi disse che succedeva a tutti, poche e chiare parole, ma ne servono forse molte di più?
Ma la terra aveva un particolarissimo effetto al momento della vendemmia.
Aspettavo quel giorno di anno in anno, e quando ero laggiù assaporavo ogni minuto che mancava a quella giornata di festa. Non potevo credere che si trattasse davvero di una fatica, perché nell'aria c'era una tale eccitazione che non era possibile pensare che non fosse una vera e propria festa quella che si andava preparando. Sapevo giorni prima quando sarebbe successo, vagando di campo in campo, abituata a fare amicizia con tutti i contadini dei poderi vicini, mi trovavo a capitare qui e là, durante le mie esplorazioni quotidiane e scoprire che dal Rossi, o da Doriano o dal Meini la vendemmia era già cominciata. Da quel momento ossessionavo il mezzadro con la solita domanda:
" E da noi quando arrivano? "
Con la pazienza di un santo il poveretto mi rispondeva sempre allo stesso modo:
" Si finisce Tizio, poi si va da Caio, poi tocca a noi."
Non potevo stare ferma ad aspettare, mi affannavo fino a che non recuperavo una cesoia piccola, vecchia; chissà, forse era servita per gli steli delle rose di qualche bisavola, ma sembrava fatta proprio per me: era uguale a quella delle donne, le sue dimensioni ridotte, però, ne facevano uno strumento perfetto per le mie mani, così piccole, così poco callose, così diverse dalle mani che avrebbero vendemmiato davvero.
E il grande giorno arrivava finalmente. I vicini venivano a restituire il lavoro prestato i giorni precedenti, i parenti arrivavano da poderi lontani e la vendemmia poteva cominciare. Io correvo con le donne, tagliavamo dalla vite i grappoli maturi, il Trebbiano rosato e l'uva nera, e deponevamo i grappoli succosi in un paniere che si portava al braccio, quando questo era pieno si andava in cima al filare e lo si svuotava in un corbello. Ricordo ancora un certo corbello di uva nera, il mio paniere era stato l'ultimo e questo traboccava, avrei voluto alzarlo verso l'uomo che stava sul carro e che seguiva passo passo le donne, per svuotare i corbelli nella strettoia, dove un altro uomo dava una giro di manovella e schiacciava questi grappoli caldi, in attesa di farlo per la svina in modo più deciso, ma era pesante, troppo pesante, e mi pareva strano che della frutta così bella potesse pesare davvero così. Il contadino dal carro mi sorrideva e scuoteva il capo, cose da uomini, sembrava dire, cose da uomini. La massaia restava a casa, con qualche altra donna, poche, per la verità, a loro toccava il compito assai gravoso di mettere a tavola, alla fine, tutta quella gente; si preparavano i fiaschi di vino fresco e le fette di pane strusciato col pomodoro, unto di olio, salato e pepato, che sarebbero servite a mezzogiorno, nei campi, per calmare i morsi della fame, poi, a sera, stanchi di un lavoro gravoso, anche se svolto tra chiacchiere e risate, uomini e donne, seduti finalmente alla tavola imbandita, avrebbero mangiato e bevuto, cantato e riso, in attesa di ritrovarsi ancora l'anno seguente per la stessa festa. Fra quella gente c'ero sempre anch'io, intrufolata a forza, grazie al lavoro che avevo compiuto, sapevo quanti corbelli erano stati colmati grazie anche al mio paniere, non avrei mai permesso che si scherzasse e si ridesse senza di me dopo aver sudato tutti insieme, e pareva proprio che non desse fastidio, a quella brava gente, tenere a tavola la nipote delle Padrone, perché, anche se pensavano che fossi diversa, una cittadina, una che veniva dal Nord, per qualche ora ero stata davvero come tutti loro. Ricordo anche che Mamma protestava non poco quando mi apprestavo ad aiutare in un altro lavoro poco raffinato, ma a me pareva di giocare, e niente mi disturbava. Per tutto il tempo che passavamo in campagna io seguivo il contadino quando scendeva nella stalla a governare le bestie. Questa parola indicava che le avrebbe portate all'abbeveratoio, che avrebbe dato loro del fieno nuovo nella mangiatoia e, soprattutto, che avrebbe rifatto la lettiera con paglia fresca e pulita. Su una carriola sgangherata deponeva con la forca la paglia e insieme il letame, e quando aveva sistemato tutto, andava a svuotare la carriola dietro il forno, dove un gran mucchio di letame di molti giorni, mesi, credo, si andava ammucchiando in attesa di essere sparso, una volta maturo, nei campi, arati e passati con l'erpice, preparati per il lungo autunno e l'inverno fatto per il riposo. Le donne della famiglia storcevano il naso e stentavano a capire la mia passione per quei lavori, io invece annusavo l'odore dello stallatico, e mi incuriosivo sul perché una cosa di tal fatta permettesse poi alla terra di germogliare feconda. Credo che fosse per cercare di svelare questo segreto che io insistevo a trascinarmi dalla stalla al letamaio, e per la via contraria, ma allora ottenevo solo un sorriso leggero del mezzadro e un sospiro a mezza bocca:
" Tanto a te non tocca questo lavoro. "
Parole strane, per me che pensavo che ogni lavoro fosse uguale all'altro, ognuno scelto per vocazione. Ora lo so, lo vedo bene, lavorare una terra tanto aspra non è una scelta, anche se può essere motivo d'orgoglio. Ma poi, verso la fine di ottobre, quando Mamma e Nonna preparavano le valigie perché si doveva tornare a casa, io di nuovo correvo via, a saltare fra le zolle, cercando spoglie di vipere, abbandonate dopo che avevano mutato abito, o rocce bianche, semplici cristalli di quarzo per tutti, che invece erano gemme preziose per i mie occhi, e non mi bastava un momento, e ancora e ancora toccavo la terra, l'accarezzavo, la facevo scorrere friabile fra le dite, cercando di riportarne a casa tutta la forza che me ne veniva.

ARIA

A differenza della città, quel mare poco distante faceva sì che ci fosse sempre molto vento, gli alberi del podere non sono mai stati fermi, non ricordo di aver visto le fronde immobili, ed anche le cicale, spesso, erano costrette a smettere di frinire, perché il vento dispettoso sventolava i rami, rischiando di farle precipitare a terra, dove un certo numero di polli avrebbe provveduto ben presto a inghiottirle. La Bisnonna era sempre in contrasto col vento, portasse nuvole o sereno, anche se devo dire che di nuvole ne ho sempre visto assai poche, era uso dire che pioveva ovunque, cosa falsa anch'essa, ma che sul podere non cadeva mai una goccia. I capelli raccolti in una crocchia le si scarmigliavano, e non era cosa da nulla, a sera, quando si sedeva alla finestra in faccia al mare, mentre sgranava tra le dita il Rosario, biascicando litanie, cui rispondevano Nonna e Mamma, con una nenia abituale, con la mano si ravversava quanto il vento dispettoso aveva combinato durante il giorno, e ravviando i capelli, mescolava borbottii alle preghiere, scontenta di un clima che conosceva da sempre. Io invece correvo nel vento, mi sembrava che avrebbe saputo sollevarmi in ogni momento, ne cercavo gli aromi diversi e indovinavo la provenienza in base a questi. I riferimenti del mezzadro, se spirava dalla Buca del Ceccanti, se da Poggio all'Agnello, se da Magona, o dalla Casa del Prete di Pisa, non volevano assolutamente dire niente, portasse caldo torrido o caldo secco, perché sempre caldo portano i venti di quella terra, che annunciasse l'autunno prossimo o che ancora prolungasse l'estate, queste eran cose da nulla, era vento. I filari di cipressi sul crinale dei poggi si piegavano ora a destra, ora a sinistra, lievemente, pareva che seguissero una musica che non potevo ascoltare. Ma mi sono dovuta ricredere, mi avevano detto di stare attenta, perché anche il vento provoca danni. Non ci volevo credere, ma fu giocoforza. Attaccato all'angolo del pollaio un grande cipresso, nella mia memoria si tratta di un vero e proprio gigante, si ergeva ritto e intrepido; il suo cupo verde ed il bruno del tronco erano ingentiliti da un roseto di roselline della Cina, rosa, rampicanti, profumatissime, troppo graziose per un pollaio, si potrebbe dire, ma che invece ne definivano con delicata precisione i limiti stabiliti. Mi piaceva il vecchio cipresso, e il profumo di quelle rose l'ho ancora presente, ma un anno tornai in quella casa e scoprii che l'albero non c'era più, era a terra, gigante caduto, veniva tagliato a ciocchi, per riscaldare, per cuocere, per creare il fuoco. Una tromba d'aria l'aveva, sradicato, strappato alla terra nella quale, chissà quando e chissà chi, l'avevano piantato. Durò poco, una stagione, la stagione seguente non esisteva più nemmeno il suo ricordo. E le roselline della Cina, senza il suo sostegno, persero tutta la loro forza, non trovai nemmeno quelle, era rimasto solo il pollaio, più utile, certo, ma anche meno bello.
E un'altra volta un'altra tromba d'aria, piccola, questa volta, per mia fortuna, si alzò rombando furiosa, sollevando polvere e paglia a poca distanza da me. Ero nei campi, come sempre, in fondo, sul limitare del podere, il più lontano possibile dalla casa, là dove ero solita andare per inventare storie meravigliose. Dall'argine in lontananza vidi nascere quel mostro: il vento si trasformava in un nemico pericoloso. Corsi, corsi come non ho mai corso, non avevo il coraggio di voltarmi indietro, forse, se l'avessi fatto, avrei potuto vedere che quella " trombetta " aveva cambiato strada, che non ero in pericolo, ma voltarsi voleva dire perdere tempo, non mi girai. Arrivai trafelata a casa: solo la Bisnonna si era accorta, dalla finestra cui stava perennemente affacciata, che stava succedendo un guaio, ma alle parole di una bimba e a quelle di una Bisnonna si dà poco ascolto, nessuno voleva credere che avessi corso davvero un rischio, ci volle il mezzadro, che, tornato a casa dai campi, dichiarasse che avevo davvero visto ciò che dicevo, ma che mi ero immaginata una cosa più grande di quella che era.
Se penso davvero a quello che è stato, a ciò che non esiste più, a quanto si è perso, solo una voce risuona chiara al mio orecchio, incisa su una pietra tombale da un bello spirito, sotto un secolare cipresso, su quel poggio assolato, in faccia al mare, dove hanno scelto, chissà da quanto tempo, di seppellire i loro morti. È stato un signore, un cacciatore, uno che non si deve essere privato di nessuno dei piaceri spiccioli che la vita gli offriva, ma che alla fine, ha lasciato come suo testamento poche parole, su cui riflettere non è nemmeno necessario, tanto sono di pronta comprensione, e soprattutto vere:
"L'aquila volò senza le penne, il corpo ritornò da dove venne."
Un canto di libertà, un grido di vittoria.

Per inviare i commenti, tornate alla prima parte
Tornate in Biblioteca