Tramonto
di Carlo Vanin

 

«...so let us melt, and make no noise,
no tear-flood, nor sigh-tempests move,
t'were prophanation of our joyes
to tell the layetie our love.»
«...sciogliamoci così, senza far rumore,
non diluvio di lacrime né tempesta di lamenti muoviamo,
le nostre gioie sarebbero violate
se svelassimo ai profani il nostro amore...»
John Donne, A valediction: forbidding mourning. John Donne, Congedo, a vietarle il lamento.

È sempre uguale, sempre lo stesso.
Una crepa nera corre nel terreno e la terra si apre, si frattura, si faglia. Il fuoco, poi, erutta all'istante come da un geyser, la pressione lo spinge nel cielo, rendendolo una rossa colonna gigante che, in breve tempo, cessato l'impeto, ricade a terra in una pioggia di fiamme e lapilli incandescenti.
I sacerdoti citano l'apocalisse: «Il mostro che sale dalla terra!», escono dai loro rifugi insicuri, le loro chiese, e agitano le braccia, parlando di punizione e redenzione. Di pentimento.
Tuttavia, i loro gesti sono tremuli, le voci fioche contro il rombo del fuoco che non lascia scampo.
È il dubbio il loro male e sarà la loro morte.
Sono come tutti noi, cani randagi che si muovono con passo insicuro lungo strade rovesciate, costeggiate da edifici talvolta in fiamme e talvolta crollati, polverizzati. Alcuni di noi siedono sui marciapiedi o in stanze buie, miracolosamente rimaste integre.
Catatonici tengono lo sguardo fisso in un punto davanti a loro, distante.
Fanno quello che prima sembrava una perdita di tempo: ricordano.
Aspettano tutti, educatamente, il loro turno. Il momento in cui saranno chiamati e il loro nome esploderà dalla terra sotto ai loro piedi; la mano del fuoco, poi, come accade sempre, li afferrerà trascinandoli ardenti nel cielo, come delle comete antigravitazionali.
Questo maledetto pianeta, questa cosa orribile con magma al posto del sangue, questo demone risvegliato, avido di sacrifici.
Io non posso aspettare, non posso giocare al gioco della morte e della fine. Eppure dovrebbe essermi facile, corteggiare la morte, dovrebbe essere facile per uno che l'ha fatto per tutta la sua vita. Ma non posso...la mia casa è franata, la vedo ora senza pensare a nulla, senza sentire nulla. Non c'è traccia del fuoco che l'ha bagnata. Di quel nido di malinconie restano solo detriti anneriti, travi sporgenti, rovine. Là sotto, probabilmente, ci sono i miei genitori, andati anche loro nel cielo coll'intero corpo come la madre del Signore.
Riderei, forse, se non mi venisse da vomitare. Dovrei forse scavare? Dovrei riesumare i loro cadaveri irriconoscibili e seppellirli? Ma sono già sepolti. Forse anche nel mio cuore.
Da molto tempo, da prima della tragedia.
Io...io non posso più stare qui, ecco: non posso perdere tempo con i morti e spero che abbiano pietà di me per questo. Devo andarmene. Stavolta sul serio, devo andare perché ora, almeno, non ho più un posto a cui tornare. Non possiedo più una casa, né più un passato.
«Quando le cose si saranno messe bene...» Mi dicevo, «Allora partirò senza tante parole di commiato. Senza un lungo addio.» Ebbene: addio. Non avevo capito, allora, che l'unico modo per migliorare le cose era farle peggiorare, sprofondarle nell'abisso, nel vuoto.
«Quando le cose cambieranno, « Mi dicevo ancora, «Allora andrò via e porterò lei via con me.»
Le cose sono cambiate. Il mondo muore.
Eccomi, ora, qui, davanti alla mia fine. I miei jeans strappati, la barba e i capelli incolti, le mie pallide ambizioni da borghese svanite come sogni all'alba. Ma questo è il mio mondo, mi dico, io che non sono mai vissuto posso vivere solo in un mondo morto.
Il mio cuore s'indurisce, diventa pietra, pesa nella mia cassa toracica come piombo.
Se piangessi adesso, forse diverrei una statua.

Così me ne vado in città. Il cielo è terso e il sole risplende ignaro su un paesaggio irreale. L'aria è pesante, non solo per l'afa estiva ma anche per la caligine delle esplosioni sospesa nell'aria.
La città è vuota, le vetrine dei negozi rimasti in piedi sono infrante, l'asfalto sotto ai miei piedi è ingobbito, distorto, come se una radice gigantesca sotto di esso stesse tentando di uscirne.
Passo vicino ad una fessura, ad un inghiottitoio. Là c'è l'inferno, immagino.
L'aria vicino a quella bocca cariata è molto calda, brucia.
Là c'è l'inferno.
Urla. Qualcuno grida da qualche parte, in qualche via laterale, non capisco se un uomo o una donna. Qualcuno corre all'improvviso dietro di me, mi giro ed è scomparso. C'è ancora qualcuno, ciò che rimane degli uomini quando essere uomini diventa una tragedia. Demoni, mostri.
Un altro grido, atroce, gigante.
È la natura che grida, dappertutto.
Una mano mi tocca, dietro di me, qualcosa...mi giro, alzo di scatto la pistola e...faccio fuoco.
Un vecchio cade a terra senza un suono. L'eco dello sparo rimane a lungo, soprattutto nella mia mente.
Sono diventato la morte, la divoratrice dei mondi.
Una goccia di sudore scende dalla mia cute fino alla curva del mento. Chiudo gli occhi e spingo la testa indietro di scatto, facendomi venire le vertigini. La pistola è fredda nella mia mano destra. L'aria si riempie di un odore metallico, un misto di sangue e polvere da sparo.
Ho trovato l'arma vicino ai resti di casa mia: un uomo che non avevo mai visto prima la teneva stretta nella sinistra. Quell'uomo era morto, giaceva riverso a terra, supino. Dalla sua tempia sinistra fracassata usciva un rivolo di sangue. Non sapevo che ci si potesse specchiare nel sangue.
Eppure il mio volto era lì, in quella pozza abominevole.
Così ho sottratto la pistola al cadavere. Le sue dita non volevano separarsene, erano strette come viluppi a quel veicolo di morte.
Riapro gli occhi. Doveva succedere, dovevo dannarmi veramente, alla fine.
Il grido della natura diventa un orribile risata di scherno.
La mia anima è morta ma...porterò LEI via con me.
E quell'uomo, l'uomo con la testa esplosa...quello ero io. Avrei potuto essere io, ora. E questo vecchio, il vecchio accasciato di fronte a me. Io dovrei essere uno di loro, la pistola lo vuole, orribile oggetto dotato di coscienza: la pistola tenta di torcere la mia mano costringendola a farsi puntare contro la tempia.
Prendimi...usami.
È un oggetto ipnotico, ingordo. Assaggiato il sangue ne desidera ancora e ancora, forsennatamente. Sono più forte di essa perché non posso morire.
Perché lei mi aspetta. Ed è la mia unica forza. Continuo a camminare mentre l'amnesia divora il tempo alle mie spalle. Lontano, a nord, si eleva un'affascinante colonna di fuoco.
Il grido esplode ancora. Per un istante è ogni cosa.

La macchina è vicino alla chiesa. Una Fiat d'altre ere, la vernice scrostata di un colore indefinibile. Funziona. Il suono del suo motore è la cosa più assurda in questa giornata di fine estate.
Non riesco più a pensare. Devo solo andarmene, andarmene per l'ultima volta, prima che la mano si svegli e venga a cercarmi. Prima che la pistola mi chiami ancora.
Prima che l'unico ricordo rimasto si dissolva, lasciandomi solo col buio.
La macchina viaggia a più di venti all'ora, a volte la strada è perfetta, il solito tappeto rugoso. Altre volte la sua superficie è percorsa da cancri e ferite profonde. Leggere scosse d'assestamento mi fanno sbandare. Ma io so che non si tratta d'assestamenti. Questi innocui scuotimenti della crosta terrestre non sono che le ancelle della più terribile regina: la Catastrofe.
L'eutanasia della terra.
Verso sera giungo al suo paese. Il crepuscolo trasporta le rovine in un altro posto, per un attimo l'epifania si aggrappa alla mia schiena. Poi scompare, per la prima volta respinta. Sono stanco.
Il suo paese è stato maggiormente colpito dal fuoco. O forse è l'arrivo della notte che accentua le ombre, che stacca le rovine nere contro un cielo orribilmente stellato. Minuscole torce, come lumini funebri si accendono dappertutto. Mi fermo. Senza il rumore dell'auto, il mondo pare vuoto. Scendo lentamente. Non c'è vento, né il rombo della terra percorre le strade come una belva malata.
Il vuoto. Un altro abitante di questo mio inferno personale.
Il vuoto cosmico, attorno a me, dappertutto, come se l'atmosfera se ne fosse fluita via.
Neppure un alito di vento: tutto è fermo.
Dove sei, dove sei? Perché neppure adesso riesco a trovarti, neppure dopo aver attraversato l'inferno? Perché non sei come un angelo in un altare di luce? Perché non appari bagnata dalle acque di una polla tranquilla?
Lei non c'è e non posso cercarla ancora. Come in un sogno, pensavo che lei mi sarebbe apparsa davanti appena la mia presenza fosse stata palese. Già: l'inferno peggiore non è nelle colonne di fuoco che eruttano dalla terra, l'inferno peggiore è capire d'essere ancora vivo e il mondo ancora in piedi. Il mondo resiste, è più duro di me, continua ad agitare le sue propaggini di tedio.
Sono stato un idiota a pensare che la morte avesse risvegliato la magia nelle nostre anime.
E se fosse...
Mi arrendo. Volevo essere forte anche per lei. Volevo essere...ma sono solo un anguilla che si agita nella sabbia, aspettando il colpo che la finirà, portando il buio.
Ecco, questa è una cosa che posso fare. Posso portare il buio: oggi ho imparato e non è difficile. Fine.
La parola mi piove in gola come l'ultima goccia di una boccetta di veleno. Le mie spalle si rilassano, i muscoli tesi si sfibrano, stendendosi. Il telaio che mi aveva imprigionato ad una vita malvagia si scioglie, liberandomi da una passione falsa.
Prendimi...usami.
La pistola si alza come un cobra gonfio di veleno. La canna si appoggia alla tempia per la seconda volta. Una frase, una frase da dire, da lasciare in eredità all'universo. La mia ultima parola.
«3683!»
Un sorriso si stende sul mio volto, mi vedo da molto lontano, l'anima è già andata, non resta che una piccola formalità...stringo il grilletto...
CLICK! Scarica.
Il sorriso diventa risata, stanca e secca risata. Scendo dalla macchina e mi stiro. Getto via la pistola.
In fondo la magia esiste, si agita talvolta nei nostri corpi e si manifesta nelle nostre parole.
Tuttavia, magia o no, il vuoto è lo stregone più potente. Il vuoto ci rende uguali alle rovine, togliendoci l'illusione di fare veramente qualcosa.
Poi...lei è davanti a me. Come un fantasma si mostra senza un suono; la luna, ormai alta, fatalmente piena, mostra il mio amore fuori di me. I suoi occhi neri sono febbrili, cerchiati di rosso. I suoi abiti sono stracciati, incede lentamente nella notte verso di me.
Sì, a volte la magia esiste e l'universo si volta per un secondo, si scorda il suo accanimento e ci lascia in una felicità mal riconosciuta. Ed è il momento più terribile, quando i desideri si avverano e non ci resta più nulla.
Una colonna di fuoco, meno energica delle altre, esplode a poca distanza da noi, scuotendo il nostro idillio ubriaco. La luce sotterranea c'illumina per un attimo: io sono nei suoi occhi, incastonato come un difetto in un gioiello. Mi getto su di lei per proteggerla, il mio cuore sembra risvegliarsi, l'anima addormentata si scuote, ma non è questo l'amore...
La proteggo col mio corpo ma i lapilli hanno scarsa forza e il tremito della terra, l'unico pericolo, ci getta a terra come pedine di domino. Come statue.
Tuttavia, la carne, lì, fra asfalto distorto e rovine, si risveglia a contatto di altra carne. Lei con le mani afferra la mia nuca impedendo di muovermi, mi attira verso la sua bocca.
Là c'è l'inferno...
La bacio ingenuamente, a fior di labbra. Per un attimo la passione sembra fluire via senza neppure aver consumato la sua furia. Resta una sorta di affetto mai provato.
«Cosa ci fai qui?» Chiede, accostando le labbra al mio orecchio, le sue braccia non mi vogliono lasciare. Stringono. Non potevo immaginare che esistesse quest'infinita dolcezza.
Per un attimo dimentico quello che sono, che sono stato.
È valsa la pena vivere, vivere, vivere, vivere per questo momento. Per un amore rubato alla fine del mondo, mentre l'estate declina.
Poi s'insinua il pensiero più orribile, la verruca più abominevole: siamo soli, non ci vediamo. Siamo soli e lontani, ognuno con il suo amore danneggiato.
«Sono venuto per portarti via.» Dico, la voce mi si rompe in gola. Il ghiaccio nei miei occhi si scioglie in lacrime.
3683.
«Ma dove...» Fa lei, alza il mio capo, come se fossi la sua bambola e mi guarda. Vede poi le mie lacrime e tace. Il suo volto, il più bello, si rattrista. Mi stringe ancora più forte. Premendo la mia faccia sulla sua spalla.
«Ti porto via, « So dire solo questo, come in una litania. So pensare solo a questo.
«Shh...» Mi calma lei, accarezzandomi il capo, come se fossi un bambino. Si muove sotto di me, cambiando posizione, la passione carnale ritorna in me ed io quasi me ne vergogno.
Un rombo lontano ci ricorda che il tempo non è più molto.
Tento di dire qualcos'altro ma lei m'intima nuovamente di tacere. Le sua mano destra si muove fra i nostri corpi tentando di liberare i sessi risvegliati.
Come degli animali facciamo un amore stentato fra le rovine. È lei che muove i miei lombi, gemendo amabilmente. Io non faccio niente, non sono più niente. Quell'atto di solitudine finisce per catturarmi, comincio a muovermi dentro di lei più profondamente, con più forza. Un lieve attrito fra i nostri sessi brucia il mio membro.
I suoi sospiri, monotoni, sono il mio unico mondo.

Alla fine rimaniamo così per un poco, nel calore della notte estiva. Non c'è neppure una cicala in giro, neppure una zanzara. Ci siamo solo noi mostri, avvinghiati l'uno all'altro come se questo ci potesse salvare. Perché è per questo che l'ho cercata: per salvarmi.
Mi alzo quasi a fatica, lei districa mollemente le braccia. La prendo in braccio ed è il suo turno ora di fare la bambola. Siamo entrambi fragili, stanchi, sporchi. Un rombo senza esplosione ci sorprende vicinissimo. «Dobbiamo andare via.» Dico.
Per quanto ancora, per quanto tempo la mano non mi afferrerà, non mi porterà via da lei. Da me stesso?
Partiamo, finalmente.

Viaggiamo lentamente. Io guido nella notte come ipnotizzato dalla strada. M'illudo di trovare un luogo risparmiato dal disastro, un posto nascosto dall'occhio di Dio, se Dio ha occhi. Lei non dice niente. Dorme. La mia salvezza muore in lei e la sua in me. Non c'è più nessuno da nessuna parte, uomini come fantasmi si muovono da qualche parte.
So che ci sono, fra le macerie sempre più frequenti, ma è come se non esistessero già più.
Mentre corro lentamente nella notte non posso che pensare al mio amore: la guardo di tanto in tanto, temendo che sia un sogno, temendo di non vederla più.
Poi la benzina finisce.
Sveglio il mio amore assopito. Lei sorride, così faccio anch'io. Sono ancora nei suoi occhi, ora più belli. Lasciamo l'auto e c'incamminiamo verso una fine conosciuta.
Il sole sorge ancora. Per l'ultima volta, penso. Non ho più ricordi: ho solo lei, lei che cammina accanto a me. Noi. Noi che camminiamo puntellandoci l'uno all'altro. Incespicando, parlando poco, guardandoci negli occhi per trovare qualcosa...
Non mangiamo, non facciamo più niente. A volte ridiamo o piangiamo, a volte le mie labbra sfiorano le sue in un gioco piacevole. Siamo due puntini neri sotto il sole. Ci siamo persi.
Arriviamo al mare al tramonto.
Il rosso è ovunque. La morte, la morte che ci segue, si mostra qui ovunque. Le case sono ammassi di macerie fumanti. La strada sprofonda in vasche di magma. Laggiù però, sulla spiaggia, vicino al mare calmo c'è un posto dove potremo finalmente riposare. Un argine tranquillo.
Ci stendiamo sulla rena bagnata. L'acqua è la cosa più bella che abbia mai visto. Nudi, ci laviamo, ridendo di quella consuetudine. Poi lei si distende e mi apre nuovamente la via che le si apre dentro. 3683.
La colonna esplode vicina. Come per un miracolo le faville non ci toccano: siamo al di là, in un paradiso breve ma bellissimo. Sono calmo, non mi si muove niente dentro. Sono nuovo.
Scendo dentro di lei come in un abisso, nell'oblio.
Eccoci ora l'uno vicino all'altra, gli occhi negli occhi, come se fossimo sempre stati vicini, come se fossimo laggiù da sempre, in un luogo dove l'acqua lambisce le nostre estremità donandoci il sopore tanto agognato.
Quando arriva la fine, poi, tutto cambia.
Una crepa si apre sotto di noi, e siamo uno nell'orrore, nella paura. Il fuoco ci avvolge finalmente, senza lasciarci il tempo di un inutile addio. Ecco.
L'ultima cosa che vedo sono i suoi occhi che guardano il tramonto, così belli.
Così tristi.

© Carlo Vanin
Data invio: 10/2003
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