La stanza è spoglia, c'è solamente il minimo indispensabile: una porta, un pessimo quadro appeso alla parete opposta, un vecchio tappeto sfilacciato già calpestato da innumerevoli suole, e un divano sporco, leggermente affossato al centro. Nessun odore particolare, nessun suono.
L'uomo che pazientemente attende, seduto sullo squallido divano è vestito bene, giacca sportiva e cravatta. Le scarpe sono lucidissime, evidentemente pulite per l'occasione. Osserva intorno costatando, ancora una volta, che non c'è nulla da leggere e nessuno con cui parlare. È completamente solo e aspetta.
Attende il suo turno, ma la porta dalla quale dovrebbe uscire l'addetto alla chiamata rimane chiusa. È molto tempo che non vede nessuno e sta disperando. Eppure nella stanza c'è solo lui, dovrebbe essere il prossimo a essere chiamato.
Si guarda intorno per l'ennesima volta, conosce ogni minimo particolare del tappeto e dello scomodo divano dove è seduto. Ora la sua attenzione si sposta alle pareti ma trova solo una piccola crepa, nemmeno un ragno da osservare mentre aspetta.
Si rammarica di non aver un orologio al polso. In realtà non lo indossa mai perché gli causa un continuo fastidio, ma si pente di non aver infilato nella tasca la piccola sveglia, appoggiata solitamente sul comodino. Cerca di calcolare mentalmente da quanto tempo è in quella sala d'attesa, ma non ci riesce. Sembra un'eternità.
Vorrebbe alzarsi, aprire la porta senza aspettare più, ma non sarebbe educato. Inoltre questo gesto potrebbe compromettere il suo futuro. Sarebbe sicuramente cacciato, sprecando tutto questo tempo per nulla.
Oramai dovrebbero chiamarlo, il prossimo deve essere per forza lui, non c'è rimasto nessun altro. Questa lieve speranza gli offre un appiglio per continuare la lunga attesa, si rammarica ancora di non sapere nemmeno quanto tempo sia passato da quando è seduto lì. Nella stanza non c'è nulla che indichi il lento, inesorabile trascorrere del tempo.
Si alza, decide di avvicinarsi alla porta per origliare, ma improvvisamente cambia idea e si allontana in fretta. Sarebbe stato troppo imbarazzante se lo avessero chiamato proprio in quel momento. Come si sarebbe potuto scusare?
Come un orso, rinchiuso in una gabbia troppo stretta, l'uomo gira in tondo, inciampa nell'orlo del vecchio tappeto. Calcola la superficie della sala misurandola con i passi, ogni passo circa un metro, cinque passi per sette sono trentacinque metri quadrati. Sembrava più piccola.
Si siede ancora, la paziente attesa continua.
Se qualcuno lo vedesse in questo momento non direbbe certo che sia paziente, ma non c'è nessuno a vederlo. Gli sorge un dubbio, cerca di individuare se nelle pareti potrebbe esserci nascosta una telecamera: solleva l'unico quadro presente nella stanza, ma non trova nessun dispositivo strano, nessun foro sospetto. Meno male, già si vedeva in televisione in uno di quegli stupidi programmi di scherzi.

Girovagando si ritrova, per puro caso, nei pressi della porta. Tende l'orecchio. Non sta origliando, vuole solo capire se, la persona che lo ha preceduto, ha quasi finito. Nulla, non sente nulla.
S'avvicina un poco di più, arriva addirittura ad appoggiare l'orecchio sul freddo legno bianco.
Nessun rumore.
Deluso, torna a sedersi. Che abbiano finito e si siano dimenticati di lui?
Il silenzio, che spesso gli è stato alleato, ora lo aggredisce come se fosse un nemico.
Batte le mani sulle ginocchia.
Sospira forte.
È riuscito a cacciare il silenzio per un attimo, ma è una vittoria troppo breve. Il nemico ritorna subito, e con lui i pensieri. A che cosa pensare? Vorrebbe spalancare quella porta e chiedere se si sono dimenticati che lui sta aspettando, vorrebbe urlare il suo disappunto ma non osa.
Un dubbio lo assale: - Non so sentire, non so pensare, non so volere. Probabilmente non esisto. Penso quindi sono. Ecco la prova per fugare ogni dubbio, anche se penso solo a una cosa. -
Guarda la porta sperando di scorgere anche un minimo movimento, un accenno ad aprirsi.
Per cercare di distrarsi estrae dalla tasca dei pantaloni il portafoglio. Conta i soldi, li dispone in ordine di grandezza. Estrae la carta di credito che non ha mai usato. Legge il numero. Tocca le scritte in rilievo. Chiudendo gli occhi cerca di riconoscere al tatto le lettere che formano il suo nome, una prova della sua esistenza.
Il tentativo fallisce. Si chiede come riescano a leggere in braille i non vedenti.
Rimette a posto il portafogli nella tasca posteriore destra dei pantaloni. Potrebbero chiamarlo da un momento all'altro e vuole essere pronto. È tanto tempo che aspetta, anche se non sa esattamente quanto, dovrebbe essere quasi l'ora di varcare quella soglia.

A questo punto il lettore si starà chiedendo, almeno lo spero, che cosa ci sia dietro quella porta chiusa. Nel peggiore dei casi vorrà almeno conoscere che cosa aspetti questo pover'uomo. Se non sono riuscito a creare neanche un minimo di suspense, allora lo invito ad accendere tranquillamente il televisore e io, invece di perdere tempo a scrivere mi potrei dedicare a qualche attività più proficua.
Accantoniamo momentaneamente il pessimismo e supponiamo di avere ancora qualcuno che sta continuando a leggere oltre questo punto, non posso tradire questi pochi irriducibili e abbandonare questa storia. Mentre aspettiamo che la porta si apra posso spiegare come il nostro protagonista sia finito in questa noiosa situazione.
Non molto tempo prima...
Scusate l'interruzione, la por+ta si sta finalmente aprendo.

Appare una segretaria, una di quelle antipatiche burocrati che si sentono superiori, rispetto ai poveracci che stanno dall'altra parte del bancone. Ovviamente porta gli occhiali e indossa un camice bianco. Ha un'immancabile lista in braccio e la tratta con cura, come se fosse un bambino. Aiutandosi con una penna nella mano sinistra, sta cercando un nome.
- Sono solo nella sala - pensa il disgraziato in attesa.
Finalmente la donna parla, dice un nome, lo pronuncia volutamente in modo sbagliato, ma è proprio il suo. L'uomo lo riconosce e si avvia verso la porta.
Finalmente è il suo turno, dimentica immediatamente la lunga attesa, i funesti pensieri di rimanere lì per sempre. In un istante le ore d'attesa sono dimenticate, cancellate.
Non ricorda più nemmeno che cosa rappresentasse il quadro appeso nella sala d'attesa.
L'attenzione è concentrata su ciò che accadrà oltre quella soglia.
Finalmente può uscire dalla sala ed esistere, qualcuno lo ha inventato, per inserirlo in un racconto. È una storia di poco conto. In realtà l'uomo avrebbe desiderato essere il protagonista di un romanzo epico in vari volumi, o una sceneggiatura importante che sarà studiata a memoria da numerosi attori. Questo è un semplice racconto breve, di sole 1111 parole, ma meglio che il nulla, meglio che continuare ad aspettare eternamente nel noioso limbo dei personaggi non inventati, senza sapere quando o se si sarà evocati da uno scrittore.


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