Il gatto delle fogne
di Francesca
Martedì, ore 13
Clara si voltò verso Marta e le domandò se per pranzo preferiva il riso.
Marta le rivolse di rimando un'altra domanda alquanto umiliante per chi la riceve, ma tuttavia necessaria: «Riso con cosa?». Ed è come dire: Se lo condisci come piace a me sì, altrimenti te lo mangi tu. Ma insomma, non siamo al ristorante, rifletté Clara irritata non sapendo cosa rispondere. Poi a malincuore decise di svelarle il condimento che avrebbe utilizzato. «Pensavo salsa ai quattro formaggi».
Marta annuì svogliatamente. Odiava la salsa ai quattro formaggi, ma non aveva nemmeno voglia di umiliare ancora sua sorella. Clara che si occupava ogni giorno della pulizia domestica e delle commissioni esterne, mentre lei se ne stava tutto il giorno a scrivere davanti a quella macchinetta infernale.
In quel periodo Marta sperimentava un nuovo genere narrativo: il racconto dell'orrore.
Erano ormai due mesi che aveva portato in casa quell'aggeggio singolare, prima di allora aveva sempre scritto a mano. E sopratutto aveva sempre scritto racconti d'amore. Amori disperati, amori appassionati, dissertazioni su argomenti al limite tra l'ossessione sentimentale e l'erotismo puro. Neanche lei capiva se quei due amoreggiassero o scopassero. Ma cosa contava se la storia filava che era una meraviglia? Era come sentirsi minuscoli in un mondo di fantasia, e gettarsi a scivolo su di un filo che non ti lasciava mai cadere giù.
Perché poco più giù c'era una realtà differente, e Marta se ne era resa conto soltanto due mesi prima. Da quando era entrata in casa quella maledetta macchina da scrivere.
Non era uno strumento qualsiasi di scrittura. Gliel'aveva fatta recapitare dal New England una vecchia zia in occasione del suo venticinquesimo compleanno.
La zia Smeraldina, dal nome abbastanza insolito, era la sorella della defunta nonna di Clara e Marta. La prima e ultima volta in cui si erano incontrate era stato al funerale della nonna Pina, dieci anni addietro.
A quel tempo Marta era stata una vivace adolescente, Clara poco più che una giovane donna. La zia Smeraldina era stata per loro sempre una figura astratta, un essere naturalmente umano avvolto da un alone di mistero.
Non che alle due sorelle interessasse qualcosa di questa zia. Ma ogni volta che la nonna o la mamma ne parlavano era come se affrontassero il ricordo di un fantasma.
Una donna che da anni viveva nel clima bizzarro del New England, di cui non avevano mai visto il volto, né udito la voce, che infine la nonna non rivedeva da una quindicina d'anni quando i genitori erano deceduti e Smeraldina era partita per l'America in cerca di un'occupazione più agiata di quella di lavandaia che svolgeva in Italia.
Nonna Pina riceveva da lei una lettera all'anno, ed era sempre disposta a risponderle e spronarla a scrivere più regolarmente, per capire meglio della sua vita.
In quelle sporadiche missive, Smeraldina diceva che il clima umido del New England le maciullava le ossa. Un termine alquanto vivace per una cortese signora che aveva superato la sessantina. E di gran lunga. Inoltre discorreva sulle varia attività d'impiegata, segretaria, commessa, senza indicare le persone con le quali aveva a che fare, né il genere di ufficio o negozio in cui lavorava.
Insomma, fu anche per questo motivo che le due ragazze crebbero accompagnate da numerosi dubbi sull'identità della zia.
Una donna che per loro poteva non essere mai vissuta in Italia, visto che quando la nonna Pina morì erano trascorsi quindici anni dalla sua partenza. Venticinque al giorno d'oggi. A quel tempo Clara aveva avuto cinque anni, e non ricordava che la nonna o la mamma le avessero mai parlato di lei prima che andasse via.
Le due sorelle sapevano inoltre che lavorava saltuariamente in luoghi ignoti i quali avrebbero potuto essere bene nel centro del mondo, figuralmente considerato l'inferno. Amava i gatti, come aveva mostrato al funerale di Pina: indossava un lungo abito nero, un cappello di velluto nero, un paio di scarpe nere, e in braccio portava un'antipatica bestia felina, ovviamente nera.
A quell'epoca Smeraldina dimostrava una settantina di anni, anche se facendo un rapido calcolo ne avrebbe avuti realmente più di settantacinque.
Cosa sorprendente: ora Smeraldina ha più o meno novant'anni.
Al funerale della nonna il felino rabbioso si dimenava tra le sue braccia deboli e scarne. Era floscio e spelacchiato. Avrà avuto anche lui la sua bella età, ma lanciava sguardi arcigni a chiunque lo fissasse domandandosi perché quella bestiola fosse tanto irrequieta. I suoi occhi tondi erano completamente azzurri, con un inquietante striscia nera verticale al centro, che mandava bagliori e scintille allo sguardo.
Marta pensò spesso che quel gatto fosse fin troppo furbo per essere un animale. Si dimenava, si indispettiva, ti lanciava occhiate come a reclamare qualcosa, o a scrutare nei tuoi pensieri.
Sembrava l'anima di un umano incastrata nel corpo di un felino, in un castigo eterno.
Sì, eterno. In quanto la macchina da scrivere giunta in tempo a Marta per il suo compleanno (dopo dieci anni nei quali la zia sembrava essersi dimenticata di lei e di sua sorella), era accompagnata da un grazioso biglietto d'auguri dalla carta rosa e da un paio di fiori disegnati a ogni angolo.AUGURI PER MILLE ANNI DALLA ZIA SMERALDINA E IL DOLCE TIMOTEO.
Sì, proprio lui. Timoteo era il nome del gatto che era stato presente al funerale della nonna. Due erano le possibilità: o il gatto aveva spaventosamente più di vent'anni, oppure dopo la sua morte era stato rimpiazzato da un altro gatto, a cui era stato affibbiato lo stesso nome del primo.
C'era poi una terza possibilità, a dire il vero abbastanza vaga, vista l'età veneranda della zietta. Nel biglietto non era precisato di che genere fosse il dolce Timoteo. Poteva trattarsi di un amante, di un marito o un compagno, che per una sfrontata ironia della sorte aveva lo stesso nome del gatto.
Queste divagazioni poco interessavano alle due ragazze. Sta di fatto che quando Marta mise mano per la prima volta alla macchina, inizio a buttare giù quasi incoscientemente righe a lei estranee. E il filo sul quale scivolava da anni sembrava averla abbandonata. Ogni volta che tentava di scrivere qualcosa che rispecchiasse i suoi gusti, era come sentirsi in bilico, rischiare di perdere l'equilibrio, rovinando in quella realtà sottostante che non aveva mai osato esplorare.Il suo racconto si intitolava Il gatto delle fogne.
Gliel'aveva suggerito una voce in sogno, qualche giorno prima. Cosicché un mattino era scesa dal letto e come un automa aveva iniziato a battere parole sul foglio.
Certe volte le capitava di distogliere lo sguardo, eppure le sue dita continuavano a digitare ciò che la mente – o qualcosa nella sua mente – le dettava.
Senza saperlo il filo l'aveva già abbandonata, o meglio lei si era già precipitata volutamente in quell'abisso, spinta da chissà quale istinto, ad esplorare forse quella parte di inconscio da sempre occultata.
Il gatto delle fogne aveva iniziato ad esistere. Sul foglio naturalmente.
Nella cucina, Clara era intenta a preparare il riso. Gettò un'occhiata nel lavello. Qualcosa da qualche giorno la disturbava. In quel luogo, tra i tubi di scarico del lavello, si udiva spesso un lamento. Era dolce e ovattato. Mugolava. Era attraente nel suo apparente tentativo di chiedere aiuto.Mercoledì, ore 16
Marta non aveva più bisogno di stare in silenzio per cercare lo spunto adatto, tanto più che le parole perfette le venivano giù al momento giusto senza alcuno sforzo.
Ormai si era abituata a quel modo di scrivere. Era come se la voce che spesso di notte giungeva ad illuminarla, avesse oltrepassato il limite del luogo destinato solo ai sogni, per sorprenderla nella realtà.
Marta scriveva come sotto un comando, e tutto ciò la divertiva un mondo, le impediva di chiedersi cosa le stesse succedendo. Non ascoltava voci nella testa come spesso capita agli psicopatici, si trattava piuttosto di un'energia che lei confondeva per una forte ispirazione. Si appropriava dei suoi pensieri e della sua voce mentale per produrre parole. Erano eccellenti e soddisfacenti, tanto che la portavano a riflettere seriamente sul suo futuro di scrittrice.
Le era capitato varie volte di intuire miglioramenti in quello che per ora era il suo hobby, tuttavia mai si era trovata sorpresa come allora.
Eppure qualcosa le suggeriva che una casa editrice non sarebbe stata il fine ultimo di quel racconto. Insomma, Marta non aveva trovato il genere di racconto che le calzava a pennello, e Il gatto delle fogne non era soltanto il risultato di uno strano pellegrinaggio tra le viscere dell'incoscienza. No, si trattava di una cosa che andava ben oltre, mirava ad un preciso scopo. Con curiosità e amarezza Marta lo capiva.
A differenza di lei, Clara se ne stava tutto il giorno a tentare di mandare avanti la baracca. Dal giorno precedente il lavello non aveva smesso di miagolare. Ormai era assodato, quei versi raccapriccianti erano di un gatto.
Nella mente di Clara affiorarono mille possibilità. Un gatto aveva cercato di rincorrere un topo ed era rimasto incastrato nelle fogne. Oppure si era cacciato lì risucchiato dallo scarico di un water. O meglio ancora, non era un gatto ma un semplice topo che squittiva in modo insolito. Ma no, non poteva trattarsi di un topo. Il miagolio era chiaro e forte.
Ieri era stato ovattato e sonoro, ma ora sembrava sull'orlo di starnazzare, reclamare, chiedere furiosamente aiuto dal tubo del lavello.
Altro elemento preoccupante: un gatto non avrebbe mai la possibilità di addentrarsi in un tubo, viste le sue normali dimensioni, nonostante ciò la fogna vera e propria era un luogo troppo lontano perché si udisse così marcatamente. Nemmeno un cucciolo sarebbe riuscito a infilarsi in uno spazio così ristretto.Giovedì, ore 16
Nonostante lo scarico del lavello non fosse per niente intasato, Clara vi versò una buona dose di disgorgante. In realtà era un tentativo disperato di mettere a tacere quel miagolio, che ogni giorno diveniva sempre più violento e minaccioso.
Sembrava quasi ammonirla.
Alcuni minuti dopo aver ricevuto la soluzione di acido e ammoniaca, il lavello sembrò vibrare insieme ai fornelli accanto. Il verso miagolante sfiorò la forza di un ruggito, mentre qualcosa in quelle sfumature sonore trasmetteva dolore e ribrezzo. Era chiaro insomma che il micio non avesse gradito l'aperitivo.
Clara non si sentì tanto soddisfatta perché se da un lato aveva la possibilità di mandare giù la bestia curiosa che albergava nei suoi tubi, dall'altro temeva che questa si rivoltasse e mandasse all'aria tutta la cucina. Stava di fatto che quella razza di ruggito non era molto rassicurante.
Per tutte le ore che seguirono Clara resto letteralmente paralizzata in una morsa di paura. Era sempre lì davanti, con il coltello da cucina in una mano, e una scopa nell'altra. Il mostriciattolo lì sotto gemeva dal bruciore. Il disinfettante doveva essere aggressivo per la sua pelle, ammesso che l'avesse.
Clara aprì spesso l'acqua per alleviargli il dolore, spinta un po' dalla pena, un po' dalla paura di una brutta reazione. Ma il gatto taceva per alcuni secondi, poi riprendeva coi suoi gemiti di moribondo, lenti e strazianti.Venerdì, ore 17
Marta era al culmine della sua storia. Il gatto doveva morire, questo lo sapeva, ma per ora era necessario che restasse ancora in vita. Glielo suggeriva la sua vena ispiratrice.
Dal lavello sgorgava un odore nauseabondo di carne bruciata. I tessuti molli della bestia erano stati inevitabilmente intaccati dagli acidi dello sgorgante, e presto sarebbero andati in cancrena.
Questo era quanto prevedeva Clara, anche se in cuor suo il pensiero rappresentava solo una debole speranza. Marta non voleva che il gatto morisse. Almeno non ora. E Clara non le aveva mai parlato della raccapricciante presenza nel loro lavello, né lei se ne era mai accorta.
Adesso il tanfo si univa ad uno spregevole ruggito secco che vibrava nei tubi e nelle esili lamiere del lavello. Anche se a giudicare dalle scosse che procurava, sembravano piuttosto vaghi tentativi di liberarsi.
Clara non lo biasimava per questo, ma era sicuramente meglio se per adesso il leone se ne stesse buono, buono accucciato in quei tubi. Per quanto fossero minuscoli, del diametro massimo di dieci centimetri, e la situazione nel complesso risultasse disarmante, tutto doveva restare com'era. In attesa di un serio provvedimento.
Sabato, ore 10 Clara era tornata dalla farmacia con una boccetta di bromuro in mano. Il farmacista aveva mostrato dapprima qualche remora nel consegnarle il prodotto, poi aveva ceduto, conoscendola da anni, e sapendo che la ragazza ne avrebbe fatto un uso appropriato.
Appropriatissimo, pensò lei. L'intera bottiglia di duecentocinquanta millilitri avrebbe dato due esiti: un sonno profondo, o meglio ancora l'avvelenamento e la morte.
Tutto dipendeva dalle capacità di tolleranza della bestia e, per assurdità, dalla sua stazza.
Si diresse in cucina dove Marta batteva indisturbata e semi ipnotizzata il suo racconto. Sembrava ignara di quanto le accadesse intorno. La stanza era invasa dall'olezzo disgustoso e pungente della creatura, i suoi ruggiti erano bene assestati e giungevano fino al lampadario, procurandogli spaventosi ondeggiamenti.
Il lavello e la cucina vibravano. Una crepa si stava formando sulla base accanto al forno. I muri sembravano assorbire a fatica ogni vibrazione, in una lotta ossessiva per evitare di marcire sotto quell'odore di cadavere ammuffito.
Clara si voltò sconvolta verso sua sorella che tranquilla scriveva a macchina. Per lei era tutto normale, se non fosse stato per i suoi fissi sul televisore di fronte.
Sfornava due righe al secondo, non esitava un attimo per recuperare le forze.
Clara fece per precipitarsi su di lei e spingerla a fuggire prima che fosse troppo tardi. Ma qualcosa la fermò. Era una voce barricata nel guscio più profondo della sua mente. La portò verso il lavello e le fece strabuzzare gli occhi dall'orrore. Un artiglio si era infilato in cima al tubo del lavello e tentava di riprendersi una libertà bizzarramente negata.
Clara sapeva che il mostro non desiderava solo la libertà.
Non fece in tempo a cacciare dalla borsa la bottiglia di bromuro, che la cucina esplose in mille frammenti di legno. Il lavello di metallo si contorse su se stesso, scaraventato verso la finestra dalla forza brutale di quell'essere.
Ovunque si sprigionò un odore di escrementi e resti organici, denso come caramello.
Il gatto era una nera creatura gigantesca, alta due metri, tutta spellata e ricoperta di enormi cicatrici dovute agli acidi disgorganti.
I suoi occhi completamente azzurri, eccetto la linea nera al centro, fissavano furibondi quelli di Clara. Questa non ebbe tempo per pensare, era Timoteo, o il suo cadavere alterato e resuscitato, giunto dal New England.
Istintivamente introdusse la mano nella borsa e afferrò il bromuro. Non sapeva se fosse l'idea giusta, ma la voce nel cervello le suggeriva quello.
Timoteo avanzò in rantoli maligni, pervaso dalla sua furia vendicativa. Voleva afferrarla e artigliarle il viso per il solo fatto di essere odiato da lei. Come lo era stato da tutti, prima di morire dieci anni addietro. Era odiato persino dalla padrona, Smeraldina, che aveva dovuto uccidere tempestivamente. Come ora stava per fare con Clara e... Marta. Doveva distruggere prima lei. Era necessario.
Cambiò direzione. Clara lo vide proiettarsi verso Marta e in uno slancio disperato gli svuotò addosso il contenuto della boccetta. Bastava solo per fargli solletico alla coda.
Nonostante ciò Timoteo si girò a guardarla sofferente. L'odore di bruciato e i ruggiti ripresero più dilanianti di prima.
La bestia si piegò su se stessa nel momento in cui Marta si alzò dalla sedia.
Allungò invano un artiglio verso di lei, ma riuscì solo a rovesciare la macchina da scrivere sul pavimento. Questa si spaccò in due, lasciando intravedere un foglio al suo interno.
Timoteo si accasciò a terra sconfitto. Ansimava, e nei suoi occhi era ancora conservato il bagliore della sua maledizione. Essere incastrato nel corpo di un animale.
L'olezzo si intensificò nel momento in cui le sue carni presero ad ardere e ad appiattirsi al pavimento come formaggio fuso.
La sua chiazza si dissolse completamente pochi istanti dopo.
Clara si chinò sul foglio che era nella macchina. Lo prese e vi lesse la seguente scritta:DOPO ANNI DI LOTTA LUI MI HA SCONFITTO. TENTAVO DI ALLONTANARLO MA TORNAVA SEMPRE.
SAPEVA CHE LO ODIAVO. È UN ESSERE NEGATIVO. MARTA, SOLO TU PUOI UCCIDERLO.Clara spostò gli occhi su di lei, la prese per le spalle e la scosse violentemente.
Lei si svegliò dal suo sogno ad occhi aperti. La sua espressione era di nuovo presente, e in viso aveva disegnato un leggero sorriso.
Si guardò intorno stupita.
«Che è successo?», domandò.
© Francesca
Data invio: 28/11/2007Inviate il vostro commento
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