Ci vuole davvero poco a sentirsi al centro del mondo: una moto, vent'anni. È una sensazione particolare. È una sensazione particolare il vento che turbina nelle orecchie, che gonfia i vestiti sempre più impertinente, man mano che la velocità aumenti. Accelero e le persone ai lati della strada diventano sempre più piccole, degli oggetti inanimati ed informi, privi di connotati riconoscibili e di vita propria. Terza, quarta, quinta e via; terza, quarta, quinta e via. Mi sembra proprio si bemolle; mi concentro sul suono del motore e mi sembra si bemolle, con il suo corteo di note armoniche. Avrei tanta voglia di suonare ripetutamente quest'accordo sul mio pianoforte, per tutta l'estensione della tastiera, arpeggiandolo e rivoltandolo in tutte le combinazioni possibili: tonica, terza, quinta, settima bemolle; tonica, terza, quinta, settima bemolle.
Sono fuggito dal mondo dei viventi, non sopportavo più il suono della stupidità umana, quel vocio scellerato, i jukebox davanti al mare e quella musica insulsa, tutta uguale; e poi, infinite volte nella giornata, quella canzone e il suo reiterato invito in lingua spagnola a correre verso la spiaggia, quasi fosse la quintessenza delle necessità esistenziali o l'unica possibilità per chi voglia esserci in quel momento.
Corro sempre più veloce e, con grande sollievo, mi allontano dalla zona costiera. Mi è tanto cara questa vecchia strada che dal mare porta in città: è assai poco frequentata, quasi dismessa, piena di buche, dimenticata da Dio.
"Ma cosa fai, perché stai sempre rintanato a casa a studiare, vieni con noi in spiaggia; stasera poi si va in discoteca ed il divertimento è assicurato; ho saputo che c'è una ragazza che vuole conoscerti e vorrebbe fare un giro in moto con te."
Non c'è niente di peggio che condividere momenti con persone con cui non si abbia nulla in comune, regalare attimi della propria esistenza ad individui così alieni dal proprio modo di essere da far considerare sprecato e superfluo il saluto che a loro si rivolge. Alle volte mi sembra di parlare un'idioma diverso e di non comprendere il loro; eppure dovrebbe essere quello dei miei nonni e dei miei avi, quel dialetto maturato sulle lingue degli antichi Greci, Romani, Arabi, Francesi, Spagnoli. Non so proprio invece con chi discutere del mio Quasimodo, del mio Pirandello o dilungarmi sulla perfezione formale degli intrecci armonici nelle composizioni di Bach.
La strada adesso corre tortuosa ma la mia moto è un purosangue che non tradisce il suo cavaliere: terza, quarta, quinta e poi via.
Sono fuggito, avevo proprio bisogno di sentire le note del mio pianoforte suonare incontaminate da quell'osceno brusio, da quel sottofondo ignorante ed idiota.
Ancora un tornante: terza, quarta, quinta e poi via.
Le automobili sono rarissime: la strada è tutta per me e gli altri che percorrano pure la statale superaffollata e superasfaltata.
Il paesaggio che si apre al mio sguardo è mozzafiato: la splendida pianura, le sue nervature di muretti a secco, le rade masserie e i crocchi di mucche al pascolo.
La strada adesso è un lungo rettilineo, due linee parallele che si avvicinano sempre di più fino a fondersi, sotto una cupola di un azzurro cristallino, come in certi dipinti su vetro di anonimi artisti siciliani, la cui memoria si è persa nel tempo.
Mantengo una velocità costante, i giri del motore sono in sintonia con i battiti del mio cuore e le vibrazioni percorrono i miei nervi, i miei muscoli, le mie ossa per ritornare al punto di partenza, alla fonte che le ha generate.
È fantastico avere vent'anni. Si ha l'impressione di possedere un'energia sconfinata in un orizzonte senza limiti, un firmamento in cui rivaleggiare in splendore con gli astri, senza il disilludente peso del destino degli umani. Non importa come sarà la mia vita tra qualche anno; adesso voglio bere al calice della mia gioventù, senza sporcare la mia intelligenza nei pantani delle mode correnti e delle idiozie collettive, e pensare che tutto mi sarà dato e concesso proprio perché io non sono come tutti gli altri.
In lontananza, sul ciglio della strada, scorgo delle macchie colorate. Rallento leggermente. Sono delle persone. Sono due ragazzi affaccendati su di un ciclomotore in panne. Mi fanno cenno di fermarmi. Rallento ancora di più, ma è solo un momento, poi aziono la manopola dell'acceleratore al fondo della sua corsa. Scorgo sugli specchietti retrovisori la fumata bianca dagli scarichi del mio motore a due tempi e il gesto di disappunto dei due ragazzi.
Primitività. - Non ragioniam di lor, ma guarda e passa-, come scrisse, tanto tempo fa, un tizio a me caro.
Che sfacciataggine! Pensare che sia lecito fermare così le persone per strada. Importunare il passante come fosse un proprio pari, come se avesse tempo da perdere. Che imparino cosa può succedere se si va per le strade con motociclette obsolete, dalle ruote lisce, dalle marmitte rumorose, dai motori truccati.
Ancora qualche curva e fra poco si presenteranno alla mia vista le prime rade costruzioni periferiche della città. Ma c'è qualcosa che non va. Non riesco a capire, c'è qualcosa che non funziona. Controllo la strumentazione, ma nessuna spia è accesa, eppure mi sembra di sbandare. Sempre più. Devo rallentare. Adesso, adesso ho capito, ho la ruota sgonfia, ho forato. Accidenti, che iella, proprio ora, a pochi chilometri dal centro abitato. Mi fermo, scendo, metto la moto sul cavalletto.
Che fare?
Immagino la vergogna. "Signora, per piacere, mi farebbe usare il suo telefono, ho la moto in panne."
Il silenzio è assoluto. La campagna con i suoi umori e i suoi aromi. Il ronzio degli insetti, quello più acuto delle mosche, quello più grave di un calabrone; non riesco a concentrarmi e a riconoscere a quali note del pentagramma corrispondano. Un lontano muggito, il latrato di un cane. Sento il caratteristico odore di sterco: deve esserci una masseria nascosta al mio sguardo. I minuti trascorrono, non so quanti, ed io continuo ad essere stranamente immobile, incapace di risolvermi, quasi fossi paralizzato. Il sole è al vertice della cupola e mi ricorda come in agosto, all'estremo sud della Sicilia, il sorridente amico di tanti disegni infantili possa trasformarsi nel più temibile dei nemici. Alle volte sono costretto a gesticolare per allontanare da me le mosche ed il loro fastidioso ronzio. Un altro ronzio si sovrappone da lontano e diviene poi sempre più netto, più vicino. È una vespa, è di un verde acceso. Che gusti bizzarri. Il tipo mi guarda e prosegue, ma poi si ferma e ritorna indietro verso di me. Il rumore della marmitta della vespa è una raffica di pugni per le mie orecchie, gli innumerevoli adesivi sulla carrozzeria un inno al cattivo gusto.
"Hai bisogno di qualcosa?"
L'inflessione dialettale è forte e fastidiosa; ha pressapoco la mia età e, sulla pelle bruciata, lineamenti assai marcati, come chi da tempo è aduso a lavorare nei campi. Avrei tanta voglia di rispondergli che non ho proprio bisogno di niente e che vada pure; avrò pure il diritto di restare fermo sul ciglio della strada a riflettere, senza che il primo impertinente a passare si pari davanti al mio sole.
"Ho forato e sono fermo."
"Qui vicino c'è un deposito di gelati. Vieni, ti aiuto."
Non capisco cosa abbia in mente, vorrei tanto chiederglielo. Scende dalla sua vespa e si mette a spingere la mia moto. Mi appresto ad aiutarlo ma mi fa cenno che ce la fa da solo. Sono interdetto ed imbarazzato, ma non riesco ad oppormi. I secondi passano e cresce la mia incapacità di proferire parola o di compiere un movimento volontario che non sia il seguire come un automa il villano che si atteggia a benefattore. È alto, robusto, non pare compiere sforzo alcuno nello spingere una pesante moto di grossa cilindrata con una gomma sgonfia, e le mosche sembrano non arrecargli fastidio. Mi sento come un cane al guinzaglio e continuo a non capire cosa stia per succedere.
Arriviamo ad una piazzola sulla quale sono parcheggiati alcuni furgoni frigo e su cui si affaccia un grande capannone.
"Aspettami qui, cerco qualcuno."
Lo vedo parlottare con un uomo di mezza età che si è affacciato all'uscio del capannone. Entrambi indicano me e la mia moto. Mi sento sempre più impotente. Ritorna verso di me.
"Il titolare dice che puoi lasciare la moto all'interno del suo deposito e che puoi andare a ritirarla quando vuoi."
"Ma io devo andare a casa, in città; come faccio?"
"Non c'è problema, ti porterò io con la mia vespa."
"Ma non devi disturbarti tanto..."
"Nessun disturbo."
Ci avviamo verso la sua vespa. Vorrei parlare, dirgli di lasciarmi alla prima fermata dell'autobus, ma non trovo il momento giusto per spezzare il silenzio, e gli attimi già passati sono tante occasioni perdute per sottrarmi a questa situazione imbarazzante. Mi sento terribilmente fuori posto, ogni mio passo mi sembra intempestivo come una nota discordante con la ritmica del brano. Ho la sensazione di non esserci in quel momento e di stare vivendo una scena onirica, o forse sto davvero sprofondando per la vergogna, pur cercando di darmi un tono.
Mi fa cenno di salire, mette in moto e il rumore ancora una volta mi trapana i timpani.
"Dove stavi andando?"
Riesco a malapena a comprendere quello che mi sta dicendo, sarà per la marmitta o perché parla mangiandosi le parole nello sforzo di usare l'italiano.
"Io abito a Ibla; casa mia è sopra la Caserma."
Annuisce, come se conoscesse alla perfezione la strada.
La vespa procede a ritmo lento, addossata sul lato destro della carreggiata per consentire alle automobili, ormai sempre più numerose, di sorpassare agevolmente. Siamo già entrati in città.
"Ti vergogni ad andare in giro con uno come me?"
Le sue parole mi cadono addosso come macigni e sono inequivocabili, malgrado il rumore.
C'è poca gente in città, forse perché la maggior parte degli abitanti è al mare, ad arrostirsi al sole, ad ascoltare musica inutile o forse a dimenticare i dodici mesi che li separano dalle prossime ferie estive. O forse perché, per chi l'ha vissuta, quelle canzoni saranno il ricordo struggente di questa estate.
Nessuno si volta a guardare la vespa verde piena di adesivi con due persone a bordo. Anche le altre automobili procedono con una lentezza esasperante, come se fossero impedite da un traffico che non c'è. Via Archimede è una lunga discesa che solca il centro abitato, prima di affrontare il tratto finale che conduce a Ibla.
"O per caso è la mia vespa che ti fa vergognare?"
Attraversiamo l'abitato di Ibla, le strette vie, gli alti balconi barocchi, che mi sembra di notare per la prima volta, come uno straniero, turista per qualche giorno.
Vorrei dirgli che avrei ben altro di cui vergognarmi.
Arriviamo davanti casa mia. Scendo dalla vespa. Per un attimo incontro i suoi occhi scuri, gli zigomi alti, la fronte bassa. Risponde al mio sorriso.
"Grazie."
La mia mano di pianista stringe con forza la sua, ossuta e callosa.
Alzo lo sguardo verso il cielo: il sole è sempre alto, la piazzetta è quella di sempre, anche la targhetta sul citofono di casa mia reca scritto lo stesso nome.
"Grazie ancora..."
"Mi hai già risposto, non occorrono altre parole. Sono certo che ci rivedremo."
La vespa verde riparte lentamente. Resto fermo, mentre sparisce dal mio sguardo dopo la curva. Il fragore della marmitta si affievolisce sempre di più; mi sembra di ascoltarlo per un pò. Poi si perde nell'amalgama del rumore cittadino.


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