Fabbrica
Da questo racconto:
Chiusi in fabbrica

Il lavoro procedeva a pieno ritmo, un clangore metallico scandiva il passaggio del materiale tra le fasi di produzione. Le pareti erano macchiate di muffa, che si concentrava negli angoli sino a farli diventare neri. Appesa al soffitto c'era una disordinata massa di tubi e cavi che collegavano le postazioni. L'odore dell'olio, spruzzato sugli ingranaggi meccanici, era sgradevole, ma la sensazione peggiore derivava dall'assenza di finestre.
«Ci credi davvero?»
«Zitto! Continua a lavorare, il controllo potrebbe arrivare a momenti.»
«Non preoccuparti, la rotaia cigola prima che la telecamera riesca ad inquadrarci.»
«Anche se non ci scoprono, questi argomenti non vanno discussi.»
«Perché no? È assurdo lavorare tutta la vita accontentandosi di una speranza.»
La telecamera smorzò il discorso. Passò, senza rallentare. Quando fu lontana, proseguirono: «Lo sai, solo chi lavora bene uscirà in superficie.»
«Intanto sono costretto ad ammazzarmi di lavoro sperando che un giorno mi concedano il permesso di andarmene.»
«Se lo meriterai, otterrai l'autorizzazione ad uscire.»
«Sarò troppo vecchio. Non è giusto sprecare la vita così.»
«Continua a lavorare bene, la Fabbrica lo noterà e potrebbe lasciarti uscire prima del tempo.»
«Non mi lascerà uscire anzitempo, non è mai accaduto. Invece alcuni compagni sono morti mentre lavoravano.»
«Non avevano abbastanza fede. Io sono terrorizzato di perdere la ricompensa finale.»
«Come immagini la ricompensa? Alla tua età dovrebbe mancare poco.»
«Credo che consista nel trascorrere il resto della vecchiaia in un giardino bellissimo.»
«Andiamo a vedere l'esterno ora! Forziamo il portone.»
Il ragazzo era impetuoso, impaziente di vivere le proprie esperienze ed incurante dell'opportunità di imparare da chi aveva già commesso gli stessi errori.
«Devi aver fede, abbandonarti alla sacra Fabbrica che saprà prendersi cura di te.»
Il giovane sbuffò scocciato. L'altro perse la pazienza e urlò: «Smettila di lamentarti, vuoi diventare ateo?»
I miscredenti evitavano il lavoro perché non credevano nel mondo esterno. L'idea di spazi aperti era troppo in contrasto con l'ambiente che conoscevano, erano condannati a perire nel sottosuolo, non avrebbero ottenuto il permesso di uscire perché la fabbrica li ignorava. Gli anziani affermavano che gli infedeli erano privi di grandezza spirituale, non potevano concepire l'esistenza di un Essere divino come la sacra Fabbrica perché erano individui inferiori, incapaci di raziocinio. Non erano degni di beneficiare del dono della fede.
«Non intendo diventare ateo, anche se conducono una vita migliore della nostra, non usciranno mai. Io devo credere nel mondo esterno, è l'unico scopo della mia vita.»

In passato, il ragazzo cercò di convincere un'atea. La ricordava bellissima, magra, ma con un viso dolcissimo. La Fabbrica avrebbe accettato il pentimento e la conversione al sacro lavoro, ma quell'ingrata scansafatiche, non approfittò della clemenza. Guardandolo con pietà, sussurrò: «Come i tuoi colleghi, non vuoi ragionare.»
Il tono rassegnato umiliò il giovane. In quelle parole c'era un fondo di verità, i religiosi affermavano che l'esenzione dal ragionare fosse un vantaggio. Non occorreva pensare, la fede fugava ogni ragionevole dubbio.
«Su che cosa dovrei ragionare?»
«Pensa, osserva ciò che ti circonda. Puoi capire la futilità della vita che conducete.»
Il ragazzo guardava in torno, ma per lui lì dentro non poteva esistere altro.

Un urlo lo distrasse dai ricordi. Un operaio teneva il braccio sollevato, da dove poco prima c'erano state le dita, schizzava un fiume di sangue. Il giovane impallidì, temeva gli incidenti e l'incubo era divenuto realtà.
«Siediti. Rischi di sbattere la testa svenendo.»
«Sto bene.»
Sentirono altre grida. L'uomo piangeva, oltre che per il dolore, perché capiva le conseguenze della disgrazia.
«Non riuscirà a lavorare. Non otterrà la ricompensa.»
«Le regole sono chiare: senza lavoro non si ha diritto a nulla.»
«Ma è un incidente, non è colpa sua.»
«Doveva stare attento. Il corpo c'è stato concesso in prestito, dobbiamo mantenerlo sano per lavorare.»
«La Fabbrica è ingiusta!» urlò il ragazzo. Per fortuna nessuna telecamera si trovava nei pressi per registrare la bestemmia.
«La Fabbrica non è né giusta né ingiusta: chi può erigersi a giudice dei disegni divini?»
Il vecchio avrebbe voluto calmarlo, ma non avevano tempo. Ancora pochi secondi e la Fabbrica avrebbe azionato la gestione automatica delle macchine. Quando accadeva, l'operatore non poteva lavorare sino al turno successivo e avrebbe perso il diritto al pasto relativo a quella sessione di servizio.
L'uomo tentò di recuperare il controllo della postazione nonostante il dolore. Azionava le leve con la mano mutilata, lasciando scie di sangue. Senza dita era impossibile compiere le operazioni necessarie. Continuò nel tentativo, sino a quando la macchina iniziò il funzionamento automatico. In quel momento abbandonò ogni speranza. Spruzzò dell'olio sugli ingranaggi sporchi di sangue, per evitare che arrugginissero e si allontanò, per appartarsi in un angolo buio. La mano continuava a sanguinare. Sapeva che da quel momento non avrebbe più ottenuto un pasto. Da fervido credente, preferiva lasciarsi morire che chiedere aiuto agli atei.

Ogni tanto, qualche anziano usciva da un portone che si apriva solo per lui. Le ante si muovevano in modo automatico perché non c'erano guardiani. L'equanime fabbrica creava gli operai tutti uguali, e comunque non servivano sorveglianti perché tutti sapevano che, per ottenere la ricompensa, bisognava lavorare in modo adeguato. C'erano però le telecamere, che viaggiavano appese a dei binari sul soffitto. Se sorprendevano qualcuno oziare durante il lavoro non succedeva nulla, ma tutti sapevano che la persona sorpresa in flagrante, avrebbe avuto meno probabilità di ottenere il premio.

Alla fine del turno, il lampeggiante, ancorato sopra la postazione dell'operaio più anziano, si accese.
«Hai ottenuto la ricompensa!»
«Aiutami, sono stanco.»
Il giovane lo accompagnò fermandosi a qualche passo dal portone. Le ante iniziarono a schiudersi e apparve una fessura. I raggi del sole entrarono copiosi, proiettando la luce su una fetta del pavimento. La parte illuminata investiva il vecchio, e terminava davanti al giovane, si rifiutava di sfiorare la sua scarpa. L'anziano oltrepassò la sacra soglia. Quei pochi metri rappresentavano un abisso invalicabile per il ragazzo, ma la luce cadeva solo ad un passo da lui.
Un piccolo, semplice passo. La libertà gli veniva incontro entrando nella fabbrica.
Pensò all'operaio senza dita, al sangue. Poteva capitare una disgrazia simile anche a lui. Una volta introdotto un piede nel triangolo illuminato, tutto fu semplice e corse verso l'apertura.
I testimoni chiusero gli occhi, ritenevano una trasgressione solo assistere ad un'eresia del genere.
Il ragazzo passò, le porte si chiusero alle sue spalle.
Si fermò all'esterno, aspettando una punizione divina, o un allarme che denunciasse il peccato mortale. Urlò, il silenzio faceva paura.
La fabbrica non fece nulla; la porta non fece nulla. Passato lo spavento, il giovane vide il sole, immenso e accecante, poi notò l'ambiente circostante. Incredulo del paesaggio guardò il collega, ma era troppo debole e non aveva alcuna reazione. Il portone alle loro spalle, li divideva dal passato. Un deserto tutto attorno, era il loro futuro.
«Dove sono i giardini?»
«Non lo so, sono esausto. Lasciami a riposare.»
«Dobbiamo scoprire dove siamo.»

Il ragazzo trovò una stanza con dei monitor accesi che trasmettevano le immagini delle telecamere. Tutto era abbandonato, vide un manifesto che rappresentava una strada in mezzo ad una foresta e un'automobile che sfrecciava veloce; riconobbe gli alberi, è così che doveva essere il paradiso. Guardò alcune immagini registrate. Le prime riprese erano relative ad un periodo dove la società era simile alla loro, ma riavvolgendo il nastro vide dei lavoratori grassi e con la pelle diversa dalla bianchissima carnagione degli attuali abitanti. Gli operai entravano nell'edificio all'inizio del turno e ne uscivano alla fine, la porta non si offendeva, anzi sembrava che fosse comandata a piacere. Associando le varie informazioni accumulate, il giovane capì quello che era accaduto.
Un giorno, una catastrofe sconvolse il mondo, guastando il sistema automatico e tenendo intrappolati all'interno i lavoratori. Non si capiva che cosa fosse accaduto, all'impianto d'archiviazione non interessava l'esterno, il suo compito era di registrare le immagini riprese dalle telecamere.
Gli uomini rinchiusi, tentarono di forzare il portone senza successo. Presto si accorsero che la Fabbrica forniva il pasto solo agli operai che completavano un turno. Per mangiare ogni sedici ore, si divisero in due gruppi. L'estenuante lavoro privò i lavoratori della forza di tentare d'uscire, anche perché non erano sicuri che all'esterno l'emergenza causata dalla catastrofe fosse terminata.
Il portone rimase sigillato per anni, sino a quando, ad una postazione, si accese un lampeggiante. L'uomo che vi lavorava era impazzito, grazie al rifiuto della realtà, interpretò in modo corretto il significato dell'allarme e si diresse verso l'uscita.
Voleva tornare a casa. Il portone si aprì.
Nessuno capì il motivo, e col passare del tempo le generazioni seguenti si convinsero che la fabbrica fosse mossa da una volontà divina. Il contratto d'assunzione fornì una spiegazione plausibile al comportamento del programma. La clausola era scritta in neretto:
Chi produce meno del limite minimo contrattuale per più di un mese consecutivo, è licenziato.
Il minimo contrattuale corrispondeva alla velocità di fabbricazione della postazione in automatico. Se con l'operatore, la quantità realizzata era inferiore, diventava antieconomico pagare uno stipendio.
Il lampeggiante segnalava il licenziamento. L'operaio non doveva lasciare la fabbrica perché aveva ottenuto una ricompensa, ma per il motivo opposto.


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