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© 2005 Gianluca Turconi. Tutti i diritti riservati.

La partita è prevista per le quattro e mezza del pomeriggio. I calciatori stanno effettuando il riscaldamento, rincorrendo felici il pallone. Hanno sette anni e indossano fieramente la maglietta arancione e blu della squadra locale che, ai tempi d'oro, era arrivata tra i professionisti, nel campionato di C2.
«Guardate il numero nove!» dice ad alta voce una mamma del nostro gruppo. «Ha la maglietta che gli arriva alle ginocchia!» Scoppia una risata collettiva. Si riferisce al centravanti avversario, un rospetto dai capelli neri che supera a malapena il metro e dieci. Ha gambe veloci... Lo osservo destreggiarsi per un minuto o due tra i compagni e, tac, mi inciampa sul piede di un altro e mi cade lungo e tirato sul campo.
«Ha qualche problema di coordinazione.» faccio io, imitando l'inciampo. Un'altra risata più grossolana percorre il gruppo di sostenitori. Un tizio dai capelli e baffi corvini mi dedica uno sguardo risentito.
Che sia il padre? mi domando guardandolo in faccia. Speriamo non sia un agente della polizia stradale. Mi è capitato in passato di scherzare col tipo sbagliato a una partita e di ritrovarmi fermato da una pattuglia diversa in cinque giorni consecutivi. Abbasso lo sguardo per distogliere l'attenzione.
E' tempo di derby. Si incontreranno le due squadre del paese e la tribunetta del campo riservato al settore giovanile è gremita da oltre settanta spettatori, equamente distribuiti tra genitori, parenti e affini dei giocatori. Ho trovato posto a bordo campo, pigiato contro una rete alta tre metri che delimita il rettangolo di gioco. Vedere il mondo a scacchi sa di istituto di pena, ma non mi sarei perso la partita per nessuna ragione al mondo.
Alessandro, mio nipote, attraversa di corsa il campo per andare dal suo allenatore. Mentre passa, mi saluta: «Ciao, zio!» E sfreccia via.
Il mio «Ciao, Alex!» non gli arriva neppure. Si è già mischiato ai compagni. Per quanti sforzi faccia, non si può confondere tra loro. E' il più alto e il più forte. Gli hanno assegnato la maglia numero otto, farà il centrocampista difensivo. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Ha una visione di gioco sorprendente e il carattere deciso. Sarà un ottimo mediano d'interdizione.
Apparteniamo alla stessa razza: i malati di calcio. Io ho speso quindici anni della mia vita sui campi di periferia giocando da dilettante. Il calcio mi è entrato nelle vene da piccolo e non sono più guarito. Mi ha contagiato ai mondiali di Spagna nell'ottantadue facendomi piangere tante volte, troppe. Sono stato tra quelli che avrebbero mangiato vivo Maradona dopo la sconfitta subita dalla nostra nazionale a Italia 90, ho passato la notte in bianco maledicendo il nome di Roberto Baggio per il rigore sbagliato a USA 94 e non ho ancora sbollito la delusione della finale persa dopo i supplementari agli Europei del 2000 in Olanda. Sono anche tra coloro che stanno aspettando da mezza vita il nuovo scudetto del Football Club Internazionale, meglio conosciuto come Inter. Il mio destino calcistico? Soffrire.
Mio nipote, se possibile, ha una forma ancora più grave di questa malattia. Lui è nato col pallone ai piedi. Non se ne è staccato dal giorno in cui, intorno ai due anni d'età, si è accorto che spingendolo, rotolava. La prima cosa che chiede appena tornato da scuola è «Posso uscire a giocare a calcio?» L'ultima che pronuncia andando a dormire: «Un attimo che sistemo il pallone sotto al letto.»
Iscriverlo in una vera squadra una volta raggiunta l'età minima consentita, è stato naturale per lui, mentre accompagnarlo e tifare alla morte è divenuto un dovere imprescindibile da parte mia.
«Oggi sarà dura.» commenta Andrea. Suo figlio gioca all'ala destra nella nostra squadra. Ha talento, però, come dicono per i campioni mancati, non ha cuore, non vive il calcio al pari di un dogma di fede. Tutta un'altra pasta rispetto ad Alex. Andrea mi rende edotto di un particolare aggiuntivo: «Gli altri hanno un attacco forte e un portiere eccezionale.»
«Ehhh... Che sarà mai 'sto portiere!» ribatto. «In fondo, ha sette anni.»
Me lo indica: «Vedi un po' tu.»
E' al centro dei pali di una porta ridotta per adeguarla all'altezza dei giocatori. Il vice-allenatore avversario, un ragazzo di sedici anni, gli sta calciando delle punizioni di allenamento. I tiri sono forti e tesi, agli angoli, agli incroci, a mezz'aria. Il portiere ne ribatte il cinquanta per cento con i pugni chiusi e i rimanenti li blocca saldamente tra le braccia, attutendo l'impatto col petto. Non ne ho visto uno entrare in rete.
Questo fenomeno è un bambino grassottello, dotato di gambe robuste e testa grossa, ricoperta da un cappello a visiera che lo protegge dal riverbero del sole. Si dondola avanti e indietro, tenendo le mani ben larghe lungo i fianchi pronto al tuffo laterale per impadronirsi della palla. Gli occhi attenti non abbandonano mai la sfera e la seguono con estrema precisione nelle evoluzioni aeree. Ho scoperto subito il suo segreto: è un malato di calcio.
«Vero.» confermo ad Andrea. «Sarà dura.»
Noi abbiamo Alex, mi dico. Non possiamo perdere.
Gli irrigatori automatici prendono a spruzzare acqua sul campo in vortici di intensità crescente, arrivando a bagnare le prime file del pubblico.
«Cosa combinano?» si lamenta una distinta signora sulla sessantina, dall'accento francese, ripulendosi la gonna beige con un fazzolettino ricamato, quasi che l'acqua che l'ha bagnata contenesse strani coloranti sconosciuti ai comuni mortali.
«E' per non far alzare la polvere.» le spiego. «Se non si bagnassero i campi in terra battuta, nel corso delle partite si creerebbero tempeste di sabbia da fare invidia al Sahara.»
Mi restituisce un'espressione tra lo stranito e l'incredulo. Si starà domandando in quale paese del terzo mondo è finita. Ma i campi in terra battuta sono necessari. Sbucciano le ginocchia e temprano il carattere. Non se ne può fare a meno.
Controllo l'ora. Sono le quattro e venticinque.
I giocatori si avvicinano ai rispettivi allenatori. Inizia il rito della scelta dei titolari. L'allenatore di Alex si abbassa davanti a ciascun bambino e gli spiega le motivazioni delle sue scelte. Gli esclusi chinano la testa, un po' depressi. Alex scalcia la terra e grida parole che sua madre mi accuserebbe sicuramente di avergli insegnato.
Guardo Andrea, sconvolto dalla scoperta: «Non avrà messo mio nipote in panchina? Quello è pazzo!»
"Quello", l'allenatore, mi sente e non la manda giù. Percorre infuriato la distanza che ci separa per venirmi a parlare: «I genitori non devono interferire con le scelte del tecnico!»
«Non sono un genitore!» ribatto.
«Tanto meglio. Chiudi la bocca!»
Non so se mi irrita di più il tu colloquiale con cui mi ha trattato oppure l'esclusione di Alex. Sta di fatto che infilo le dite tra le maglie della rete e lo afferro per la tuta: «Sentimi bene...»
La signora di prima ci richiama all'ordine: «Per favore! Non davanti ai bambini!»
Vergognandomi come un ladro, lascio la presa. Ci saranno occasioni migliori per regolare la questione.
Arriva la terna arbitrale. La divisa ufficiale della federazione non riesce a nascondere il sovrappeso dell'arbitro che con solennità chiede alle squadre di accodarsi dietro di lui per l'entrata in campo. Alex morde il freno seduto in panchina.
Al calcio di inizio, Andrea grida: «Forza ragazzi! Siete i più bravi di tutti!» Non si capisce a chi l'abbia detto, se sia vero oppure no e di quali criteri si sia servito per il giudizio, ciononostante il tripudio del pubblico conferma l'esattezza della frase.
Fin dai primi scambi è evidente che gli avversari sono una vera squadra. Tengono le posizioni assegnate, avanzano e retrocedono all'unisono, scalano le marcature in difesa!
Mi sciolgo in un brodo di giuggiole di fronte a tanta preparazione: «Loro sì che hanno un signor allenatore!» La mia osservazione non arriva alle orecchie del destinatario. Peccato.
I nostri soffrono. Si arrabattano dietro alla palla come uno sciame di vespe, sprecando energie preziose inseguendola, mentre gli altri la distribuiscono sapientemente: sempre e soltanto due tocchi, lo stop e il passaggio, con tempismo da metronomo. Il figlio di Andrea è di corporatura esile mentre il difensore che l'ha preso in custodia è per lo meno il doppio di lui, ma con la stessa velocità. Avviene un contatto più duro del solito. La nostra prode ala destra vola per aria.
«Fallo!» pretendiamo in sincrono io e il padre. L'arbitro lo fischia, estraendo il cartellino giallo per il difensore.
«Esagerato! Un'ammonizione in una partita tra bambini.» se ne esce un tale seduto dietro di me.
Adottando la serietà che ho in tribunale nelle cause che seguo in veste di avvocato, lo illumino: «La disciplina si apprende a quest'età o non si impara più!» La signora con l'accento francese mi fissa sospettosa.
Non ho affermato di averla imparata personalmente, vecchia ciabatta! Le sorrido e lei ricambia.
La partita va avanti sullo zero a zero tra alti e bassi per una decina di minuti. Il rospetto con i capelli neri che ci aveva fatto ridere è diventato l'incubo della nostra difesa. La sua velocità, a malapena intuita nel riscaldamento, è tremendamente reale. Riesce a guadagnare cinque metri sui nostri difensori a ogni scatto. Una vera spina nel fianco.
Alex è rimasto seduto in panchina per un secondo, quindi ha preso ad agitarsi e a camminare sul bordo del campo, incitando o rimproverando i compagni. Ha gli occhi spiritati, immersi in una partita mentale che solo lui conosce. Il guardalinee lo ha richiamato un paio di volte, battendo la bandierina nel palmo della mano, spazientito. Mio nipote fa finta di niente e continua con gli incitamenti. E' un grande.
Il portiere avversario recupera una palla al limite dell'area ed effettua il rinvio con un calcio potente. Si disegna nell'aria una parabola a effetto, tanto strana quanto affascinante, che calamita lo sguardo degli spettatori. In discesa si capisce che è stato un lancio pericoloso, a scavalcare il centrocampo. Il rospetto parte fulmineo lasciandosi dietro metà della difesa. Abbiamo ancora un difensore tra lui e la porta.
Il nostro allenatore si danna l'anima per trasmettere il suo pensiero all'ultimo baluardo: «Vai sulla palla, Antonio! Sulla palla!»
E io a fargli da eco: «Sull'uomo, Antonio! Vai sull'uomo!» Che lo fermi di spalla, di piede, anche con una trattenuta di maglia come si deve, purché non se lo lasci scappare.
Antonio, che non è un fulmine di guerra in quanto a intelligenza tattica, rimane indeciso su quale consiglio seguire. Nel dubbio, avanza e il numero nove, sempre lui, ci delizia con una giocata d'alta scuola. Arresta la palla col petto, la fa scivolare sul corpo, la gira con la suola della scarpa saltando il difensore nel movimento e tira nell'angolino basso, dove un portiere di Serie A non ci arriverebbe in mille anni, figuriamoci il nostro puffo di venticinque chili... Palla in rete: uno a zero.
Il pubblico della tribuna si divide in due. Dalla nostra parte si alza un brusio dispiaciuto, l'altra metà sprizza gioia. I parenti dei calciatori avversari hanno gettato la maschera. Ci guardiamo in cagnesco per qualche secondo, finché la palla non ritorna a centrocampo in modo che il gioco possa riprendere.
«Porca vacca! Te l'avevo detto di andare sull'uomo!» rinfaccio ad Antonio. Il poverino cammina mogio tra i compagni, schiacciato dal peso dell'errore.
Il resto dei primi due tempi non lo ricordo in modo coerente. Lo passo tra i suggerimenti alla nostra linea di difesa e gli insulti all'arbitro che si è messo a fischiare a senso unico.
Lo affronto vedendomelo sfilare a un metro di distanza durante un contropiede avversario che tenta disperatamente di seguire: «Quanto le hanno offerto per farli vincere? La cena di stasera, per caso?»
L'arbitro la sa lunga sulle partite nei settori giovanili e mi risponde con un'accentuata dose di ironia: «No, lo faccio per amore del loro allenatore!» L'ilarità degli adulti distrae i bambini, facendo sfumare il contropiede. Pericolo scampato.
Si arriva all'ultimo intervallo. Sono zuppo di sudore; è la fatica del tifoso. Niente in confronto a ciò che ha passato Alex. Ha la faccia rossa come se avesse giocato e si stanno delineando sul suo volto le prime avvisaglie di una depressione da sconfitta. Se dovesse accadere, in famiglia si passerebbe una settimana tragica. Per iniziare, gli sparirebbe l'appetito in attesa di una rivincita. Non riuscirei a sopportarlo. Devo intervenire.
Lascio la tribuna e faccio il giro del campo così da prendere alle spalle la panchina della nostra squadra. La rete ci divide sempre, ma sono vicino a sufficienza per parlare con l'allenatore.
«Mister, mi stia a sentire un attimo!» lo richiamo insistentemente.
Lui mi vede e mi riconosce: «Che vuoi ancora?»
«Quando farà entrare mio nipote?» La domanda è legittima.
«Chi è tuo nipote?»
Il sangue mi va alla testa. Avrei la voglia matta di rispondere: Il migliore giocatore che hai in squadra, mentecatto pezzo d'asino. Invece, mi controllo: «Alessandro Lombardi.»
«Ah, lui.» Lo richiama accanto a sé, cingendolo col braccio. «Il nostro trascinatore è stanco per gli allenamenti della settimana, però entrerà nel terzo tempo.» Nelle partite tra bambini la divisione in tre tempi serve a diluire lo sforzo in maniera sopportabile dal fisico acerbo. Incidentalmente, il terzo tempo è anche la frazione in cui i migliori giocatori si ergono sugli altri e mostrano la propria bravura.
La notizia mi libera dal peso che mi opprimeva. Incoraggio mio nipote: «Su, Alex. Possiamo recuperare.»
Lui mi sostiene col suo buonumore: «Vinciamo di sicuro, zio!»
Me ne torno ringalluzzito alla tribuna, dove mi tocca scacciare a forza dal mio posto un vecchietto che pretende di essersi seduto prima di me. I giocatori si radunano per la ripresa del gioco. Li conto, li riconto e, sì, sono nel numero giusto, ma Alex non c'è ancora.
«Ma stramaledetta di una...» Mi mordo il labbro per non esagerare. «Quell'allenatore ce l'ha con me!»
«Perché?» mi chiede Andrea.
«Mi ha detto che avrebbe fatto entrare mio nipote, invece se lo tiene in panchina.»
«Ha parlato espressamente dell'inizio dell'ultimo tempo?»
Mi concentro e capisco l'inghippo. Non mi ha detto quando lo avrebbe fatto entrare nel corso del tempo.
«No, ma non può aspettare in eterno!»
Forse. I minuti passano inesorabili mostrando il solito gioco: loro attaccano, noi ci difendiamo.
Mi incupisco: «L'altra squadra non commette mai errori?»
Andrea mi caccia giù sul fondo della depressione: «Non ci scommetterei.»
Mai dire mai. Suo figlio si invola verso la porta sfruttando un errore banale di un difensore avversario su un rilancio facile. Un metro, due, tre di vantaggio. Non possono riprenderlo. Il nostro incoraggiamento lo spinge fin dentro l'area, carica il destro e io alzo le braccia in anticipo sul gol.
È fatta! , mi dico.
Il portiere malato di calcio è partito dalla linea di porta quando il figlio di Andrea ha varcato l'area. Se non lo stessi vedendo volare nella corsa con quella sua stazza poderosa, non lo avrei creduto possibile. Gli chiude lo specchio della porta gettandoglisi tra i piedi, testa e braccia sotto i tacchetti, per abbrancare in una morsa ferrea la palla. Si rialza tenendola nell'incavo del gomito, appoggiata al fianco. Pare di vedere un gladiatore con l'elmo sottobraccio mentre saluta la folla dell'anfiteatro dopo una vittoria.
«È mio figlio! È mio figlio!» gongola un uomo accettando di buon grado le pacche di congratulazioni degli altri genitori.
La partita si incanala inesorabilmente verso il risultato che era scritto. Mancano dieci minuti alla fine e quel fetente dell'allenatore non ha fatto entrare Alex.
«Quasi quasi, lo querelo.»
Andrea è perplesso: «Con chi ce l'hai, adesso?»
«Sapessi...» Il brutto sarà dover riaccompagnare a casa mio nipote. Fare mezzora di strada in silenzio assoluto non è un gran divertimento.
L'arbitro ferma il gioco. Nessuno capisce perché, poi il direttore di gara si avvicina a uno dei nostri attaccanti e gli allaccia uno scarpino. Sono giocatori di calcio, ma pur sempre bambini. Allacciarsi le stringhe può essere un compito arduo dopo aver dato l'anima in scatti ripetuti.
«È arrivato il turno di tuo nipote.»
Balzo in piedi esultante: «Vinceremo!» La solita signora mi ha preso per pazzo e non fa più caso alle mie intemperanze.
Non ho occhi che per Alex. Sta ascoltando gli ultimi consigli dell'allenatore, sapendo che non ne avrà bisogno: il campo è il suo mondo. L'arbitro autorizza la sostituzione e lui va a prendere il posto che gli spetta.
Il leone è entrato nell'arena.
Il suo primo intervento chiarisce a chiunque la qualità del gioco di cui è capace. Entra in scivolata su un disgraziato centrocampista che ha la fortuna di saltare in anticipo, evitando lo scontro diretto, altrimenti nessun parastinchi dell'universo gli avrebbe salvato la gamba. Recuperata la palla, Alex lancia l'attacco con un passaggio lungo.
«Visto che roba!» annuncio a tutti. Finalmente mi posso prendere la rivincita su chi mi aveva compatito nell'arco dell'incontro.
Gli avversari comprendono che il centrocampo ha cambiato padrone e arretrano, difendendosi. La nostra squadra preme alla ricerca del pareggio, esprimendo un buon calcio. Le occasione fioccano una dietro l'altra, ma si vanno a infrangere costantemente contro la resistenza del portiere avversario. La sua abilità è inaudita.
«Quel portiere è sprecato a questi livelli.» confesso ad Andrea. «Dovrebbero farlo passare di categoria. Abituandosi a giocare con ragazzi più grandi potrebbe avere buone possibilità di carriera.» Mi rode che la sua bravura costi la sconfitta ad Alex, tuttavia bisogna inchinarsi di fronte alla superiorità altrui.
È rimasto un solo minuto prima della conclusione del tempo regolamentare. Ci concedono generosamente un calcio d'angolo. Il pallone viene buttato in mezzo al mucchio in area sperando in un colpo di fortuna. Per poco non arriva, grazie a una deviazione inaspettata della palla.
«Dai che pareggiamo!» strilla Andrea.
«E' meglio non illudersi...» lo avverto. So già come andrà a finire. Il loro portiere striscia sul terreno e colpisce la sfera con i piedi, allontanando il pericolo.
Il pallone si impenna a campanile, scavalcando la mischia di centro area. Torna giù lento lento, rimbalza una volta, una seconda e allora vedo arrivare da dietro Alex, alla velocità di un treno.
Ha letto la situazione come se l'avesse conosciuta in anticipo. Lo separano dalla porta decine di giocatori, compreso un portiere strabiliante. Se ne infischia altamente, perché l'estremo difensore è a terra. Alex percepisce l'odore della preda ferita e da buon predatore individua lo spiraglio nella marea di gambe, sparando la palla nell'angolo opposto.
«Deve essere gol!» mi auguro.
Il portiere non accetta di capitolare. Effettua un balzo da pulce per parare il tiro. Ha le mani protese, ma è scoordinato.
Gesù, prego io, non ti chiedo mai niente, però stavolta non fargliela prendere!
Il salto è stato eccezionale, ormai il portiere è sulla traiettoria della palla. La devierà ancora. Ma il Dio del calcio, dall'alto della sua imparzialità, ha scelto un finale differente. Il pallone, beffardo, gli si stampa in piena faccia.
«Uh!» geme la folla, chiudendo gli occhi. Il colpo fa male soltanto a vederlo.
Il movimento della palla non si arresta. Gli striscia sulla guancia, batte sul palo interno e finisce in rete.
«Gol! Gol! Gol!» esulto come non feci neppure alla vittoria del mondiale da parte dell'Italia. Alex è schizzato a centrocampo coprendosi la testa con la maglietta rivoltata in ossequio alla moda in voga anche a livello internazionale. Viene sepolto dai compagni di squadra che gli saltano addosso per tributargli il giusto onore.
«Christian si è fatto male!» ci comunica una ragazza.
È vero. Il portiere è rimasto a terra con la faccia nella polvere. L'apprensione si diffonde tra il pubblico.
«Svelti! Avvisate il medico sociale!» Mi sbraccio per richiamarne l'attenzione.
Il dottore sopraggiunge di corsa con la sua borsa dei miracoli, intenzionato a dare un'occhiata al bambino. Christian ne respinge la mano, mettendosi a quattro zampe e infine in piedi. Ha dei lacrimoni enormi che scorrono su un livido di dimensioni gigantesche. Piange e guarda con odio il pallone in fondo al sacco. La ragione del suo pianto è una sola: si sente tradito da quella palla.
Alex sopraggiunge di gran carriera e la sua foga mi preoccupa.
Penso che voglia recuperare in fretta il pallone per tentare un disperato assalto finale: «Cavolo, sta a vedere che finisce a botte!»
In effetti, allontana tutti quanti dal suo trofeo, ma non va a centrocampo. Si avvicina al portiere. Il pubblico intende bene le sue parole quando Alex gli dice, genuinamente, appoggiandogli una mano sulla spalla: «Non piangere, la partita non è finita. Puoi ancora vincere.» Christian è sulla stessa lunghezza d'onda e si asciuga gli occhi con un guanto. La loro sfida ricomincia alla pari.
Le mie mani iniziano a battere da sole. Me le spello fino a quando ogni persona in tribuna non mi imita applaudendo. È un applauso sincero, per il portiere e per Alex, perché il calcio è lo sport più bello del mondo.


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