Una maschera, tragica forse, chi può dirlo. Nessuno di quanti l'incontravano sapeva andare oltre il sorriso, oltre l'atteggiamento scanzonato e aperto. Ma gli occhi? Chi osservava gli occhi? Sarebbe bastato uno sguardo più lungo per esserne risucchiati, per assaporarne la profondità nera, come un lago vulcanico, che affida alla tranquillità della superficie l'enigma del suo contorcersi lavico.
Dunque, gli occhi.
A chi avesse avuto la voglia, o meglio, l'istinto di osservare l'anima attraverso gli occhi sarebbe stato subito chiaro che l'anima spesso non era lì, dove uno s'aspettava di trovarla. E ci si sarebbe potuto domandare dove fosse e perché non abitava nel suo luogo stabilito. La risposta poteva darla solo lui, che sapeva, che aveva saputo quando l'aveva persa.
Un giorno s'era svegliato oppresso da una curiosa sensazione come di freddo. Non avrebbe mai aperto gli occhi, era consapevole che avrebbe visto cose che non voleva vedere, ma una forza più forte della sua volontà, che davvero in quel momento era fragile e duttile, lo costringeva.
Così aveva guardato e il cuore aveva fatto un balzo in petto. Vicino al suo letto stava un sé stesso più diafano, trasparente quasi, ma illuminato internamente da una luce calda, dorata, coraggiosa, che da troppo tempo non sentiva più dentro di sé. Si erano guardati a lungo, lui e l'altro sé stesso, poi lentamente, in un soffio leggero d'aria l'immagine speculare era svanita, trasformata in un Uccello splendente, colorato, bello, ma soprattutto libero. Un uccello muto, però, perché la sua libertà era limitata. Se ne stava ancora in parte rinchiusa nel corpo afflitto e disperatamente solo che se n'era rimasto abbandonato nel letto, stupito e spaurito per quanto aveva visto.
L'Uccello era volato via, chissà dove, mentre il suo corpo umano aveva chiuso nuovamente gli occhi ed era ripiombato in un sonno senza sogni, perché anche quelli erano volati lontano, nei colori dell'Uccello che era scappato via nell'aria appena schiarita dell'alba.
Triste era stato il risveglio, triste guardarsi allo specchio e non riconoscersi. Prima vedeva ciò che sarebbe voluto essere, ora gli si parava davanti solo ciò che realmente era e il cuore aveva avuto un sussulto, l'ultimo. Poi non avrebbe più pianto, perché tutta la sua intima forza era servita all'Uccello per volare via.
Solo nella testa rimbombavano come un'eco le speranze, le aspirazioni, le voglie, solo la testa era la stessa. Ma a cosa serve la testa da sola, se la passione ci ha abbandonati, se la rinuncia, la disillusione è la nostra matrigna?
La vita gli scorreva dalle vene lentamente, ma queste non pulsavano più, il cuore era un macigno e si stentava a credere che battesse. Nessuno aveva visto che non era più lo stesso di prima, nessuno lo guardava negli occhi. Forse molti occhi di molti altri avrebbero riconosciuto la medesima condizione. Meglio ignorarla, però, meglio fingere e vivere, piuttosto che ammettere la disfatta e lasciarsi morire dentro, prima di morire davvero. Passarono così molti, troppi giorni, poi, una sera, quando più forte è la solitudine, anche se si è circondati da tanta gente e dentro c'è freddo, anche se gli amici ci sono intorno, una sera un leggero picchiare al vetro della finestra attirò la sua attenzione. All'inizio non vi aveva dato peso, immerso com'era nella lettura di Shakespeare, perché cercava nelle parole scritte per sempre quelle passioni che non l'agitavano più e che gli avevano impoverito quel che restava dello spirito con la loro assenza. Ma il colpo leggero al vetro si era ripetuto con ostinazione, quasi come un ordine imperioso a farsi ascoltare. Incuriosito, non era mai successo, chiuse il libro, s'alzò quasi a fatica dalla poltrona e si avvicinò alla finestra: da non crederci!
Il suo sé meraviglioso, l'Uccello del Paradiso del suo cuore, la sua coloratissima vita era tornata. Aprì la finestra, come al ritorno del figliol prodigo e fece entrare la sua anima. Per un breve attimo l'Uccello sembrò incerto, poi volò dentro con sicurezza e, rifacendo all'inverso la magia della prima volta, tornò uomo, lucente e trasparente. Come l'acqua entra in una caraffa di vetro e la riempie, assumendone la forma, così l'uomo trasparente si reincarnò e tornò a formare un unico essere. Il cuore fece un tuffo nel petto ed egli si sentì forte e giovane come non si era sentito mai; riconosceva la vita, la sua vita che tornava a riempirlo e a renderlo forte e appassionato. Insieme provò anche sofferenza, un dolore atroce: la consapevolezza che quello che aveva rischiato di perdere lo assaliva alla gola, chiudendogliela in uno spasmo. Si riscosse, tutto era passato, non doveva pensarci più.
Quella notte era sua e ne avrebbe assaporato ogni attimo, senza sonno, senza stanchezza. Vivo! L'ubriacatura per la ritrovata unione di sé era più inebriante di quella data dal vino e in breve la stanza intorno a lui si mise a girare con la stessa allegra vorticosità di una giostra di bambini. Sperimentò la curiosa sensazione di potersi espandere fino ai recessi più lontani, inglobando in sé terra e cielo, acqua e fuoco. E allo stesso tempo si sentiva ricolmo di pensieri e sentimenti non suoi, ma appartenenti agli uomini, tutti, sotto ogni cielo e in ogni tempo.
Ci fu un momento in cui credette che non avrebbe retto l'urto, che la sua pelle si sarebbe rotta per l'eccessiva tensione passionale che lo permeava, ma non fu così. Lentamente i sensi si acquietarono, la stanza smise di roteare, le musiche assodanti ed i colori fantasmagorici assunsero forme più comuni e giacque, esausto, a terra. Era felice, aveva riacquistato la sua pienezza ed era appagato. La luce rosata dell'aurora lo colse all'improvviso, quando una fitta violenta lo trafisse, riportandolo alla realtà. Riemerse dallo stato di beato torpore in cui era caduto giusto in tempo per vedere con angoscia una volta ancora lo strappo insanabile tra la sua mente ed il suo cuore. L'Uccello variopinto era nuovamente vicino a lui e già s'apprestava a spiccare il volo. Non pensò neppure per un attimo di trattenerlo, che almeno quello, finché poteva, fosse libero. Spalancò la finestra e attese di vederlo svanire in lontananza, dopo che, leggero, si era lanciato nella luce. Altri giorni si susseguirono, vuoti ed inutili, almeno qualcuno avesse guardato dentro i suoi occhi, almeno una voce gli avesse chiesto il perché di un così forte silenzio dell'anima. Se solo una persona si fosse persa in quel vuoto scuro e desolato la solitudine avrebbe ridefinito forse un confine accettabile e non sarebbe più stata del tutto disperata. Ma l'indifferenza regna sovrana là dove non c'è nemmeno il tempo per leggere i propri pensieri, figuriamoci se si ascoltano gli altrui. I libri, così pericolosi per l'equilibrio, perché tanto vicini a raccontare ad alta voce la verità, non li leggeva più. Temeva addirittura che il solo sfiorarli l'avrebbe nuovamente precipitato in un mare ribollente di passioni, in cui era tropo bello, ma davvero troppo struggente, affogare.
Per qualche mese riuscì a mantenere questo comportamento rigido, che altri apprezzavano, che altri auspicavano e che finalmente leggevano in lui, ma che lo rendeva ogni attimo che passava più vecchio e più stanco, di una stanchezza senza fine. Poi, una sera, per strada, da una finestra aperta il suono insinuante di un violino scese fino a lui, l'avvolse, ne saturò ogni vuoto e ancora una volta accanto gli apparve il suo colorato Uccello della coscienza. Ancora una volta l'ebbrezza dell'unione e del Tutto assoluto lo travolsero e lo ridussero, barcollante e felice in un portone, dove celare quell'attimo di pura estasi ai passanti curiosi. Quelle poche note erano state sufficienti perché la via fosse nuovamente abbandonata e si aprisse sotto i suoi piedi il baratro vorticoso e travolgente della passione. Una volta solo, ancora una volta solo, corse a casa, si chiuse dentro, si negò agli amici, agli altri, non volle che niente lo distogliesse dalla riflessione che gli urgeva dentro.
Vanamente squillò il telefono, più e più volte, troppe forse, bussarono alla sua porta: non rispondeva a nessuno. Qualcuno pensò che forse si stava lasciando morire e solo allora si ricordarono della profondità del silenzio dei suoi occhi, anche quando rideva. Qualcuno sperò che fosse fuggito lontano, per dimenticare tutto, per ricominciare di nuovo. Poi, pian piano smisero di cercarlo e iniziarono a pensare che cose così capitano a chi meno te lo aspetti. Scordavano di aggiungere che succede sempre quando si costringe ad adeguarsi al sentire comune e ad essere diversi da ciò che siamo. Allora il cuore scoppia e scende il buio.
Finalmente solo, ma che forse non lo era sempre stato, poté immergersi nelle parole di Sofocle, perdersi in quelle di Cecov e ritrovarsi con Dante fuori dalla selva oscura, mentre la musica saturava la stanza e vorticava intorno con la stessa furia di un tornado. Come sperava alla sua finestra picchiò l'altro suo sé e l'Uccello del Paradiso tornò ancora una volta. Ma ora era pronto e non si sarebbe fatto giocare, era deciso alla riscossa. Avvenne la trasformazione, ma ora l'uomo era indissolubilmente uno, unico, indivisibile, non avrebbe più sopportato per nessun motivo, per nessuna giustificazione, per gli altri, di non essere ciò che sentiva di essere, ciò che sapeva di dover essere. Non importava cosa avrebbero detto di lui, ora sapeva che non avrebbe mai più perso sé stesso e la vita.
E l'Uccello volò via, cantando nella notte, ora sì, finalmente libero.


Data invio: