La biblioteca "Lupo della steppa" presenta:
Oggi è di nuovo lunedì di Maria Rosaria Valentini

 

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© Stefano Spinelli

Quante volte si è già sentito di gente che muore nel proprio appartamento, tra le mura di un affollato condominio, senza che nessuno se ne accorga?
Il morto resta su una poltrona insieme a certe pastiglie che non ha avuto il tempo d’ingoiare, sta per giorni seduto sulle sue ossa oppure è steso a terra con i piedi che fissano la vasca da bagno, mentre la faccia si è persa su un tappetino di ciniglia rosa; oppure poggia la testa in un piatto di conchiglie in brodo o, se ha fortuna, il morto resta nel letto, avvolto in un plaid acrilico, con gli occhiali sul naso e il giornale sul petto. Se ha un cane, allora l’animale diventa un’appendice muta del suo corpo. A lanciare l’allarme, diversi giorni dopo il decesso, è il volume della televisione. Certo, perché una televisione accesa nelle sue stanze c’è sempre: è parte del copione, è come un marchio, un sigillo, una proprietà transitiva. E chi la sopporta così ad alto volume, per giorni e notti, sintonizzata sempre sullo stesso canale?
La polizia posteggia nel cortile del palazzo: solo un controllo, per porre fine ai rumori molesti. I movimenti degli agenti hanno sapore di routine.
Quando poi il campanello della porta se ne infischia della loro sollecitudine, avanza un qualche primo vago sospetto; quando la porta cede è già tardi.
Cose che capitano.
Ma se le cose capitano proprio a te i profili, le prospettive e le dimensioni dei fatti si fanno voragini.

Avevo incontrato Vincent per caso; ci eravamo seduti sulla stessa panchina di un parco modesto nelle dimensioni e armonioso nelle forme, posto accanto a un sabbificio abbandonato, silente e immoto come un fantasma stanco. Ci andavo presto, di mattina, tutti i lunedì per cominciare bene la settimana; mi piaceva sentire il rumore dei miei passi che calpestavano la ghiaia del viale principale. Quel rumore confermava la mia presenza, scuoteva le mie fragilità, mescolava le mie malinconie e mi svegliava dai torpori delle abitudini.
Vincent ci andava per respirare meglio, in mezzo agli alberi, davanti a una fontanella che cantava un suo tempo. Fui io a rompere il ghiaccio, a proporre considerazioni ridicole sull’itinerario delle nuvole, sull’avanzare dei venti, sul mutare delle gioventù, sull’estinguersi delle stagioni.
Lui fece finta di abboccare; finse, per educazione, di trovare interessanti quelle mie banalità.
Io attacco bottone con tutti perché mi piacciono le voci che non conosco.
Per Vincent le voci degli altri erano gabbie dov’è meglio non entrare.
Eppure, lunedì dopo lunedì, noi due inventammo un codice nostro. Parlavamo a frammenti di biglie di vetro, camere d’aria, code di gatto, trote lucenti, nespoli in fiore, costellazioni, grani di pepe.
E diventammo amici: un’amicizia strampalata.
Vincent era un mezzo mistero, un uomo venuto dall’Est, un uomo solo, un uomo senza ieri ed io mi accontentai del suo presente.
Vincent aveva un debole per i gusci delle noci, le cortecce di betulla, la rena del fiume e le arance mature.
Certe volte veniva a pranzo a casa mia: mangiava in silenzio, mentre i suoi occhi cerulei dicevano cose che non so raccontare. I suoi abiti distinti parlavano di epoche e luoghi distanti da qui.

Lo trovarono disteso su un fianco, ai piedi di un’ampia finestra.
In cucina, su un foglio di carta baciato dai giri d’infiniti scarabocchi, c’era scritto il mio nome.
Quando arrivai Vincent era già all’obitorio.
L’odore della morte non è solo quello della carne che si disfa ma è anche l’odore della vita che resta, vigorosa e potente, negli oggetti, nei segni, nelle orme di ciò che è stato fatto.
Scoprii allora che Vincent viveva in un rigoroso deposito di stupori. Ogni scatola che mi toccò aprire portò alla luce il lavoro paziente - selezioni e raccolte - di un vecchio capace d’inchinarsi dinanzi a un nulla. Trovai scorze di limone essiccate e delicatamente ammonticchiate le une sulle altre, trovai riccioli di segatura custoditi in barattoli di vetro, noccioli di ciliegia, semi di mandarino, bucce di mela e innumerevoli recipienti colmi di sassolini: da quelli piccoli ed esili come granelli di zucchero a quelli grandi come chicchi di grandine nel mese d’agosto.
Non ho buttato niente. È tutto sugli scaffali della mia biblioteca.
Ogni mattina, prima d’infilarmi nell’ordinario del quotidiano, guardo la collezione di Vincent e mi sento in debito nei suoi confronti: il suo patrimonio d’inestimabile candore è nelle mie mani. Spero, un giorno, di saperne parlare ai miei figli.
Oggi è di nuovo lunedì e vado al parco.
I miei pensieri sono sabbia che scivola nel ventre liscio di una clessidra.

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© Stefano Spinelli

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