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8. Labirinti di lettura
Come se ne esce senza rompersi le ossa?

Alcuni anni fa, sull'onda dell'euforia per la caduta dei regimi dell'Est europeo e delle previste magnifiche sorti della globalizzazione, c'è stato persino chi ha scritto libri di successo intitolati La fine della storia, prevedendo l'avvento di un'epoca in cui avrebbe prevalso un unico ordine mondiale e le guerre sarebbero diventate scaramucce locali facilmente riassorbite. A distanza di poco tempo, dopo grandi mobilitazioni di massa contro gli effetti perversi di una globalizzazione gestita principalmente nell'interesse di ristrette oligarchie, di fronte all'emergere di nuovi e giganteschi protagonisti sulla scena internazionale – come la Cina e l'India – e mentre è esploso il fenomeno di un terrorismo che ha veicolato attraverso ideologie religiose e anche razziali risentimenti e proteste assai diffusi, la cui radice è nella squilibrata ripartizione del potere economico tra i popoli - l'interrogativo su dove sta andando il XXI secolo si fa più urgente e drammatico.
L'analisi e la riflessione sui fenomeni che hanno generato e guidato questi giganteschi cambiamenti, come appunto la globalizzazione, appaiono prioritarie per cercare non solo di immaginare il processo futuro della storia, ma anche per non ripetere e correggere gli errori compiuti.

Primo percorso

Globalizzazione Sicario

"Sono state le politiche del Fondo monetario internazionale (FMI) a minacciare davvero il mercato e la stabilità a lungo termine dell'economia e della società". Chi scrive questa parole non è un militante no-global ma l'americano Joseph E. Stiglitz, premio Nobel dell'economia per il 2001, già membro del Consiglio dei consulenti economici del Presidente degli USA Bill Clinton e poi capo economista e vice presidente della Banca mondiale. [La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002, pp. 274] Un protagonista della politica economica mondiale, insomma, che non solo possiede gli strumenti interpretativi per spiegare le dinamiche e gli effetti delle scelte compiute nell'ambito del processo di globalizzazione, ma che ha avuto posizioni operative per tentare di regolarlo. Questo è un libro con il quale tutti - o almeno, chi si interessa di politica, di economia, di problemi sociali e di come va il mondo - dovrebbero fare i conti.
I tanti commentatori che nel decennio scorso hanno difeso a spada tratta le decisioni di una politica neoliberista, accusando chi non era d'accordo di non capire il mercato o di essergli contro – di non essere, insomma, abbastanza moderni o di essere addirittura conservatori – dovrebbero sentirsi persino obbligati a leggerlo. Immagino, però, che non ci sia speranza che almeno arrossiscano: l'ideologia (e l'interesse) hanno davvero una faccia di bronzo. In effetti, in un primo momento, il tentativo delle élites politico-finanziarie è stato quello di passare sotto silenzio il libro, ma di fronte al suo grande successo editoriale, all'autorevolezza scientifica e all'esperienza conquistata sul campo dall'autore, i soggetti da lui chiamati direttamente in causa sono stati costretti a giustificarsi o a contrattaccare.
Sta di fatto che il Fondo Monetario Internazionale (FMI), accusato degli evidenti insuccessi delle sue ricette e delle vere e proprie rivolte sociali scatenatesi nel mondo (spesso ammantate e canalizzate da motivi religiosi o razziali), ha dovuto introdurre nelle sue politiche ufficiali una maggiore considerazione del fattore sociale e umano. Almeno a parole e in modo molto collaterale, perché il cuore della sua politica economica è rimasto lo stesso. In buona sostanza, le ribellioni e le divisioni a cui stiamo assistendo nel mondo sono anche il risultato delle politiche seguite dall'FMI. Anzi, dal cosiddetto Washington Consensus, ossia dall'accordo sostanziale, dal coordinamento delle politiche e degli interventi concordati tra il Tesoro degli Stati Unititi, l'FMI e, almeno in parte, la Banca mondiale. Sullo sfondo (ma poi mica tanto) c'è WallStreet.
Sono state le politiche economiche imposte da quelle istituzioni a mettere a repentaglio la democrazia, la stabilità internazionale e la possibilità di uno sviluppo più equo del mondo, scempiando qualsiasi principio di giustizia. Insomma – precisa l'autore – "la reazione violenta contro la globalizzazione ha tratto la propria forza non soltanto dal danno visibile arrecato ai paesi in via di sviluppo dalle politiche guidate dall'ideologia [neoliberista], ma anche dalle iniquità del commercio internazionale." Imporre la liberalizzazione del commercio per i prodotti industriali e proteggere la propria agricoltura con le sovvenzioni pubbliche da parte dell'Occidente, infatti, ha avuto l'effetto di distruggere la fragile industrializzazione di quei paesi e di rendere non competitivi i loro prodotti agricoli.
Il succo delle politiche dei paesi avanzati è riassumibile nel seguente concetto: stabilità interna vs. stabilità del resto del mondo, proteggendo nello stesso tempo l'avidità (e l'irresponsabilità) del capitale finanziario e speculativo. Questa è la conclusione a cui approdano gli abbondanti esempi e le circostanziate ricostruzioni proposti da Stiglitz. Mentre la teoria e la verifica sul campo ci dicono che "non esiste un unico modello di mercato", quelli che l'autore definisce i fondamentalisti del mercato hanno prevalso e hanno fatto di tutto (ma veramente di tutto) per far entrare i fatti, le misure imposte e le circostanze nel loro modello unico e astratto. Errore intellettuale di chi ha teorizzato e diretto gli interventi che sono stati all'origine di tanti disastri economici e umani.? Non credo proprio e nemmeno Stiglitz, alla fine, lo pensa. Costoro hanno certamente un nome e un cognome, ma – aggiunge - se non ci fossero state quelle persone (ossia i responsabili delle varie istituzioni pubbliche) "ce ne sarebbero state altre a seguire perlopiù le stesse politiche: ci sono delle forze di fondo in azione, ed è di queste che parla il libro." Questa è la risposta sensata che lo stesso Stiglitz si dà alla domanda sul come mai "gli esperti dell'FMI avevano commesso quel genere di errore contro il quale mettiamo in guardia gli studenti del primo anno di economia."
Quelle forze sono in sostanza riferibili al Washington Consensus, nel quale ha giocato un ruolo molto attivo il Tesoro degli Stati Uniti d'America, che è l'unico paese ad avere il diritto di veto nell'ambito del FMI. Sullo sfondo, come ha sottolineato di recente un economista italiano, Michele Salvati, certamente non sospetto di essere contro il mercato, c'è qualche migliaio di persone che si conoscono e si frequentano quasi tutte e che agiscono con azioni di comparaggio, le quali non hanno molto a che fare con il mercato astratto, autoregolato e perfetto che viene descritto e predicato dai neoliberisti. Ma attenzione a non cadere nella spirale delle teorie della cospirazione, che affascinano tanto chi si accontenta del fumo e non riesce a vedere il fuoco. "L'FMI – chiarisce Stiglitz – non partecipava ad alcuna cospirazione, benché rifletteva gli interessi e l'ideologia della comunità finanziaria occidentale." Aveva semplicemente, sotto la pressione di chi comandava davvero, cambiato la missione degli accordi internazionali sanciti nel 1945 per la sua creazione: da istituzione incaricata di "fornire ai paesi afflitti da una contrazione economica fondi per consentire la ripresa e aiutarli nel tentativo di avvicinarsi alla piena occupazione", si era silenziosamente trasformata in garante dei creditori occidentali e in presidio del capitale speculativo.
Il libro è dunque la storia del processo di globalizzazione, quale si è realmente espresso, diretto e distorto da interessi particolari, e da una doppiezza prevalsa nei paesi più ricchi, che attaccano volentieri quelli più poveri quando questi ultimi tentano di adottare alcune delle stesse ricette di politica economica che i governi occidentali applicano nell'ambito domestico. Oppure impongono ai paesi poveri misure che non tengono conto della loro fragilità economica e sociale. Insomma, "l'America è sempre prodiga di consigli su come i paesi in via di sviluppo debbono affrontare le sofferenze, ma poi è restia a farlo in prima persona." Questo atteggiamento – che potremmo definire del doppio standard (doppia morale, doppia politica economica, e così via) riguarda però tutto l'Occidente postindustriale. In questo senso, l'istituzione presa di mira da Stiglitz è soprattutto l'FMI che è stato il braccio secolare di una liberalizzazione selvaggia e incontrollata, come testimoniano i fatti e i misfatti riferiti dall'autore. L'invocazione continua alla trasparenza nei paesi terzi da parte del Tesoro americano e dell'FMI, ad esempio, è qualcosa di raccapricciante, visto che mentre l'auspicano e l'impongono agli altri sono, a giudizio dell'autore, le istituzioni pubbliche meno trasparenti esistenti.
Stiglitz non è certo contro la globalizzazione in sé. E nemmeno io, per quel che può importare. Preferisco l'aria fresca della circolazione delle idee, dei diritti e delle opportunità, della ricchezza, della comunicazione e della condivisione di un ordine del mondo il cui assetto politico è diventato troppo ristretto e pericoloso di fronte ai grandi problemi del XXI secolo. Del resto, il giudizio di Stiglitz mi pare equanime e perciò condivisibile: "Chi denigra la globalizzazione troppo spesso ne sottovaluta i vantaggi, ma i suoi fautori sono stati, se possibile, ancora meno imparziali."
Ma cos'è questo fondamentalismo di mercato di cui l'autore accusa a più riprese le politiche neoliberiste? I mercati – scrive - non sono di per sé efficienti, e l'idea che funzionino perfettamente è del tutto stravagante. Per esempio, secondo questa idea fissa "la domanda deve equivalere all'offerta di mano d'opera, come qualsiasi altra merce o fattore, [per cui] non può esistere disoccupazione, il problema non può essere attribuito ai mercati. Deve per forza risiedere altrove – nell'avidità dei sindacati e dei politici che interferiscono con il naturale funzionamento dei mercati, chiedendo, e ottenendo, salari eccessivi. L'implicazione politica dell'assunto è evidente: se c'è disoccupazione, bisogna ridurre i salari." Naturalmente tralasciando del tutto il fatto che "ogni qualvolta l'informazione è imperfetta, vale a dire sempre [...], la famosa mano invisibile [del mercato] opera in maniera imperfetta", e che è dai tempi della Grande depressione del 1929 che gli economisti non credono più che i posti di lavoro distrutti siano contemporaneamente sostituiti da quelli nuovi. Per cui – commenta l'autore - "l'FMI ha lottato per quella che viene definita flessibilità del mercato del lavoro che, detta così, sembra un'espressione che indica un migliore funzionamento del mercato del lavoro, ma in parole povere significa stipendi più bassi e minori tutele per i lavoratori."
Se poi aumentano di gran lunga i poveri, mentre crescono i ricchi il fondamentalismo di mercato adotta la strana teoria del trickle down (anche nella sua più recente versione), quella secondo cui, goccia a goccia, i vantaggi della crescita prima o poi arriveranno anche ai poveri. Questa idea di un percolamento automatico, per virtù gravitazionale, delle risorse dai ricchi a poveri, oltre a non avere nessun riscontro empirico, a me ricorda tanto l'economia preindustriale che, all'epoca, era accompagnata da forme di servitù di cui abbiamo parlato nelle recensioni. Nel frattempo, indovinate cosa può succedere nella gran parte dei paesi del mondo privi di qualsiasi minima protezione sociale e sottoposti a quello che l'FMI chiama eufemisticamente structural adjustment oppure austerity programs? È successo, anche secondo testimonianze raccolte dall'OIL (l'Ufficio internazionale del lavoro dell'ONU), che i dipendenti pubblici che gestivano le poche infrastrutture esistenti erano improvvisamente senza stipendio, mentre quelli privati erano licenziati; che i già scarsi servizi sanitari chiudevano; che i trasporti pubblici non funzionavano più; che i bambini non andavano più a scuola e che erano spesso costretti a lavorare per aiutare la famiglia; che le medicine non si potevano più comprare e che fioriva così il mercato di quelle fasulle; che la solidità delle famiglie veniva distrutta. Sarà un caso che l'Africa, in particolare, mai rimessasi da questo structural adjustment inflittogli da fuori, ha cominciato a soffrire in pieno la piaga dell'HIV?
Questo insieme di teorie economiche adottate dall'FMI ha giustificato le terapie d'urto per la liberalizzazione accelerata dei mercati e per proporre interventi monetari nei casi delle cicliche recessioni. Con il risultato che tutti i paesi in cui l'FMI è riuscito ad esportare le proprie ricette hanno subito effetti economici e sociali tremendi. I casi esposti da Stiglitz (l'Africa, l'Est asiatico, i paesi dell'Europa orientale e l'America latina), con la descrizione delle dettagliate manovre economiche imposte dall'FMI e dei loro risultati (sempre peggiorativi della situazione economica a breve e lungo termine), mettono in evidenza la vera natura delle politiche perseguite dal Washington Consensus. Quel che ha costantemente protetto l'FMI sono stati i capitali a breve investiti in quei paesi a scapito dell'economia interna, favorendo gli speculatori nazionali, oltre a quelli internazionali. Il caso della rapida e incontrollata liberalizzazione dei capitali imposta alla Russia - contro il parere di quelli che chiedevano una politica gradualistica - è proprio da manuale; e le lacrime di coccodrillo di tanti commentatori e politici occidentali sui rischi e le distorsioni politiche ed economiche esistenti oggi in quel paese fanno davvero indignare. Tanto più che dall'alto giunsero a suo tempo "ordini di non studiare strategie alternative più promettenti." Perciò, l'autore osserva, molto sobriamente, che "coloro che sono responsabili degli errori del passato non hanno molti consigli da dare alla Russia per il futuro." Polonia e Ungheria, che sono riuscite a non applicare le ricette dell'FMI sono oggi in una situazione di gran lunga migliore.
Lo stesso approccio è stato seguito dall'FMI, con poche varianti, anche per l'Asia e per gli sciagurati interventi africani e sudamericani. Come controprova delle sue tesi Stiglitz illustra i casi di quei pochi paesi del Sud est asiatico, della Cina e della Corea del sud che, avendo un fortissimo risparmio interno e non dipendendo quindi dai prestiti dell'FMI e della Banca mondiale, concessi a condizioni suicide, sono usciti molto più rapidamente dalle recessioni oppure non ne sono stati affatto toccati, adottando politiche economiche e monetarie diverse dal credo ufficiale. Anche se le cause del loro sviluppo – come vedremo più avanti nel caso della Cina – suscitano preoccupazioni per altri versanti.
Qual è la conclusione provata? Che l'idea di un mercato che si autoregola e che perciò non ha bisogno di interventi è un mito; che quando le autorità intervengono adottando la sola logica di mercato (come nel caso dell'FMI, influenzato da WallStreet) il disastro economico è certo e che esso viene pagato dai più poveri e dai più deboli; che l'idea neoliberista del mercato perfetto e del non intervento delle autorità statali, quando si tratta dei crediti e degli investimenti finanziari - chissà perché – improvvisamente viene messa da parte, visto che gli interessati sono prontissimi ad esigere e ottenere massicci interventi delle istituzioni pubbliche, come l'FMI e la Banca mondiale, a sostegno dei tassi di cambio (cioè dei loro investimenti a breve termine).
Quel che mi chiedo è: dove sono andate a finire le persone dirette responsabili della miseria di milioni di persone, gettate sul lastrico a causa di decisioni sbagliate, applicate con pervicace arroganza? Quelle che, per usare il giudizio di Stiglitz, hanno contribuito in modo determinante ai disastri applicando le "improvvide politiche economiche del FMI [che] cospirarono con l'ideologia [neoliberista] e gli interessi particolari nel rallentare le ristrutturazioni" industriali e finanziarie per uscire dalle crisi?
Sospetto che non solo nessuno di questi signori attraversi difficoltà economiche ma che sieda in ricchi consigli di amministrazione o occupi posti di responsabilità. Continuano, insomma, a fare come se nulla fosse. È il caso di Stanley Fischer, ad esempio, già vice presidente della Banca mondiale che impose politiche di austerità in fase di recessione, peggiorando ovunque la situazione e che è ora presidente (lui, cittadino americano) della Banca d'Israele. Oppure c'è il caso del francese Michel Camdessus, direttore generale dell'FMI fino al 2000, il quale - secondo un profilo biografico autorizzato - "è cresciuto con l'insegnamento dei principi sociali e cristiani" e che continua a tacciare di fantasia le analisi e le critiche di Stiglitz. Ora dirige le Settimane sociali in Francia.
Altre persone, dopo l'11 settembre sono andate in crisi e si sono pentite, rivelando alcuni orribili retroscena. John Perkins – che associa anche lui Stanley Fischer alle disastrose politiche economiche seguite dal FMI - in un recente libro [Confessioni di un sicario dell'economia, Roma, Minimum Fax, 2005, pp. 309], descrive una vasta categoria di operatori finanziari internazionali come "professionisti ben retribuiti che sottraggono migliaia di miliardi di dollari a diversi paesi in tutto il mondo." I loro metodi comprendono un arsenale di quanto di più sbrigativo e immorale si possa pensare, ma rappresentano soltanto l'avamposto di ulteriori azioni da mettere in atto nel caso in cui la loro missione fallisca. L'autore – il cui libro, secondo la grande stampa americana (compreso il WallStreet Journal) è stato tra i diciannove maggiori bestsellers dell'anno - non parla per sentito dire, ma per esperienza diretta, essendo stato lui stesso un sicario dell'economia. Il suo lavoro, svolto presso una società di consulenza internazionale di Boston come economista capo, consisteva "nel convincere paesi strategicamente importanti per gli Stati Uniti – Iraq, Indonesia, Panama, Arabia Saudita, Iran – ad attuare politiche favorevoli agli interessi del governo e delle corporations americane." All'inizio della sua carriera Perkins era stato reclutato dall'Agenzia per la sicurezza nazionale americana e, in seguito, secondo le sue dichiarazioni, aveva ricevuto mezzo milione di dollari per non scrivere il libro. Sarebbe stato infatti difficile contenere le impressioni suscitate da una testimonianza in cui si descrive come questi sicari vengano inviati in un paese del terzo mondo perché chieda e ottenga prestiti, a condizioni pesanti, dall'FMI e dalla Banca mondiale, senza curarsi delle conseguenze e sulla base di rapporti economici fasulli. I loro metodi comprendono il falso in bilancio, elezioni truccate, tangenti ai governanti, estorsioni, sesso e omicidi. E nel caso in cui tutte queste misure falliscano, allora entrerà in funzione un'altra linea di intervento: quella che organizza i colpi di stato.
Una delle prime conclusioni che si possono trarre dalle vicende narrate è che di fronte all'aggravarsi dei conflitti internazionali, prodotti direttamente dalle misure economico messe in atto dal Washington Consensus, diversi ambienti occidentali non hanno trovato di meglio che velare le loro responsabilità sotto la teoria dello scontro di civiltà. Così il fondamentalismo religioso viaggia in compagnia di quello di mercato e tutti e due, nei rapporti internazionali come nelle politiche interne, danno dei colpi micidiali ad una nozione di democrazia nutrita dei principi di giustizia, di equità e di tolleranza.

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