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8. Come se ne esce senza rompersi le ossa?

Secondo percorso

Cina Giustizia

La globalizzazione, tuttavia, non è soltanto una storia condizionata e distorta dalle politiche del Washington Consensus. Cosa accade infatti in alcuni di quei paesi asiatici che, per dimensioni e assetti politici, hanno potuto resistere all'imposizione di ricette neoliberiste, come l'India e la Cina? Ne parla Federico Rampini [L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, Milano, Mondadori, 2006, pp. 371] in un libro che è un mondo, non solo perché descrive paesi così grandi da essere quasi degli universi a se stanti, ma perché è capace di restituire tutta la complessità sociale ed economica dei tumultuosi cambiamenti là in corso. Al taglio giornalistico, essenziale e preciso, l'autore unisce la conoscenza diretta di quei paesi e gli approfondimenti storici e sociali necessari per comprenderne lo spessore. I due paesi formano in un certo senso un sistema complementare (da qui il neologismo di Cindia) che per la sua vitalità e per gli incredibili e costanti tassi di sviluppo (tra l'8 e il 9 per cento nell'ultimo decennio) attira enormi flussi di capitali. Eppure, i due paesi non potrebbero essere più diversi, per storia e costumi, per tradizioni e assetti sociali. L'India è tuttora, in termini numerici, la più grande democrazia esistente. La Cina, di cui è difficile definire il regime politico, è sicuramente il più grande paese gestito in modo autoritario e sostanzialmente antidemocratico. Le uniche cose che hanno in comune sono una certa espansione storica, ma non maggioritaria, del buddismo, e il fatto di essere usciti da storie coloniali, seppure in modo assai diverso, unitamente ai grandi scompensi sociali dovuti alla compresenza di un'estrema povertà e di ceti ricchissimi, di grandi masse di laureati e di un gran numero di analfabeti o semianalfabeti.
Il fatto però che gli investimenti stranieri in India siano un decimo di quelli affluiti in Cina, nonostante la prima sia una democrazia e la seconda sia un paese praticamente totalitario, la dice anche lunga sull'etica politica del capitalismo. Ma forse una tale preferenza deriva anche dal fatto che l'India si è rifiutata di procedere ad una industrializzazione forsennata come la Cina, calcolandone gli immensi costi sociali e adottando misure più protezionistiche. Ma, al di là delle diverse specializzazioni produttive (servizi avanzati in India, industria avanzata e tradizionale in Cina), non si fa qui tanto questione di costo del lavoro e di produttività, quanto del fatto che, specialmente quest'ultima, sia basata in Cina su un'organizzazione del lavoro dispotica, priva della benché minima protezione sindacale e di un'adeguata tutela quanto a sicurezza.
Questa della condizione lavorativa e sociale reale in Cina è la parte più impressionante delle descrizioni di fabbriche private che lavorano per i mercati occidentali, in cui ragazzi e adulti sono assoggettati ad orari e ritmi di lavoro da Inghilterra dell'Ottocento, con paghe non sempre certe, dormendo, lavorando e mangiando nell'ambito della fabbrica, soggetti ad avvelenamenti e a malformazioni fisiche permanenti, senza alcuna possibilità di protestare. E quando ciò avviene la repressione è durissima, sia a livello personale che di interi villaggi, oltre tutto investiti dagli espropri delle terre e dalle malversazioni di funzionari del partito. Incredibilmente, il più recente documento governativo cinese riguardante gli incidenti sul lavoro, presentato alla Conferenza OIL del maggio scorso in Thailandia parla, per il 2003, di poco più di un milione di casi, cioè tanti quanti se ne verificano in Italia! Certo, il fenomeo dei bambini che lavorano è comune anche all'India, ma là è il frutto delle condizioni sociali cui cerca di opporsi una legislazione più favorevole ai lavoratori di quella cinese, assieme alla presenza di sindacati autonomi dal potere politico. Notissima, e citata a più riprese nel libro, la vicenda di multinazionali occidentali che fingono di non conoscere le condizioni disumane in cui si producono le merci con il loro marchio ufficiale. Senza con ciò dimenticare i numerosi casi di lavoro minorile italiano.
Nello stesso tempo, colpisce anche la descrizione di isole produttive (in particolare, di filiali di aziende straniere) in cui gli standard lavorativi appaiono migliori. Tuttavia in queste, come nelle altre aziende, se un lavoratore ha un problema come unico referente "sindacale" ha il proprio caporeparto e come istanza "sindacale" superiore il direttore dello stabilimento! Condizioni di lavoro pesantissime in India, dunque, ma ancora di più in Cina, cui fanno riscontro territori scientificamente e tecnologicamente avanzatissimi, in grado di competere e di superare le corrispondenti aree forti esistenti in Occidente, come la Silicon Valley americana. Un ingegnere indiano viene pagato molto meno di uno occidentale, non ha orari di lavoro e nelle discipline matematiche è probabilmente più bravo. Ma dell'enorme entroterra agricolo cinese, da cui provengono i milioni di braccia impiegabili a poco prezzo e senza protezione alcuna, le condizioni di disgregazione economica e sociale, con la caduta delle protezioni sanitarie e dei servizi scolastici, sono drammatiche. Filtrano notizie di rivolte, ma solo dal Guandong, perché è la regione meridionale confinante con la più libera Hong Kong, oltre che la più industrializzata. E i rari attivisti di associazioni per la difesa dei diritti vengono di regola arrestati. Insomma, per quanto siano in generale terribili le condizioni di lavoro in fabbrica, nelle campagne cinesi le cose vanno anche peggio, specialmente dal punto di vista dei redditi.
Ma non bisogna commettere l'errore di pensare che la Cina sia solo questo: ossia una concorrente temibile a causa di un dumping sociale diffusamente praticato. La Cina è già forte non solo nelle produzioni mature, quelle che – ahimè – rappresentano la spina dorsale della piccola e media industria italiana, ma anche nelle produzioni a più alta tecnologia. E come potrebbe essere diversamente se l'investimento nella ricerca scientifica cresce all'incirca del 20% annuo?
Più drago (Cina) o più elefante (India)? - si chiede Rampini tentando di gettare uno sguardo sugli esiti dello straordinario sviluppo macroeconomico dei due paesi-continente. Quale tra i due sarà il modello vincente? Alla domanda di cosa rappresenterà il loro paese tra vent'anni, nessun cinese, secondo l'autore, saprebbe rispondere, mentre un indiano risponderebbe con sicurezza: "sarà sempre e soltanto l'India", perché "l'India con cambia il mondo, l'India è il mondo". La sfrenata modernizzazione della Cina è ancora alla ricerca dei suoi valori, quella dell'India riposa su un fondo pressoché immutabile e condiviso. Quel che è certo è che, uniti da strategie complementari o divisi da modelli politico-sociali, saranno questi due colossi, assieme al Sud est asiatico, alla Corea del sud e al Giappone, il nuovo baricentro del mondo. Secondo quale modello politico e sociale? Difficile prevederlo e, forse, è persino difficile immaginare quali esplosive contraddizioni interregionali e geopolitiche potrebbero complicare questa previsione e deviare drammaticamente la storia di un mondo divenuto ancora più interdipendente. Ciò che impressiona di Cindia è che il suo solo trend di crescita metterà in crisi le risorse del pianeta. Secondo il Worldwatch Institute, "se i consumi cinesi e indiani della biosfera dovessero raggiungere il livello pro-capite dei consumi europei, la risorse naturali del pianeta basterebbero appena per loro." Non è certo pensabile di arrestare lo sviluppo di Cindia, perciò la catastrofe incombente è evitabile, per quante rivoluzioni tecnologiche potranno soccorrerci, solo alla condizione che il modello di sviluppo di tutti i paesi della Terra sia profondamente modificato e governato.
Anche per queste ragioni, discutere in modo diffuso dei valori condivisi che debbono regolare una nuova sovranità globale, diventata ormai vitale per la sopravvivenza dell'umanità. Oggi è un tema molto più cogente del vecchio realismo politico e riguarda tutte le aree del mondo, nessuna esclusa. Mi riferisco anche alla questione dei diritti umani e a un'idea di giustizia globale, come globale è ormai divenuta la storia umana. Una questione che si cerca di affrontare in tre delle relazioni tenute all'inizio del 2006 in un seminario organizzato, tra gli altri, dall'associazione Humanity, una Onlus che si occupa dell'etica delle relazioni internazionali e di finanza etica, e che sono state di recente pubblicate in un agile testo. [Amartya K. Sen, Piero Fassino, Sebastiano Maffettone, Giustizia globale, Milano, Il Saggiatore, 2006 pp. 95]. Forse si può cominciare a ragionare a partire dalla proposta della prefatrice. Chi non è d'accordo con la libertà degli individui (direi meglio, delle persone) "di scegliere le loro vite, i loro legami, le proprie realtà e impegni, [...] ciò a cui poter appartenere"? Qui, subito i comunitari, i sostenitori delle tradizioni, delle visioni organicistiche delle società, della assoluta prevalenza del sociale (costumi locali) e del trascendente (religione) sulla persona avrebbero subito a che dire, anche smentendo le carte fondative dei Diritti umani, nonché le dichiarazioni sullo sviluppo e sul sociale sottoscritte da tutti gli Stati membri dell'ONU.
Il problema è che si punti davvero il dito contro i fondamentalisti di qualsiasi risma. Per esempio, dice Amartya Sen, "c'è una certa reticenza a considerare la povertà come un ambito plausibile di applicazione dei diritti umani." Un cauto eufemismo, considerando ciò che abbiamo appena saputo dalle analisi di Joseph Stiglitz. D'altronde, Sen attacca i vari riduzionismi maneggiati in modo spregiudicato dai più vari soggetti privati e collettivi operanti nel mondo per costringere le persone dentro identità preformate e onnicomprensive (quelle governate da quegli stessi soggetti) ignorando tutti gli altri modi e identità plurime che ogni persona vive. E questo ovviamente perché, riconoscendo che le identità personali sono sempre plurime, dovunque e sotto qualsiasi cielo, si aprirebbe di necessità la strada alla "libertà di scegliere come uno vorrebbe condurre la propria vita [...] senza essere rinchiuso in una piccola casella da altri che vogliono semplificare il mondo e che ci fanno fare molte cose che avremmo buone ragioni di non voler fare – dall'essere uno sciovinista occidentale all'essere un terrorista islamico." Si tratta di una battaglia di libertà aperta, nella quale i diritti umani non vanno affrontati solo in termini giuridici, ma "in un'arena molto più vasta", che comprende ovviamente anche la sfera culturale, economica e politica.
Piero Fassino risponde positivamente all'interrogativo sottolineando che "non si possono separare i diritti dallo sviluppo", con una esplicita critica alla Cina che antepone lo sviluppo ai diritti. Insomma, partendo da un dato di fatto e cioè che "dove c'è democrazia esistono le condizioni necessarie per il riconoscimento e l'affermazione dei diritti." È proprio questa la ragione per cui le istituzioni internazionali non possono e non debbono più perseguire politiche settoriali influenzate da interessi parziali (come abbiamo in precedenza visto), ma debbono favorire nei loro interventi i cosiddetti processi di Democratic Institution Building. E debbono farlo sapendo che una "politica dell'inclusione è sempre preferibile a una politica dell'esclusione." Questo vuol dire costruire una sovranità globale democratica (sulla quale qualche teorico della politica, come Robert Dahl, ha molti e, a mio avviso, non giustificate resistenze) e eliminare soprattutto il doppio standard nei comportamenti occidentali, di cui abbiamo visto esempi clamorosi nelle politiche dell'FMI e del Tesoro americano. Si può e si deve cominciare da noi, dall'Occidente, agendo "su scala internazionale con la stessa coerenza, rispetto ai principi costituzionali che si è tenuti a rispettare nella politica domestica." Forse solo così il dibattito può superare preclusioni e sospetti da parte degli altri paesi, dovuti non solo ad una lingua ma anche ad una pratica biforcute dell'Occidente.
Perché, osserva Maffettone, questi diritti umani potrebbero essere considerati una diabolica invenzione del nord del mondo per assoggettare gli altri al proprio dominio. Perciò occorre chiedersi quali siano i loro fondamenti filosofici e pratici, accettabili da tutti. Intanto, c'è anche un'altra battaglia da condurre su un doppio fronte, contro il realismo politico e contro il relativismo culturale (per quest'ultimo senza mettere in campo alcuna trascendenza) perché, nonostante le loro differenze, hanno un tratto in comune e cioè quello di opporsi ad una visione universalistica come quella necessariamente fondativa dei diritti umani. Certo, questo universalismo trova dei formidabili avversari proprio nei grandi paesi dominanti, che "possono imporre il rispetto dei diritti umani, i quali non possono però essere loro imposti" (di nuovo la questione del doppio standard). Il filosofo, di fronte alle difficoltà teoretiche e pratiche di una cultura dei diritti umani, propone un metodo di discussione che è in sostanza un lungo processo di conquista dall'interno delle ragioni dei diritti umani. Intanto occorrerebbe liberare l'Occidente da un marchio univoco, dalle semplificazioni degli altri fondamentalisti, perché da quest'area sono provenute cose anche molto diverse tra loro; e poi, sarebbe necessario riconoscere che "non esiste un nucleo statico di diritti umani attraverso le culture." Maffettone chiama tutto ciò un dialogo interculturale. Strada che può e deve essere esplorata, ma che presupponendo assieme alla diversità culturale "un'ipotesi razionalistica di convergenza parziale su alcune forme di tutela dell'umano", colloca la discussione in una transizione potenzialmente quasi senza fine, che il relatore definisce una integrazione pluralistica dal basso. Al termine della quale dovrebbe essere possibile riconoscere su scala globale la condivisione di alcuni diritti fondamentali.

Terzo percorso

Dopo

Mi chiedo se l'umanità ha tutto questo tempo disponibile davanti a sé. Torno alla domanda iniziale: è condivisibile o no una libertà di scelta della persona, dove il termine persona è molto di più di quello di individuo e include le relazioni con il mondo esterno? E mi chiedo se una cultura influenzata da un approccio più evoluzionistico e/o ecologico (in sostanza, una cultura scientifica) possa contribuire a dare a valori condivisi quei fondamenti universali, anche nel caso della democrazia, che il filo dei ragionamenti logico-filosofici non riesce a individuare. Mi pare intanto necessario che i diversi approcci e analisi in questo campo convergano in una griglia comune di ragionamenti, piuttosto che continuare ad estrarre da ognuno di essi l'interpretazione totalizzante di come va il mondo, come spesso accade, ad esempio, nel caso degli studiosi della società dell'informazione o della Information technology, i cui esperti leggono spesso il futuro, anche della democrazia, secondo le sue sole costanti.
Mentre si discutono i fondamenti dell'idea di diritti umani, perché mai, visto che "i problemi ecologici sono globali, la scienza è globale, tecnologia, commerci e comunicazioni sono globali", legge e giustizia dovrebbero rimanere frammentarie? ossia di competenza di singoli Stati – ci si chiede, tra l'altro, in una raccolta di saggi a cura di Derrick de Kerckhove e Antonio Tursi [Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica nell'epoca delle reti, Milano, Apogeo, 2006, pp. 200]
Il che ci introduce ad un altro filone di analisi della globalizzazione, più spostato sul versante della grande espansione dei media, in particolare di rete, e dei loro effetti sull'assetto democratico del mondo. Alla domanda posta nel titolo del libro verrebbe da rispondere, ancora prima di averlo letto: ancora democrazia perché altrimenti ci può essere qualcosa che somiglia molto ad un inferno.
Ora, le alternative sociopolitiche alla democrazia, senza esercitare l'immaginazione con la testa volta al Novecento, sono state ampiamente scandagliate da tutto un filone di letteratura fantascientifica e cyberpunk. Nessuno dei più avvertiti politologi avrebbe ragione di escludere che qualcuno di quei possibili e inquietanti scenari potrebbe anche avverarsi. E, infatti, oltre all'immaginazione letteraria, una saggistica ormai immensa, tutta centrata sull'analisi delle conseguenze derivanti dal vero e proprio salto tecnologico in corso, ci avverte di stare molto in guardia. Tuttavia, in questo libro denso di informazioni e di analisi sono due i filoni principali che vengono presi in esame circa il futuro della democrazia in un'epoca che, con una discreta semplificazione, viene definita come cibernetica.
Da un lato, ci sono i sostenitori della ciberdemocrazia, coloro i quali ritengono che le nuove tecnologie di rete portano con sé globalizzazione, inclusività e trasparenza nella gestione della cosa pubblica, grazie al trionfo dell'intelligenza collettiva, in una visione trionfalistica dell'evoluzione tecno-digitale (Lèvy, Kelly e altri). Si affermerebbe un governo del mondo senza ideologia. Derrick de Kerckhove si spinge a dichiarare che "l'essere umano possa prescindere dall'attività politica e che la gran parte degli individui non sia interessata alle questioni ideologiche." In un futuro non troppo lontano i governi potrebbero diventare obsoleti, anche se l'antagonismo tra globalizzazione e frammentazione per ora viene risolto nella cosiddetta glocalizzazione. Il punto è che il mondo implode. "Accomuna ambiti estremamente diversi da un punto di vista ideologico, economico e tecnologico, e tenta di integrarli troppo rapidamente. Non parlo – continua de Kerckhove – di una specie di scontro di civiltà, ma di un brusco incontro di modi totalmente differenti di concepire il mondo e di intendere i valori, che, nelle loro forme estreme, giungono al fanatismo." Del resto, l'ottimismo dell'autore si attenua molto nel finale del suo intervento, quando lamenta che nei paesi in cui più avanzata è la pratica di governo collegata all'uso massiccio della cibernetica e della multimedialità, i cittadini mostrano una crescente tendenza all'apatia. Nel suo insieme, questo filone postula la fine della politica con il trionfo di una specie di tecnocrazia mediatica, associata ad un'utopia semi-anarchica e a una democrazia diffusa. Le grandi organizzazioni sovranazionali oggi esistenti (WTO, FMI, Banca mondiale e così via) rappresenterebbero una specie di protogoverno planetario. Ma, osserva con molto buon senso Antonio Tursi nel suo saggio, quelle istituzioni "non sono affatto creatrici di società e non sono inserite in meccanismi democratici di circolazione del potere [...] in definitiva non sono politiche." O, più correttamente, fanno continuamente politica, sotto camuffamento tecnico e senza rispondere democraticamente delle scelte che compiono. In altre parole, quanto è neutrale un modello econometrico in base al quale si fanno scelte di politica economica, e quanto è frutto di indimostrabili presupposti teorico-ideologici, e quanto si spende in inventiva per giustificarne gli aggiustamenti compiuti per garantire precisi interessi, e quanto gli apparati tecnici preposti sono impermeabili a indebite incursioni dei poteri forti? La risposta è universalmente nota e Stiglitz ne ha dato una dimostrazione.
Dall'altro lato, ci sono le interpretazioni che continuano in un certo senso le visioni pessimistiche del ruolo che la tecnologia gioca nell'evoluzione del mondo. Nel loro complesso esse possono essere rubricate sotto la voce di postdemocrazia, dove il prefisso post indica un oltrepassamento ma non un miglioramento. Secondo questi autori, nell'epoca cibernetica della democrazia si conserva solo la forma elettorale, la cui celebrazione è ridotta tuttavia a spettacolo controllato da gruppi di esperti rivali, ma non antagonisti, che selezionano anche i temi da discutere. "La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve." In questo contesto, la politica viene decisa in ristretti circoli privati dominati da interessi economici e da un mercato che assoggetta l'intero sistema delle reti (Crouch, Resnick e altri). Su un altro versante, Franco Berardi Bifo concentra il proprio interesse sui cambiamenti cognitivi prodotti dalle nuove tecnologie digitali, mettendoci in guardia sul rapporto nuovo e inesplorato tra velocità delle rappresentazioni e capacità reattiva del cervello umano. "Chiunque frequenti i ragazzi per ragioni legate alla didattica sa che nell'ultima generazione i tempi di concentrazione su un oggetto mentale tendono ad accorciarsi sempre di più. È difficile mantenere l'attenzione di un bambino o di un ragazzo su un oggetto per più di pochi secondi. La mente tende subito a spostarsi, a cercare un altro oggetto. Il trasferimento rapido procede per associazioni e sostituisce la discriminazione critica." Le sue conclusioni sono che aumentano le psicopatie e che l'ipercapitalismo, con un uso incontrollato e appiattente delle nuove tecnologie avrebbe distrutto "le condizioni antropologiche in cui la democrazia aveva potuto nascere." Ma, Sara Bentivegna obietta nel suo intervento che sulla base di un'indagine condotta in venticinque paesi, "l'introduzione delle ICT non ha, finora, trasformato la natura della democrazia liberale."
Il principio che accomuna questi due filoni è un'interpretazione delle nuove tecnologie come potenze che cancellano radicalmente le differenze e le contraddizioni del mondo, sottovalutando l'autonomia delle persone e dando per scontato il fatto che "non si percepiscono mondi di vita altri e irriducibili a quello dominato dall'economia." (Tursi) Parafrasando in senso estensivo una frase di Bernard Barber, il problema con "i fanatici della tecnologia intesa come strumento di liberazione democratica", ma anche con quelli che la considerano l'agente principale della scomparsa o dell'attenuazione dei principi democratici, "non sta nella loro capacità di capire le tecnologie ma, piuttosto, nella loro conoscenza della democrazia."
Va detto che la maggior parte dei saggi contenuti nel libro è piuttosto critica nei confronti delle mitologie della ciberdemocrazia e della postdemocrazia, senza con ciò sottovalutare né gli elementi fortemente innovatori e in qualche modo scardinanti del sistema delle nuove tecnologie di rete né le minacce e i tentativi di controllo e assoggettamento che poteri forti e governi stanno sperimentando nei loro confronti.
Stefano Rodotà, ad esempio, con la sua consueta lucidità e stringatezza, scrive Dieci tesi sulla democrazia continua, dove da una lato rimprovera sia agli ottimisti che ai pessimisti di considerare gli esseri umani una specie di tabula rasa, soggetti ad "un totale effetto sostitutivo operato dalle nuove tecnologie rispetto alle passate forme dell'agire politico e sociale." Obbietta che i movimenti reali non sono sostituiti da quelli virtuali e che coloro i quali nell'immediato passato hanno visto in Internet lo spazio per la realizzazione di una libertà piena non ne hanno colto le contraddizioni tuttora laceranti. Internet è in realtà un luogo di conflitti dove spesso la libertà viene presentata come nemica della sicurezza, "dove le ragioni della proprietà contrastano con quelle dell'accesso; il pensiero libero sfida la censura; la partecipazione reale dei cittadini rifiuta gli ingannevoli miraggi della democrazia plebiscitaria." Se le tecnologie digitali (il cosiddetto e-government) sono potenzialmente capaci di rendere più visibili i processi di gestione e le decisioni della sfera pubblica (ma anche privata), costruendo con ciò il migliore antidoto alla corruzione e alla opacità del potere, non mancano le sirene che, promettendo "un futuro pieno di efficienza amministrativa", in realtà occultano "un presente in cui si moltiplicano gli strumenti di un controllo sempre più invasivo e capillare." Insomma, mentre per la prima volta l'umanità ha la possibilità di condividere uno scenario globale, per cui all'ordine del giorno sono messi i problemi della sua gestibilità democratica, non bisogna perdere di vista il fatto che in vari punti di questo stesso scenario ci sono forze e poteri che cercano di modificare le condizioni di libertà dei cittadini, servendosi di quelle stesse tecnologie. Per esempio, se "la guerra al terrorismo [...] non ha confini ma soprattutto è senza tempo: per definizione di chi la conduce è una guerra infinita. Diventerà infinita anche la limitazione di diritti e garanzie?"
Sulla stessa lunghezza d'onda è il saggio di Michele Prospero, quando osserva che "il contatto online non può surrogare la vicinanza fisica e il rapporto tangibile tra i corpi" e che "le interazioni anonime, che passano da schermo a schermo, hanno l'inconveniente di lasciare un desiderio incancellabile di confronto reale, di visibilità." Insomma, le tecnologie digitali, da un lato non producono la scomparsa dei precedenti poteri e, dall'altro, non azzerano i rapporti sociali consolidati; caso mai "li ratifica e ne crea di nuovi". Prospero critica in particolare quelli che vedono le nuove tecnologie come generatrici automatiche di una nuova stagione democratica e giudica alquanto fragile "l'equazione internet uguale maggiore qualità della democrazia." Il presupposto di queste tesi estreme che prevedono la scomparsa del corpo e l'affermazione di una immaterialità dominante il mondo, consiste nell'immaginare un cittadino iperinformato, il quale però non saprebbe che farsene delle nuove e vaste cognizioni acquisite grazie alla navigazione solitaria nella Rete, perché non troverebbe più "mediatori da influenzare", né soggetti sociali organizzati con in quali entrare in contatto. Come Rodotà, anche Prospero mette in guardia dalle troppo semplici teorie sulla sostituzione di vecchie forme di partecipazione politica e sociale con le nuove tecnologie digitali. Piuttosto, la realtà si muove in direzione di una loro integrazione. Torna qui il problema centrale della formazione del cittadino, anche contro una generica e vuota ideologia della alfabetizzazione informatica, andata tanto di moda. Alfabetizzazione certo necessaria, ma che non può essere separata dal problema "della formazione culturale dei naviganti"; tanto più che non si può continuare a ricorrere alla metafora del Robinson Crusoe virtuale, il quale "naviga leggero come fosse una tabula rasa."
Piuttosto, pur all'interno di un apprezzamento e di una critica sorvegliata alle nuove tecnologie, sottolinea Alberto Abruzzese, c'è da porsi il problema del rinnovamento delle vecchie culture per renderne efficace il controllo e un uso creativo. Perché - si chiede il sociologo della comunicazione - "come possono queste culture strutturate nella continuità dell'umanesimo, dare all'innovazione valori diversi da quelli che li hanno fondati, ne hanno guidato i modelli di democrazia e le politiche di governo?" E qui l'autore introduce l'opposizione storico-concettuale tra crisi e catastrofe, dove la prima presuppone una certa continuità, mentre la seconda rappresenta un avvicendamento di civiltà. C'è, insomma la necessità di una catastrofe, ossia di un salto di sistema. Reso necessario, aggiungo, non solo dall'espansione delle tecnologie digitali.
Nei saggi del libro c'è anche uno sforzo per delineare una via d'uscita, sempre a partire dalla constatazione dell'invasività universale delle nuove tecnologie digitali. Luca Toschi, ad esempio, sposta l'attenzione sul concetto di flusso, di processo che la nuova storia del mondo ha posto a suo fondamento. Propone quella che mi sembra la strada di Ulisse, una strada certamente difficile, dove il senso della ricerca è nella ricerca stessa, dove "il punto di arrivo finisce per il prospettarsi come un nuovo punto di partenza, ma verso terre totalmente inesplorate." Insomma, "la piena umanità, la libertà senza la quale non c'è democrazia né comunicazione, sembra scaturire dalla convinzione che le risposte che non sollecitano altre domande non sono risposte." Come nella ricerca, così la democrazia che smette di cercarsi perché pensa di essersi ormai realizzata "perde la sua dimensione umana e muore." L'autore non ripropone alcun modello ultimo, perché il modello è nella sua capacità di farsi e non nella stabilità, nella formula definitiva sognata e inseguita per secoli dal pensiero umanistico classico. Quella che io chiamo la mania dell'assoluto. Un punto di vista, quello di Toschi, molto più coerente con una cultura evolutiva capace di misurarsi con cambiamenti costanti. Democrazia, ricerca, educazione sono per lui tre termini ormai inscindibili, "dove ogni termine è [...] fine e mezzo al tempo stesso degli altri, dando vita a un divenire continuo, denso di imprevedibilità e di incertezza, che non deve essere subito come un problema, rappresentando viceversa il senso più profondo della condizione umana." Perciò, è vero che le nuove tecnologie possono aprire nuovi spazi politici ed economici, ma a condizione che esse non vengano considerate in termini di impatto, ma di progetto, "perché il compito è quello di progettare l'infrastruttura di una civiltà di scala mondiale, cioè mai vista." È qui che si può riallacciare la prospettiva contenuta nel saggio di Antonio Tursi di una iperdemocrazia (contro la teorie della ciberdemocrazia e della postdemocrazia). La sua realizzabilità risiede nell'essere il ciberspazio una sede di conflitti e non un insieme levigato e scorrevole in grado di ridurre ad un'interpretazione univoca il mondo. Proprio perché non è possibile un sovrano sciolto dalle diverse interpretazioni e dagli usi che possono farsi e si fanno delle tecnologie digitali, "il cittadino continua ad essere l'unico antidoto a quel micidiale impoverimento e restringimento della sfera pubblica denunciato da molti." In buona sostanza, il ciberspazio potrebbe produrre più rappresentatività e più politica, a condizione – scrive - di depotenziare le mitologie di un mercato in grado di regolare tutto.
Riemerge qui il concetto di cittadinanza come valore universale, trasversale a qualsiasi ideologia religiosa, a qualsiasi cultura e storia regionale, proprio perché fondato su qualcosa che, essendo già una pratica pressoché universale (la Rete, il ciberspazio) e totalmente altra dalle esperienze del passato, è in grado di travolgere vecchie categorie e fondamentalismi che cercano di preformare il mondo ad immagine dei poteri e degli interessi esistenti. Ma la cittadinanza, per poter essere tale, ha bisogno di un presidio giuridico che segni i confini invalicabili da altri, ossia di quella che Rodotà chiama la costituzionalizzazione della persona, in grado di non perdere mai il controllo sul proprio corpo, che "è ormai fisico ed elettronico." Così come ha bisogno di istituzioni in grado di accompagnare, di fornire strumenti per il viaggio permanente che il cittadino ha ormai iniziato.
C'è qualcuno in grado di sostenere che l'integrità fisica e psichica della persona non è un valore universalmente condivisibile, senza con ciò divorziare dal consorzio umano?

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