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9. Labirinti di lettura
Il soggetto misterioso (ma molto ricercato e discusso) della neoborghesia

Debbo esordire dicendo che non so se la domanda implicitamente contenuta nel titolo sarà inconcludente. Forse è solo la risposta che non è conclusiva, come ripetono spesso gli autori di due dei saggi citati in questo Labirinto. D'altra parte, associare il primo libro ai due successivi è piuttosto azzardato. Tuttavia, l'unire la ricostruzione di una prospettiva storica e delle tendenze di lungo periodo della seconda metà del Novecento italiana a una riflessione culturale, sociologica e empirica sulle tendenze esistenti nel ventre (brutta espressione ma significativa) della società italiana, è forse un mezzo per cercare di superare la difficoltà di capire cosa sta succedendo nel mondo e, in particolare, in Italia, tentando di attenuare il rumore di fondo delle proclamazioni retorico/politiche e delle troppo veloci e superficiali incursioni mediatiche. Tre libri che, pensati a diversi anni di distanza possono insomma fornire una specie di griglia a maglie piuttosto larghe, se non per avere risposte alla domanda sul dove stiamo andando, almeno per capire cosa sta cercando di venir fuori da quella specie di scatola cinese contenuta nella domanda iniziale.

Primo percorso

Il noi diviso

Lo stato pressoché gassoso in cui da anni si muove la società nazionale non è altro, ovviamente, che il risultato delle enormi trasformazioni in corso nel mondo, ereditate in parte dal Novecento e in parte avviate su itinerari del tutto nuovi: il futuro, per l'appunto. Almeno quello domestico.
Un lungo saggio di Remo Bodei si misura con il problema di quel che può essere definito l'ethos di un popolo, ossia quell'insieme "di costumi, norme e modelli di comportamento (non sempre coscienti, non sempre approvabili) che guidano le azioni degli individui entro una determinata comunità storica." Ovviamente questo ethos si presenta sempre piuttosto variegato e "non privo di interne fratture e venature". Per fortuna, aggiungo, perché le società definite organiche, ossia compattamente orientate e strutturate, oltre ad essere un'illusione propagandistica, somigliano più ad una soffocante caserma che ad una civile convivenza di liberi cittadini.
La struttura del libro, che mette in continua e alternata risonanza lo sviluppo della filosofia e della cultura italiane con le vicende politico-sociali e con gli eventi anche simbolici che di volta in volta hanno segnato il cambiamento nazionale della seconda metà del Novecento, ne fa un saggio atipico di difficile classificazione e dalle numerose sfaccettature; delle quali si utilizzerà qui solo quella parte che è più utile per dipanare la nostra domanda iniziale.
La lettura o rilettura di questo testo non è un'operazione nostalgica, una deviazione verso una più confortante memoria, di fronte a quella drastica frattura, a quella perdita di senso che la quasi totalità dei commentatori assegna ai tempi attuali, attraversati da disvalori e comportamenti molecolari semianarchici, apparentemente privi di presidi etici e sociali e di un respiro ideale che facciano riconoscere nel paese una collettività protesa verso un'autorealizzazione condivisa.
Si tratta invece di fare un passo indietro per riuscire a misurare meglio la prospettiva attuale. E anche per riuscire a capire in quale misura quel che Bodei sostiene, e cioè che in Europa non c'è nessun'altra nazione come l'Italia in cui coesistono fenomeni di accentuata modernità e di residua arcaicità, in cui, in sostanza, "scorrono nel medesimo alveo tempi storici diversi", sia oggi ancora uno dei tratti caratteristici dell'Italia. L'affermazione dell'autore va presa con le cautele opportune, perché questa compresenza di tempi storici diversi è vera per qualsiasi società umana e per tutti i periodi storici. Anzi, si tratta di uno dei modi specifici di essere della storia. Basti pensare a quanto di arcaico, in termini di evoluzione culturale, ci portiamo ancora dentro, dovunque nel mondo. La tesi dell'autore va piuttosto collegata alle particolari modalità in cui si è realizzata l'unità nazionale, si è affermata la sua modernità e si sono evolute le istituzioni e la società, a partire da un fondo storico-culturale su cui non è qui il caso di insistere perché porterebbe il discorso troppo lontano.
Se la data da cui simbolicamente partire è l'8 settembre del 1944, non come "morte della patria" (di cui aveva fatto abbondante strame la retorica fascista, e per cui gli italiani si ritrovarono avventrinati da una cattiva idea di patria), ma come "morte dello Stato" (di un certo Stato), il 25 aprile del 1945 può rappresentare la data simbolo del riscatto, della possibile rottura con il passato. Rottura ben presto occultata, però, dalla continuità sociale e istituzionale dovuta a quella vera e propria gabbia di ferro calata sulla fluidità politica inaugurata dall'avvento della democrazia, a causa del sopraggiungere della guerra fredda. Per cui, gli italiani non hanno mai fatto veramente i conti non tanto con la forma fascista assunta da una parte della loro storia, quanto con i comportamenti profondi, con la vera e propria psicologia di massa - si sarebbe detto una volta – con l'assenza dei principi di responsabilità individuale, di rispetto dell'altro e di autonomia della persona collocata in un contesto collettivo, che permisero l'avvento del fascismo e una sua larga condivisione.
Due possibili Italie si condensarono attorno a due modelli politici principali, che assunsero anche una funzione etica - dopo il tramonto dello Stato etico di gentiliana memoria - con le ovvie articolazioni e varianti derivanti dalla molteplicità della realtà economica, sociale e culturale, la cui alternanza era tuttavia di fatto bloccata. Ora, al di là delle tante ricostruzioni storiche, l'anomalia principale - anche politicamente dominante – è stata di fatto il ruolo rivestito dalla Chiesa (e i suoi problemi nei confronti della modernità). Per essere più precisi e per parafrasare una citazione di Pietro Scoppola a proposito di una delle specificità italiane, è vero che in Italia è mancato "quel tratto caratteristico delle società democratiche che è la mediazione tra religione e politica sul terreno delle coscienze individuali e del costume", per cui tale mediazione è stata istituzionalizzata nel partito (democristiano) opponendosi all'altro partito etico, quello comunista. Per quanto, ripeto, non mancarono autonome proposte. Ma, vorrei osservare, anche con il senno di poi, che in Italia è giustificato pensare come sia un'illusione che, mancando un partito che assolva a una tale funzione (che è in qualche modo laicizzante), si possa finalmente restituire all'interiorità personale il governo del rapporto tra politica e religione, almeno per gli aspetti essenziali se non per i comportamenti spiccioli. La funzione peculiare e incombente svolta dalla gerarchia ecclesiastica in Italia (e non in altri paesi) impedisce che ciò possa avvenire, almeno, non senza profonde lacerazioni. Occorre tenere a mente questa base permanente della condizione nazionale anche quando tra poco si passeranno a esaminare gli altri testi.
Oltre tutto, nel nostro Paese, non ha mai fatto molta strada la convinzione che l'io e il noi rappresentano due facce della stessa medaglia, come quella di individuo e specie. La fatua incoscienza dal me ne frego prebellico si è associata all'arte di arrangiarsi che è, sì, capacità di adattamento ma anche dissimulazione e mimetismo (e che ritorna in alcuni fenomeni sociali attuali). Fino a risolversi in quello che è stato definito, con sintesi efficace, il familismo amorale.
La continuità di una cultura retorico-umanistica e il dispregio per una cultura scientifica derubricata a mezzo operativo e non assunta anche come strumento di conoscenza e di riflessione sul mondo, che è il vecchio vizio idealistico e religioso italiano, completa (quasi) il quadro. "Fino a pochi decenni fa – scrive Bodei – non è mai esistita in pratica una riflessione autoctona sulla filosofia della scienza o sulla logica", se si escludono poche e solitarie figure di scienziati e di pensatori.
Nonostante ciò, la modernità è stata la talpa che ha scavato un lungo tunnel all'interno della società italiana, aiutata dal fermento di un'esperienza democratica dalle plurime ispirazioni, e tagliando trasversalmente convinzioni e comportamenti. L'asfissiante immobilismo dei costumi e delle norme etiche ufficiali, contrastante con la maggiore mobilità sociale generata dallo sviluppo economico e culturale, ha generato movimenti liberatori che hanno tentato di sbloccare, tra mille contraddizioni, la situazione, al cui centro c'era l'autonomia della persona e il suo desiderio di non essere più eterodiretta. Ma la persistenza di una tradizione nazionale nella quale la distanza tra norma e comportamento reale, per quanto molto più ampia che altrove, non è di fatto considerata riprovevole, congiunta a quell'anomalia nazionale cui si è accennato, ha consolidato il fenomeno di un doppio atteggiamento. Per cui, una delle fratture più vistose nell'Italia repubblicana è stata, ad esempio, il comportamento delle donne, nelle quali c'è stato un "progressivo distacco [...] dall'esperienza storica delle generazioni precedenti e dalla connessa tradizione cattolica (attraverso l'accresciuta distanza tra i comportamenti effettivi e i valori che a parole si continuano a professare)". Duplicità che è poi un fenomeno comune.
L'altro fattore di rottura della continuità, quali che siano i giudizi in proposito, è stato il '68 con la sua carica utopica e liberatoria ma, anche, come tentativo di rottura dei blocchi storici. L'autore cita anche Marco Revelli - con il saggio contenuto in Storia dell'Italia repubblicana - per il quale il '68 rappresenta "il primo movimento a trattare il mondo intero come un unico sistema integrato, come spazio omogeneo all'interno del quale ogni luogo è interconnesso in modo sistemico – cioè in modo interdipendente e in tempo reale - con ogni altro." Il che, ha rappresentato non solo una sprovincializzazione della cultura italiana ma anche una discreta e significativa anticipazione dell'interpretazione del mondo sotto la veste di globalizzazione.
Sta di fatto che il ruolo giocato dai partiti politici per gran parte del secondo Novecento permettendo il radicamento della democrazia (senza qui richiamare le ovvie contraddizioni e i tentativi, che pure ci furono, di uscire dal quadro democratico) è mutato profondamente, con quella che è stata precipitosamente chiamata la fine delle ideologie. Come se fosse possibile per gli esseri umani vivere senza respirare e come se quella del neoliberismo trionfante non fosse un'ideologia. Non è qui la sede per discutere tale questione, ma ciò che è interessante nel saggio di Bodei è il parallelo che istituisce tra la forma e la funzione dei partiti e il paradigma del taylorismo-fordismo, imperante nel modo di produzione e di consumo per gran parte del Novecento. Il tramonto del fordismo è stato accelerato dall'affermazione del toyotismo, che agisce "secondo lo schema, inaugurato dalla Toyota, della produzione diversificata e aggiornata, basata sulle specifiche richieste dei clienti, secondo il criterio cioè del just in time". Il che presuppone un sistema di produzione agile, flessibile e mobile, con una testa strategica forte e una periferia poco compatta. Questo fenomeno ha prodotto un cambiamento sociale e culturale profondo. Talché, per gli apparati politici risultano ora di impaccio le pur contraddittorie e lente procedure di democrazia interna. Il cosiddetto mercato politico (orribile espressione) si fa più volatile e, apparentemente, mobile; i gruppi dirigenti lo sondano direttamente, senza intermediazioni interne, e sperimentano forme politiche e strumenti nuovi "per attraversare il vuoto che si è creato e preparare un più morbido atterraggio nel nuovo". Restringere a questo solo aspetto la complessità delle vicende delle due ultime decadi del Novecento è certamente una semplificazione. Ma ci permette di individuare un fatto-simbolo, il toyotismo, che in qualche modo riassume la questione.
Sull'altro versante dei valori etici che danno senso alla vita, declinanti quelli espressi dai partiti politici, il vuoto creatosi viene rapidamente colmato, o tentato di colmare, dalla Chiesa cattolica, la quale "esce ancora una volta sostanzialmente rafforzata" dalla crisi di transizione. Osservo che tutto sembra cambiato ma nella realtà culturale profonda del Paese è cambiato molto poco se, tramontato il pericolo comunista, rimane possibile assemblare una coalizione elettorale vincente e comunque molto forte (all'incirca la metà del Paese) all'insegna dell'anticomunismo, che colpisce qualsiasi idea o tentativo di regolare in modo più equo e moderno l'assetto della società, di concepire una società in cui la ricchezza privata non significhi miseria pubblica. Che è poi l'ethos fin qui dominante nella storia nazionale, nel senso di una scarsa considerazione, anche nella pratica quotidiana, della collettività in cui si vive.
Non si tratta però solo di un fenomeno locale, tipicamente italiano, perché echeggia l'interrogativo diffuso su scala mondiale circa un'alternativa secca è cioè se "si deve privilegiare una nozione di giustizia che salvaguardi i ceti e gli individui più deboli o puntare invece sulla libera competizione tra individui e gruppi, lasciando arbitro il mercato. Bisogna accantonare risorse a uso delle generazioni future, limitando le aspettative di quelle attualmente viventi, o lasciare che i posteri se la cavino da soli?".
Gli individui sembrano ora abbandonati a se stessi, privi di criteri di giudizio che non siano quelli ondivaghi e commerciali dei media; e poiché il neoliberismo imperante non ha un'etica, se non quella del self-service a tutto campo, è evidente che serve un collante che riesca a governare la complessità assunta dalla società, al fine di evitare una frammentazione che superi i livelli di guardia. Una parte dei gruppi dominanti si rivolge perciò alla vecchia istituzione ecclesiastica, la quale comincia a rispondere con una offensiva contro l'imperio del relativismo.
L'attacco al relativismo è, di fatto, un attacco alla democrazia, perché la democrazia, per essere tale, per ammettere cioè la pari dignità dei soggetti partecipanti, per ammetterne la mutua compatibilità dei valori, non può che assumere il relativismo come guida della sua esistenza – sottolinea Bodei. Una democrazia senza relativismo è una democrazia eterodiretta da poteri al di fuori del suo controllo (come per l'appunto sono la Chiesa ma anche i cosiddetti poteri forti).
Come si sa, il compromesso possibile è lasciare alla libertà personale e alla coscienza dell'individuo i cosiddetti valori ultimi, per concentrarsi sui cosiddetti valori penultimi, quelli che permettono una convivenza civile e la libertà di coscienza e di opinione. Il che è esattamente la materia del contendere in questa fase storica tra i teo-conservatori (ma anche i teo-democratici), gli atei devoti e le gerarchie religiose, da una parte, e i laici. Penso però che il compromesso non voglia dire che tutti i valori siano uguali, perché la convivenza possibile si basa per l'appunto sulla condivisione di alcuni valori penultimi ritenuti assoluti, non valicabili né in nome di tradizioni locali né di scelte personali né di un richiamo a valori supernaturali. È l'esistenza di un tale integralismo laico, se vogliamo chiamarlo così, che permette l'esistenza degli altri valori, mentre non è vero il contrario.

Secondo percorso

Che fine ha fatto la borghesia?

L'analisi di ciò che è cambiato e sta cambiando nella società italiana, se non vuole avere le gambe corte, deve dunque partire da una prospettiva storica, sulla quale può innestarsi ora la domanda di cosa rappresentano i ceti cosiddetti emergenti. Mantenendo ben fermi i due assi del mutamento e della continuità come realistico metro di giudizio, quale prospettiva potranno esprimere? Intanto è la stessa nozione di borghesia (e di neoborghesia) che dovrebbe essere discussa e a farlo ci provano questi tre saggi raccolti in un volume. Seppure non ne può dare una definizione precisa, un'osservazione preliminare di Massimo Cacciari ci può fare da guida nell'indagine, laddove si afferma che "sembra esserci qualcosa in borghesia che eccede i limiti del concetto di classe, almeno così come si definisce storicamente e teoricamente nel fuoco dei nuovi conflitti economici e sociali tra anni '30 e anni '40 del XIX secolo. E che si allarga nel corso del XX secolo."
Nell'Introduzione ci si domanda se la nuova borghesia ha "il senso dell'obbligo generale, della responsabilità complessiva", perché, in caso contrario essa non è un soggetto, ma "è un nuovo volgo disperso". In altre parole, per quanto possano essere creativi e dinamici i nuovi ceti emergenti, si tratta di vedere se riusciranno a pensare politicamente e ad esprimere un modello sociale egemone e condiviso, superando l'attuale dispersione e non ripiegando verso i valori di una piccola borghesia confusa, animata da un sordo desiderio di rivalsa e preoccupata soltanto della sicurezza. Perché – come ha scritto il sociologo Ralph Dahrendorf – "le legature che creano l'ordine interiore di una società non si possono sostituire con un aumento dei poliziotti e dei carcerati". Questo ordine interiore - come abbiamo appena visto - i neoconservatori e i finti liberisti di casa nostra lo ricercano nel ruolo egemone della religione. Me c'è qui una prima contraddizione, proprio a proposito del relativismo - come avverte subito Cacciari, inaugurando la serie dei tre saggi contenuti nel libro-. Infatti, partendo dal ruolo simbolico del denaro, così come si è sviluppato nel corso di tutta la rivoluzione borghese, il filosofo chiarisce che l'architrave che regge il sistema dominante è la possibilità di desacralizzare ogni presenza "trasformando ogni valore in valutato". Per cui, almeno come metodo introduttivo, il relativismo appartiene strutturalmente allo spirito borghese, nel senso del "calcolo esatto delle relazioni tra cose il cui valore si rappresenta con precisione solo nel mezzo universale del denaro." È soprattutto Cacciari a porre delle ragionate e acute domande in risposta all'interrogativo centrale del libro. Il che non è affatto disprezzabile, considerando che già la capacità di formulare le domande giuste significa iniziare a rispondervi.
In primo luogo, ci si può chiedere se è corretto tenere distinta la storia della borghesia da quella del capitalismo, perché lo spirito borghese nasce cittadino e molto territorializzato (il che – come vedremo – segna anche una larga parte del fenomeno del capitalismo personale su cui intervengono gli altri autori). La domanda è importante; si tratta di uno snodo essenziale per interpretare la fase attuale, perché l'altra vicenda incombente della globalizzazione e del predominio del capitale finanziario, delle multinazionali e del top management esprime invece una universale mobilitazione planetaria che tiene in scarso conto tradizioni e vocazioni locali. È un punto affrontato da tempo e non a caso è stato coniato il neologismo di glocal, che vuol dire pensare globalmente e agire localmente.
Ora, stando ad economisti storici che hanno cercato di guardare al di là del proprio naso e della propria disciplina in senso stretto, come Sombart e Schumpeter, ciò che si deve conservare perché la contraddizione non diventi esplosiva è il "nesso tra imprenditorialità e innovazione, da un lato, e responsabilità e servizio, dall'altro". A ciò va aggiunta la vecchia e discussa questione della proprietà, anche nelle nuove configurazioni in cui sembra presentarsi, nel senso che "essere proprietario è sapersi chiamato a rispondere dell'uso dei propri mezzi", come è sancito in quasi tutte le Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra e come è anche teorizzato dai massimi esponenti storici della scuola liberale.
In sostanza, un'élite che manchi di una prospettiva storico-sociale per sé e per gli altri, ossia di un progetto costituente, manca di auctoritas (che è molto di più e di diverso dall'autorevolezza e dalla detenzione del potere), con il rischio concreto di far vacillare "i fondamenti del suo stesso potere economico." Ma come può, nell'età della globalizzazione, emergere un'élite dirigente che assuma su di sé l'onere e l'onore di rappresentare e sintetizzare i bisogni e le attese di un paese? Cioè, di fornire risposte mediamente valide non solo per sé ma anche per gli altri? Insomma, la grande domanda è: se sta nascendo e che cos'è la neoborghesia nel senso pieno del secondo termine della parola.
Per Cacciari c'è un passaggio preliminare e necessario da compiere perché si realizzi uno sbocco positivo. Si tratta di "immaginare un liberalismo radicale e collocarlo nel cuore stesso del sistema", perché "nella sua stessa origine tale liberalismo è l'opposto di ogni scatenamento liberista." Parafrasando Alfred Marshall, il fondatore dell'economia neoclassica, aggiunge: "Il mercato è un campo in cui l'individuo può esprimere le proprie qualità etiche. È il valore dell'individuo che deve emergere dalla competizione. Se il gioco è truccato, se l'ethos che collega i competitori è messo in dubbio, se il rischio diviene azzardo e qualche giocatore un baro, il sistema tracolla. Il mercato non ha alcun valore in sé; lo ha se permette quell'affermarsi dell'individuo. Ma dell'individuo assolutamente responsabile."
Per queste ragioni Cacciari si chiede se ciò che stiamo vivendo è la fine della borghesia. Perché la strategia seguita dal capitalismo finanziario è di ridurre il Politico ad amministrazione da esso dipendente, "senza nessuna considerazione di ordine sociopolitico e neppure delle dinamiche distributive". Sicché, il rischio è che la borghesia finisca e che la molto osservata nascita della neoborghesia si dissolva "in un indefinito ceto medio, la cui domanda di libertà intesa come licentia si accompagna ad un'altrettanto scatenata esigenza di protezione e di tutela". Su queste basi, da un lato, si forma un governo immobile, animato dal conservatorismo più duro, dall'altro si nutre una cultura, per chiamarla così, nella quale "ogni forma di controllo e ogni norma esterna vengano vissuti come intollerabili interferenze." Eppure, nella sua storia la borghesia è stata portatrice di un modello di sviluppo della democrazia e non di un modello di equilibrio stabile.
Ora, occorre guardarsi da due rischi, anche nella ricostruzione storica della parabola della borghesia. Essa non ha agito nel vuoto assoluto. La sua azione per quello che una volta veniva chiamato comunemente progresso è consistita nella capacità di assorbire altre spinte sociali e di innovare a tutto campo. È qui che dobbiamo collocare un segnacolo, da tenere sempre d'occhio nel nostro percorso, che marchi la differenza tra la situazione italiana e quella dell'Europa centro settentrionale, laddove nel secondo caso la borghesia ha storicamente svolto in modo più autonomo e, in grado maggiore, una funzione nazionale, razionale e progressiva.
Nel secondo saggio, Giuseppe De Rita dichiara subito di voler prendere un po' le distanze da quello che gli sembra un tema piuttosto abusato e alla moda, dovuto al fatto che "siamo tutti un po' orfani [...] dell'idea di una borghesia classe generale capace di dare un senso all'evoluzione della società". E, forse, aggiunge, ciò avviene perché gli italiani hanno sempre sognato di avere "una qualche forma di borghesia capace di far politica. Di essere forza tesa a guidare e dar senso al nostro sviluppo". E poiché l'autore dà ragione alle domande rabbiose di Cacciari, si propone di non arrestarsi alla riflessione concettuale ma di dare uno sguardo di carattere più socio-economico al problema. Compito non facile da fare in poche pagine, che hanno l'ambizione di ricostruire da questo punto di vista ciò che è successo negli ultimi cinquanta anni e che sta accadendo oggi. Tuttavia De Rita, per unificare i contraddittori processi avvenuti, usa la nozione di invaso borghese, come fenomeno di assembramento collettivo verso l'alto e di ampliamento del consenso sociale che non significò la creazione di una borghesia nel senso proprio del termine, ma una cetomedizzazione di massa. "Tutti con più reddito, con più consumi, con più istruzione, con più desiderio di status sociale medio-alto, con più voglia di emozioni e di esperienze, con più libertà e diritti individuali e con meno vincoli di appartenenza." Un fenomeno non capito e non interpretato in tempo e, quindi, non guidato, per cui ha assunto le caratteristiche denunciate da Cacciari e intraviste per tempo da Pasolini. Non si tratta di un giudizio moralistico e tanto meno di condannare un processo che ha consentito a tanta gente di stare meglio di prima e che ha permesso a quell'invaso di rappresentare, alla fine degli anni '70, probabilmente più del 90% della società italiana. Si tratta di capire le dinamiche materiali che hanno presieduto a quel fenomeno, che non è stato solo italiano, ma che in Italia si è scontrato, o meglio, ha sofferto di alcune peculiarità e di distorsioni storiche e strutturali.
L'autore correda le sue affermazione di dati statistici e di serie storiche per descrivere l'approdo della società italiana, all'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, come una società con la forma di una grande pera, all'interno della quale c'è stata un'omogeneizzazione ma anche una maggiore mobilità sociale. Tuttavia, con gli anni '90, è arrivata la rottura di quell'invaso, a causa di processi noti, sicché "il ceto medio ha cominciato a prendere forma ai margini, lasciando inerte il centro." È a partire da qui che l'autore inizia ad esaminare i caratteri della possibile cultura neoborghese emergente, stendendo anche una lista dei fenomeni e dei valori che la nutrono. Naturalmente si tratta di osservazioni sociologiche elaborate sulla base di sondaggi del tempo effettuate dal Censis. Ma alcuni dati sembrano significativi, come i giudizi espressi da un campione di industriali e artigiani per cui i valori guida di una nuova classe dirigente debbono essere l'onestà (54,8%) e la responsabilità (40,8%). Valori piuttosto bassi per la verità, ma migliorati rispetto al passato, in cui i valori prevalenti erano stati la furbizia (66,7%) e l'adattabilità (43,9%). Più eticamente orientate le famiglie, per le quali le virtù necessarie per la crescita collettiva sono l'onestà (78,1%) e la responsabilità (49,9%), anche se per quanto riguarda la laboriosità (39,5%) e la solidarietà collettiva (28,3%) siamo al di sotto di quanto ci si dovrebbe aspettare. Sta di fatto che De Rita frena un po' gli entusiasmi circa la possibile nascita di una neoborghesia, affermando che l'ipotesi "non è dietro l'angolo, che essa nell'ultimo decennio non ha fatto significativi passi in avanti, che addirittura sembra in calo di tensione".
Il problema è che c'è una parte dell'invaso, orientativamente la maggioranza, che è rimasta bloccata dalla stagnazione economica e da una maggiore incertezza e sfiducia nel futuro. Risparmio, consumi e retribuzioni lorde per unità di lavoro hanno avuto un andamento decrescente tra il 2001 e il 2003. Un'altra parte, aggiungo io, ha avuto invece la possibilità di utilizzare posizioni di privilegio tariffario, nicchie di mercato e l'occasione offerta da un ingresso non governato nell'Euro per migliorare attraverso l'aumento dei prezzi la propria posizione. Insomma, ci sono stati un notevole trasferimento di ricchezza e una ridistribuzione verso l'alto, spesso non dovuta a nuove attività o una crescita dell'imprenditorialità.
Tra i processi di trasformazione più importanti che hanno determinato il cambiamento e la rottura dell'invaso borghese c'è quello dell'assetto produttivo nel quale ci sono solo due o trecento aziende medie, su più di seicentomila manifatturiere, in grado di promuovere l'innovazione e di dimostrare un'adeguata competitività internazionale. Secondo il Quinto Rapporto Unioncamere-Mediobanca su La media impresa italiana, il resto continua ad essere un polverio di piccole imprese, più o meno vitali, alle quali si affiancano però all'incirca 15 mila aziende che potrebbero fare il salto verso le medie dimensioni. Del resto, gli imprenditori dimostrano una mentalità e una cultura poco orientate all'innovazione, checché se ne dica. I fattori su cui dicono di puntare per tener alto il livello di competitività non mutano il panorama a basso contenuto tecnologico delle specializzazioni produttive italiane, che è la vera palla al piede dell'Italia. Ad esempio, solo il 9% delle imprese cita la ricerca scientifica e tecnologica, fatta in proprio o in collegamento con le istituzioni scientifiche, come fattore di incremento della competitività. In esse tendono insomma, secondo il Rapporto, "a prevalere le produzioni tradizionali, dove i punti di forza non sono fondamentalmente tecnologici, quanto di natura commerciale (tecniche e reti di vendita, pubblicità, design) e immateriali (marchi e brevetti)."
Naturalmente, De Rita non si limita a prendere in esame ciò che sta accadendo nel settore manifatturiero e artigianale, ma cita anche altri ambiti di attività nei quali stanno emergendo gruppi imprenditoriali come nel caso dell'impresa sociale e dei servizi alla persona. Ma le cifre non sono, nel loro complesso, entusiasmanti e, una volta disaggregate, sollevano ancora più interrogativi. Sono la testimonianza di una società ancora bloccata, che tende a ripetere se stessa, anche per quanto riguarda la mobilità sociale, e che tende a cercare protezioni in vecchi e corporativi meccanismi di salvaguardia.
Aldo Bonomi affronta nel terzo saggio del libro un'analisi più empirica del problema, intanto non dando alcuna definizione esplicita di neoborghesia, ma cercando piuttosto di descrivere "il bacino sociale entro il quale la neoborghesia ha le sue radici." Il pregio dell'analisi è quella di seguire uno schema definito (a ragione) non datato, cioè di vedere "la formazione di una nuova classe sociale come direttamente connessa al suo rapporto con il lavoro." Il bacino preso prevalentemente in esame è quello della piccola impresa e del lavoro autonomo, delle attività condotte in prima persona.
Infatti, secondo l'autore, il filo conduttore del mutamento avvenuto e ancora in corso è proprio quello della persona, della personalizzazione, a partire dal quale viene costruita la nozione di capitalismo personale come prevalente modo operativo della neoborghesia. Un tema su cui si sofferma, in particolare, l'altro libro che vedremo più avanti.
Se raduniamo quelle che Bonomi indica nel prosieguo come importanti caratteristiche di questa nascente neoborghesia, ne uscirebbe un ritratto confortante per il futuro del paese. I valori in onore nell'aggregato sociale preso in esame sono:
i. L'attenzione alla qualificazione professionale, al capitale umano, all'innovazione e agli aspetti motivazionali, alla costruzione di relazioni anche in ambiente di lavoro;
ii. l'attenzione al territorio, la sensibilità verso una funzione diffusa e l'apertura verso l'internazionalizzazione;
iii. la mobilitazione continua delle competenze per fornire risposte concrete.
Questo nascente capitalista personale fa parte, secondo l'autore, di un più vasto blocco sociale che comprende i lavoratori autonomi delle professioni liberali e di tutti gli altri settori, i giovani che, con un eufemismo, continuano ad essere chiamati atipici, coloro che lavorano nelle attività di intrattenimento, i lavoratori della conoscenza in senso lato e gli operatori del terzo settore. Tutte persone, che al di là dell'attività svolta, si qualificano come "imprenditori di se stessi." Si tratta di una trasversalità che taglia più fasce sociali, che è espressione di un unico cambiamento "quello che riguarda il lavoro e l'economia nel loro insieme".
Penso che la visione antropologica dell'autore lo porti ad ampliare troppo il bacino dei soggetti interessati. Così sottovaluta ad esempio il fatto che solo una parte dei collaboratori occasionali e a tempo determinato svolge una mansione professionalmente ricca e possa considerarsi "imprenditrice di se stesso", e che una parte grandissima non ha invece tali caratteristiche. In questi casi, assai numerosi, non si ha a che fare né con la modernità né con il toyotismo ma con vecchi fenomeni di sfruttamento che è inutile rivestire di lustrini.
Questa estrema varietà e anche contraddittorietà delle figure sociali interessate impedisce di affermare che si è di fronte ad una ben definita classe sociale, per cui mentre esiste una certa contiguità con la classe dirigente, non esiste con essa un rapporto organico. Se non quello che permette di vedere in questo magma sociale una possibile nuova classe dirigente in formazione, nonché un processo attraverso il quale le attuali classi dirigenti pescano "dal magmatico bacino della neoborghesia". Penso anche che una parte di questo magma sociale, non necessariamente la migliore, riesca già ad esprimersi politicamente per via diretta o indiretta. Ma non è che descrivendo e alimentando una lista delle attività economiche e aggiungendovi magari anche quelle fuori mercato si possa disegnare un profilo sociale e tanto meno politico dell'Italia in formazione. Né che sia possibile risalire dai mutamenti antropologici in atto alla concretezza delle figure sociali ed economiche che rispondano ai requisiti di una neoborghesia. Lo stesso autore è costretto ad ammettere che "il concetto di neoborghesia sarà anche più evocativo che descrittivo di una realtà sociale, più impressionistico che empiricamente fondato, ma i neoborghesi in carne e ossa esistono". Ma aggiunge che la varietà interna di questo aggregato impedisce di ipotizzare "che si sia in presenza di una nuova classe sociale a tutto tondo". Il che ci riporta all'interrogativo iniziale: chi sono costoro?
C'è un'altra via complementare di indagine che l'autore descrive efficacemente, anche nel successivo testo di cui parleremo tra poco: quella del contesto socio economico in cui agisce questa nuova figura per ora sfuggente. Bonomi definisce questo contenitore una geocomunità, al quale va aggiunto il processo di terziarizzazione dell'economia. Superando la precedente visione dei distretti industriali, le attività economiche per sopravvivere e competere debbono ora misurarsi con la globalizzazione del mercato (sempre piuttosto asimmetrica e non valida per tutte le attività), con le nuove possibilità fornite dagli strumenti di comunicazione (le reti lunghe) ed essere capaci di riferirsi e di giovarsi delle opportunità territoriali. "In sostanza, la geocomunità è un'area territoriale di dimensioni tali da giustificare l'erogazione di funzioni strategiche da parte di una pluralità di attori che condividono l'obbiettivo di perseguire lo sviluppo di quel territorio." Il che porta questi attori a mettere al centro delle proprie preoccupazioni le relazioni, i contatti, la comunicazione. In altre parole, è il capitale sociale il patrimonio che questi soggetti cercano di mettere a frutto.
L'autore ripercorre poi empiricamente quelle che definisce la tracce della neoborghesia: medie imprese (che non rivoluzionano però la vocazione della nostra industria), il management bancario (il che suscita qualche perplessità, considerandone il persistente atteggiamento burocratico e non innovativo), i cosiddetti padroni dei flussi (intrattenimento, logistica), le Internet companies (per le quali vale più che per altre attività la centralità della persona), le imprese sociali ("una funzione sociale diffusa cui partecipano le diverse sfere d'azione": mercato, terzo settore, amministrazioni locali, e così via).

Terzo percorso

Il capitalismo personale

La nozione di capitalismo personale e quella corrispondente di capitale sociale, sembrano in questa fase tra i criteri interpretativi che meglio riescono a dare conto della fluidità economica e sociale esistente, almeno per quanto riguarda (seppure non esclusivamente) il nostro paese. Come abbiamo già visto, si tratta di un passaggio da un vecchio e consolidato modo di produrre, di organizzare, di lavorare (il fordismo) al postfordismo (al toyotismo, se vogliamo). Con un'avvertenza, però: che tutto questo spostamento dell'attenzione sugli aspetti più immateriali delle risorse e della ricchezza non faccia dimenticare che il denaro (il capitale capitale) rimane il postulato. Capitale umano, capitale relazionale o capitale organizzativo sono perciò altrettante specificazioni di un tentativo di meglio cogliere i circuiti della valorizzazione e i presupposti del successo imprenditoriale.
Il libro dei due autori, Aldo Bonomi e Enzo Rullani si basa su una vasta attività di ricerche empiriche. Rullani, in particolare, insiste molto nelle sue analisi e nei suoi lavori sul cambiamento radicale che è avvenuto nel passaggio dal fordismo al postfordismo e mette, anche altrove, l'accento sul fatto che oggi in Italia ci sono venti milioni di persone che vivono in un sistema anarcoide e altri venti fermi in un sistema iperbloccato. Dove del sistema bloccato farebbe parte il lavoro nel settore pubblico e nelle grandi imprese, come anche nel sistema bancario. E dove i diritti fondamentali di continuare ad apprendere per tutta la vita per non rimanere tagliati fuori dal mondo e dal lavoro, di avere maggiore autonomia e più assunzione di responsabilità vengono radicalmente negati a favore di un comando burocratico. "Non c'è alcun diritto – aggiunge Rullani – a mantenere viva la propria professionalità". Tuttavia, prima di riprendere a parlare del libro debbo osservare che il sistema bloccato non riguarda solo il lavoro dipendente e che l'ottica dei nostri analisti è un po'troppo spostata sulla piccola impresa, per quanto essa sia fondamentale in Italia. Ne deriva che il giudizio complessivo che scaturisce dall'analisi rischia di essere discretamente distorto.
Vorrà pur dire qualcosa il fatto che gli iscritti agli ordini professionali riconosciuti sono cresciuti negli ultimi cinque anni del 9,5%. Si tratta di 1,7 milioni di iscritti che per definizione non sono certo ininfluenti nei meccanismi costitutivi del paese; ai quali vanno aggiunte le altre categorie che, pur non garantite da ordinamenti professionali, utilizzano anch'esse concessioni e protezioni pubbliche come se fossero un bene privato e gestiscono albi professionali di fatto o liste bloccate. C'è un'esplicita tendenza negli ordini professionali a chiedere addirittura la costituzionalizzazione dei loro diritti. Insomma, una specie di ritorno agli statuti comunali medievali. Faccio queste osservazioni perché nella ricognizione dei nostri due autori molte di queste attività e figure professionali risultano coinvolte, con un'evidente contraddizione, nel bacino da cui starebbe nascendo la neoborghesia. Vorrei anche ricordare che la tradizione di fondo della borghesia cosiddetta liberale è di esserlo per gli altri e non anche per i propri interessi. Basta riandare alle discussioni in proposito della fine Ottocento e del primo Novecento e ricordare che gran parte degli istituti di protezione dalla concorrenza nascono da lì (si veda il caso dei farmacisti).
Ora, per tornare al nostro libro, verso la sua conclusione si paventa il rischio che nella piccola impresa si continui "nella vecchia strada dell'imitazione, del learning by doing personale, della dipendenza dal sapere esterno, sapendo che essa frutterà sempre meno, per la presenza di concorrenti low cost che seguiranno la stessa strada." Credo che questa sia una delle chiavi critiche della possibili formazione di una neoborghesia, perché attraverso questa strada non si preparano scenari innovativi dell'ethos nazionale. Lasciamo stare la diatriba sul declino industriale e produttivo dell'Italia, al quale i due autori non prestano peraltro molto credito. Il fatto centrale è che una delle due condizioni suggerite perché la forza propulsiva del sistema possa dispiegarsi, consiste nell'alimentazione continua del capitale intellettuale di cui si può disporre (l'altra è la capacità di estendere la propria rete relazionale). Ma circa la prima condizione siamo al quasi-disastro.
Anche in questo libro, il capitalismo personale diffuso è il bacino "che vede le attività condotte in prima persona, cioè in forma autonoma dai lavoratori indipendenti e dalle piccole imprese, come le principali attività". È questo il cambiamento principale che avrebbe investito negli ultimi anni la società nazionale. La definizione di capitalismo personale parte dall'osservazione di un'evoluzione del costume (conseguente, contemporanea, precedente il toyotismo? comunque dalla crisi del fordismo) per cui la persona ha assunto un'importanza più grande come soggetto di diritti e come capacità di scelta. Ora, il concetto di persona è molto di più di quello di individuo, non è cioè un soggetto che agisce isolatamente, è un costrutto sociale. A partire da questa osservazione e respingendo l'interpretazione neoclassica dell'economia, i due autori osservano che "le persone [...] costruiscono il proprio futuro usando la tecnica, i prezzi, il calcolo razionale, invece di essere usate da questi automatismi." Il limite della teoria economica prevalente è che sorvola sulla persona concedendole al massimo un coefficiente (predeterminato), "di cui i prezzi e i calcoli terranno debitamente conto". Ma, proprio a partire dal superamento del fordismo l'ordine sistemico di cui esso era portatore, con la cancellazione e la subordinazione della persona ad un ruolo astratto deciso dall'organizzazione, diviene evidente il fatto che le persone "sono una rete sociale e cognitiva, che elabora collettivamente, interattivamente, convinzioni, progetti, decisioni." Bonomi e Rullani accusano la teoria economica moderna di aver cercato di costruire una macchina interpretativa deterministica, mentre "l'economia è una forma di vita".
Ma chi è il capitalista personale come soggetto che si sostituisce al capitalista astratto della teoria economica classica? Si tratta di un soggetto che:
i. investe denaro, tempo e attenzione su se stesso;
ii. assume un rischio collegato e per questo ha bisogno di autonomia;
iii. organizza la condivisione in rete delle conoscenze necessarie.
Debbo dire che, messa così, ci troveremmo oggi di fronte ad una popolazione pressoché maggioritaria di capitalisti personali. "Il capitalismo – aggiungono infatti gli autori – è entrato dentro di noi, attraversa le nostre singole persone". Ma questi capitalisti personali, per poter esistere, debbono poter utilizzare il capitale sociale. Attualmente, sono due le definizioni condivise di capitale sociale. Secondo la prima, ad approccio individualista, esso è "l'insieme dei legami sui quali una persona o un gruppo può contare per realizzare i propri obbiettivi" (Coleman). L'altra, lo definisce come "l'insieme di quel clima relazionale di fiducia, di appartenenza, di senso civico (civicness) che permette il buon funzionamento delle istituzioni e di progetti di tipo economico." (Putnam)
Per non ripercorrere troppo analiticamente gli esempi e le osservazioni del nostro testo, si può dire che i due autori condividano più la seconda definizione che la prima e che propendano per una politica economica e sociale che si sforzi di evitare che la definizione individualista prenda il sopravvento, con i suoi corollari di immobilismo sociale e di ereditarietà del capitale sociale (chi è nato "bene" e con le amicizie "giuste", ivi compreso il familismo amorale ...). Per esempio, il welfare diventa (deve diventare) "una risorsa abilitante che consente a milioni di persone di rispondere efficacemente alle esigenze produttive perché i servizi di welfare danno loro un retroterra adeguato alla copertura dei loro bisogni di base."
Insomma, la traiettoria che viene descritta va dal produttore personale, al capitalista personale, alla neoborghesia, ma non si tratta di una traiettoria lineare: ad ogni passaggio c'è chi ce la fa ad andare oltre e chi non ce la fa. Soprattutto a causa, se ho capito bene, di uno Stato concepito ancora sul modello fordista (servizi diffusi ma di scarsa qualità) e, anche, per il fatto che questi nuovi produttori non hanno elaborato una visione politica convergente in grado di proporre un nuovo patto di cittadinanza.
Quella italiana è una realtà in cui il capitalismo personale sarebbe di gran lunga prevalente, ma esso - osservano gli autori – non va più considerato un modo di produrre premoderno. Essa è piuttosto una variante della modernità, che può – a certe condizioni – essere persino vincente. Interessante poi (ma tutta da dimostrare), l'osservazione che il capitalismo personale sarebbe legato meno di altre forme allo Stato nazionale e che sarebbe perciò più consonante con la globalizzazione.
Naturalmente, Bonomi e Rullani non passano sotto silenzio le distorsioni esistenti che possono bloccare l'evoluzione del sistema verso l'approdo auspicato. Come quella della scarsità di capitale, aggravata dalla palla al piede di un credito gestito a favore della grande impresa e della finanza creativa, più che dell'innovazione e dell'iniziativa imprenditoriale. O come quella dell'insufficiente investimento nelle nuove conoscenze, una volta che sia stata avviata un'attività, che a me pare un problema di fondo assai serio. O, ancora una volta, come quella di uno Stato organizzato per competenze e livelli gerarchici di interventi, piuttosto che per obbiettivi, a cui corrisponde una generale irresponsabilità della burocrazia. Quest'ultimo fenomeno non riguarda peraltro solo lo Stato. Di recente c'è stata un'inchiesta sugli spropositati guadagni dei grandi manager nazionali, sia rispetto alla media del reddito italiano, sia rispetto ai corrispondenti livelli europei e, soprattutto, rispetto agli scarsi (e persino negativi) risultati ottenuti. Ma, se questa denuncia ha un fondamento, va anche detto che il problema principale non è rappresentato da qualche decina o centinaia di superpagati (magari con le sciagurate stock options), ma dalle decine di migliaia di dirigenti, pubblici e privati, che a tutti i livelli debbono prendere delle decisioni e assumersi delle responsabilità e che non sanno fare di meglio che attendere istruzioni da un altro livello decisionale, di avere il "pezzo di carta" che li autorizzi e li copra.
La lista delle cose che non vanno è talmente lunga che le tesi contenute nel libro, alla fine, somigliano ad un grido di dolore. Il punto è, per dirne uno, se e in quale modo l'accresciuta e positiva domanda di autonomia che emerge prepotente dalla nuova fase della modernizzazione potrà trovare uno sbocco positivo, superando la concezione storica dello Stato burocratico, il blocco delle rendite di posizione, la cultura religiosa di fondo che nega l'autonomia della persona, l'insufficienza del capitale intellettuale. E quali sono i rischi, alcuni dei quali già evidenti, che la difficoltà di incanalare i processi verso uno sbocco corretto produrrebbe sul futuro politico e sociale del paese. Specialmente se frustrazioni e delusioni dovessero prendere il sopravvento. Ad esempio, un'alleanza, un blocco sociale tra vecchia borghesia, neoborghesia e fasce emarginate: una regressione e una contraddizione che non sarebbero una novità nella storia italiana.
Infine, se guardiamo il problema di cosa starebbe nascendo da un particolare angolo visuale - secondo me, significativo - oltre le generiche osservazioni dei nostri autori, ossia da quello della formazione, della ricerca e dello sviluppo tecnologico, balza agli occhi un'impressionante continuità tra vecchio e nuovo. Telefonini molti, miseria dell'innovazione, della formazione e della ricerca peggiorata ancora, se possibile. Per cui, temo che questa neoborghesia, se nascerà, non sarà diversa per qualità da quella che l'ha preceduta e non sarà capace di rimuovere i ritardi storici e culturali dell'Italia. Per carità, nessun determinismo da parte mia, ma vorrà pur dire qualcosa se secondo l'ultimo Word Report dell'UNCTAD (l'organizzazione dell'ONU per il commercio e lo sviluppo) le imprese italiane a controllo estero investono molto di più in ricerca di quelle a controllo nazionale.
Come può essere possibile che Irlanda, Belgio, Austria e tutti gli altri (ad eccezione della Grecia e del Portogallo) spendano più di noi in Ricerca&Sviluppo in rapporto alla produzione industriale e anche rispetto al PIL? Se poi controlliamo cosa è successo di recente in termini di incrementi annuali degli investimenti, l'Italia risulta ultima con lo 0.98. Per dire: Grecia e Portogallo, i due soli paesi europei che stanno peggio dell'Italia in termini di spesa, si sono dati da fare più di noi per ricuperare, con un aumento rispettivo del 10.52 e dell'11.92. Nell'ultimo decennio del nostro paese se c'è stato da tagliare e da risparmiare lo si è fatto anche con la formazione e la ricerca, quali che fossero i governi al potere.
Sono tre le componenti riconosciute del capitale intellettuale di cui il Paese si ritiene comunemente ricco: il capitale umano come conoscenza e abilità; il capitale relazionale, come rete di relazioni; il capitale organizzativo, come saper fare. Mi pare che ne stiamo largamente picconando, neoborghesia in formazione compresa, un larga parte. È questo il destino dell'Italia? E che razza di ethos nazionale farà da sfondo a tutto ciò?
Per concludere, debbo dire che sul testo dei due autori sarà necessario tornare. Non solo perché nella nostra scorribanda non abbiamo ancora trovato risposta alla domanda iniziale, ma anche perché nel libro sono contenuti numerosi spunti che meriterebbero di essere approfonditi.

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