... La storia umana non è ancora cominciata.
Luca Francesco Cavalli-Sforza
Ci stiamo muovendo verso una storia della vita
orientata dall'intelligenza e non dall'evoluzione.
Aldo Schiavone
Primo percorso - Allarme supercapitalismo
La prima citazione si riferisce al fatto che mentre l'umanità è
riuscita a sviluppare strumenti culturali e materiali straordinari che
hanno aperto nuove strade all'evoluzione naturale, il nostro agire nel
mondo e molti nostri quadri mentali sembrano appartenere ancora alla
preistoria.1 In altre parole, lo scarto tra la potenza tecnica,
economica e intellettuale raggiunta dall'umanità e l'assetto e i
caratteri delle ideologie del sistema economico, sociale, politico ed
etico dominante, è non solo diventato vistoso, ma rischia di condurci a
un disastro generale. La tecnologia di cui andiamo fieri può fare
molto, a certe condizioni, ma non sostituirsi alla nostra
(in)intelligenza o limitare la nostra rapacità suicida. Scienza e
tecnologia rappresentano un'opportunità straordinaria, forse la
speranza principale, sia per l'evoluzione delle specie umana, sia per
riuscire a governare e a rimettere sui binari giusti un treno (la
civiltà umana) che rischia di deragliare. Ma le condizioni necessarie
non sono attualmente soddisfatte dalla avidità e irresponsabilità del
sistema economico; d'altra parte, né la scienza né la tecnologia
possono surrogare assetti e rapporti di potere sociali ed economici,
per quanto contribuiscano a sconvolgerli profondamente.
Di fatto, le considerazioni circa il pericoloso scompenso esistente tra
potenza raggiunta e decisioni pratiche non sono più solo una
speculazione intellettuale o il mormorio di noiosi moralisti afflitti
dal solito pessimismo, ma il limite, il bivio su cui si trova
realisticamente il mondo attuale. Se, per continuare con le
osservazioni contenute nell'articolo di Luca e Francesco
Cavalli-Sforza, ci appropriamo in modo scriteriato di tutto ciò su cui
riusciamo a mettere le mani, "senza una visione dei possibili futuri
cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire"; se abbiamo
sviluppato sistemi di pensiero molto complessi e una progredita
concezione del mondo (che tuttavia convivono con idee e costumi
arcaici, se non spesso barbarici), tanto da non riuscire "ad evitare le
guerre"; "se i nostri sistemi economici mantengono in povertà è in
miseria metà dell'umanità"; se è vero tutto questo, quando "usciremo
dalle caverne?" e, soprattutto, faremo in tempo a uscirne e a quale
prezzo?
Se, per anticipare un'affermazione di Giorgio Ruffolo, "una civiltà che
pretende di abolire il limite è perduta, non solo perché non riconosce
i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce
il senso che solo il limite può attribuirle",2 allora, come vedremo, è
possibile che la civiltà umana sia vicina a qualcosa di più serio di
una crisi mondiale, preceduta o accompagnata o seguita da un periodo di
instabilità e di conflitti armati di cui non è possibile prevedere il
catastrofico esito, ma di cui fin da ora è possibile dire che si
tratterà per l'appunto di una catastrofe o, forse, di un
collasso, come teme un altro autore che esamineremo; comunque,
un prima e un dopo (fiduciosi che ci sarà un dopo)
destinato a segnare quella che gli storici definiscono una frattura
storica nel tempo profondo. Dove per tempo profondo non si intendono i
secoli o i millenni ma le ere.
Eppure, ci sono studi e autori che dubitano che "il tasso di
cambiamento tecnologico avrà il sopravvento su di noi", perché potrebbe
esistere un meccanismo di autoregolazione che pilota il nostro ingresso
nel nuovo. La tesi si appoggia soprattutto agli studi sulla complessità
e a un'interpretazione estensiva e originale dell'evoluzionismo.3 La
seconda citazione, tratta dal libro di Aldo Schiavone, il quale assume
un punto di vista evoluzionista sulla storia, potrebbe sembrare in
contraddizione con la prima, forse troppo pessimista, per quanto troppo
ottimista potrebbe essere considerata quella di Schiavone.4 In realtà,
si tratta dello stesso problema e della stessa visione, ma la prima
sottolinea la difficoltà che l'umanità ha davanti a sé, mentre la
seconda non l'ignora di certo, ma incita a guardare avanti, a renderci
attori coscienti e partecipi del cambiamento necessario, a non rimanere
spaventati e pietrificati di fronte al futuro. Schiavone si affida a
una interpretazione evoluzionistica dell'universo e della vita per
metterci nella prospettiva di quello che potremmo definire un mutamento
evoluzionistico dell'umanità, che sarebbe ormai incipiente (Kauffman lo
definirebbe un passaggio adiacente possibile). Esso
consisterebbe nella transizione "del controllo evolutivo della specie
dalla natura alla mente", ossia alla intelligenza tecnica e
scientifica. Se questo futuro può sollevare paure di scenari
inquietanti, si può confidare nel fatto che gli effettivi e i
potenziali disastri accaduti o incombenti nel Novecento (da ultima la
minaccia dell'olocausto atomico) sono stati un qualche modo superati, e
ciò – secondo Schiavone - vuol dire che la nostra evoluzione culturale
ha incardinato dentro di sé sufficienti anticorpi per riuscire a
superare anche la crisi incombente. È però un vero peccato che non sia
possibile prevedere alcunché nel campo della biologia evolutiva e
dell'evoluzionismo in generale, come vedremo discorrendo del suo libro.
Tuttavia, la peggiore reazione che potremmo avere (e in alcuni casi già
si ha), da questo punto di vista sarebbe quella di ancorarci a certezze
obsolete, perché ben conosciute, ma falsamente tranquillizzanti e
temere uno shock da futuro.
In tutti e due gli approcci ci troviamo comunque su una soglia, un
lìmine, un passaggio stretto, appunto, con la possibilità di superarlo
e di entrare in una nuova storia, lasciandosi alle spalle quella che
potremmo considerare una preistoria; ma anche con il contemporaneo
rischio di un naufragio, di essere rigettati al di qua della
soglia.
O fuori o dentro.
L'ostacolo che sta davanti a noi è il tempo: l'evoluzione culturale e
la velocità del cambiamento hanno talmente accelerato, l'espansione
umana ha raggiunto tali livelli e i loro effetti nel mondo in cui
viviamo (in tutti i sensi, ambientali e economico-sociali) sono così
radicali, che di tempo non ne abbiamo forse proprio più. Chi arriverà
prima? Il passo oltre la soglia oppure il ripiegamento? Il secondo
evento sarebbe un disastro che costerebbe lacrime e sangue, ma anche la
conquista del primo non sarebbe indolore. Le modalità con cui tutto ciò
potrebbe avvenire possiamo solo immaginarle nei nostri peggiori incubi,
non certo prevederle. Possiamo solo tentare qualche estrapolazione e
procedere sperando che alle opportunità e alle minacce si risponda in
modo razionale dal punto di vista del futuro dei popoli della Terra: ma
già questo atteggiamento rappresenterebbe una incerta e faticosa
conquista.
Eppure, se la cultura umana, così come l'evoluzione, ha la proprietà di
esplorare ogni possibilità, ci sembra arrivato il momento, prima che
sia troppo tardi, di riuscire a dare una riposta collettiva ai problemi
sollevati dall'unificazione del mondo in un'unica storia, se così
vogliamo definire il fenomeno della globalizzazione, per cui non c'è
rilevante scelta locale che non influenzi il quadro internazionale e
non c'è comportamento o decisione supernazionale che non cambi o
influenzi ogni angolo del mondo. Per riprendere un'intuizione di Willy
Brandt, ogni politica estera è divenuta, nell'epoca transnazionale, una
politica interna mondiale. Non esiste cioè una risposta ai problemi
attuali circoscrivibile nell'ambito delle sovranità nazionali e i
singoli paesi (o gli organismi supernazionali, come le multinazionali)
che tentano di farlo in realtà sequestrano la volontà, gli
interessi, le speranze di tutti gli altri e ne tradiscono le
aspettative. La nuova configurazione del mondo definisce le due nozioni
di globale e di locale, in cui si costruisce uno stretto
intreccio tra le due aree.
Insomma, di fronte a eventi geograficamente lontani o a scoperte o
azioni apparentemente remote nessuno può più dire: "non mi riguarda".
Non solo perché i media ne danno immediatamente un resoconto; non tanto
per un filosofico convincimento ancora circoscritto a una minoranza
cosmopolita di essere "cittadini del mondo", ma perché ne scopriamo, se
solo abbiamo la pazienza e la voglia di approfondire l'informazione, la
concatenazione degli effetti che determinano o condizionano il nostro
stato. Ma forse è vero quello che hanno scritto Wolfang Sachs e Tilman
Santarius che "sulla curva di apprendimento culturale dei popoli si
preannuncia ormai il passaggio alla fase di decentramento. Allargando
lo sguardo, il proprio punto di vista si innesta in un sistema di
referenze trasnazionale e comincia a includere la prospettiva di popoli
lontani".5
Anche per questo è necessario elaborare una nuova etica, una nuova
politica e, in primo luogo, un nuovo umanesimo che si lasci alle spalle
equivoci e distorsioni millenarie; insomma, è davvero urgente la
costruzione di quella che viene definita una terza cultura o
post-humanism.
Non è qui il caso di soffermarsi sulla definizione di cosa è la
globalizzazione, la quale racchiude diversi e contraddittori fenomeni e
che non è certo confinabile nel solo aspetto economico. Ma diamo per
scontato che essa rappresenta il carattere emergente di questa nuova
fase storica, per cui risulta quanto mai opportuno esaminarne alcuni
aspetti, cercando di individuare almeno alcuni degli ostacoli o delle
contraddizioni più gravi che, se non risolte e superate, potrebbero
segnare il limite dell'attuale civiltà umana. Con un'avvertenza, e cioè
che a seconda delle prospettive da cui lo si guarda, lo si pratica e lo
si subisce, si tratta di un fenomeno dalle configurazioni molto
diverse. Per esempio, dal punto di vista della conclamata libertà di
commercio, che produrrebbe un generale incremento della ricchezza,
a seguito di un enorme sviluppo degli scambi, gli studi e le
rilevazioni statistiche ci ricordano che la stragrande maggioranza
delle transazioni avviene ancora tra i tre poli dell'Europa, degli
Stati Uniti e del Giappone. A questo dato occorre aggiungere che i due
terzi delle transazioni globali vengono svolte tra le multinazionali (i
cosiddetti global players) e metà di esse tra le loro sedi
sparse in tutto il mondo. In buona sostanza "i flussi del commercio
mondiale [...], nel complesso, seguono il seguente modello: i ricchi si
scambiano tra loro merci pregiate, i poveri e i ricchi si scambiano
merci di minor valore monetario e i poveri quasi nulla". Ma c'è anche
un problema interno ai paesi più ricchi, per cui "ogni paese è
suddiviso in ricchi globalizzati da un lato e poveri locali dall'altro,
anche se le proporzioni variano".6 D'altra parte, il problema per i
paesi poveri non è quello di essere esclusi dalla globalizzazione, come
ha sottolineato Amartya Sen in un suo saggio, ma quello di esservi
inclusi e in modo non passivo, così da poterne cogliere i frutti,
distribuiti in modo equo.7
La cosa terrificante è che, nel complesso e in rapporto alle
prospettive di crescita, il pensiero e le forze dominanti della
globalizzazione non sono in grado, se rimarranno nella loro attuale
configurazione economica e politica, di garantire un futuro della
civiltà, perché le risorse fisicamente disponibili non sono in grado di
sostenere per tutta l'umanità un livello di benessere equivalente a
quello dei paesi più ricchi e dei ceti medi. Tra le espressioni più
efficaci che descrivono la situazione attuale, scegliamo quella di S.
Latouche (autore che per altri versi criticheremo): "Dove andiamo?
Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza
marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i
limiti del pianeta".8
Il dramma è che continuano a ripetere e ad agire senza pensare alle
conseguenze, e a far credere che sia possibile estendere su scala
mondiale, e per tutti, la stessa traiettoria, magari accelerata, che ha
visto nei due secoli precedenti lo sviluppo industriale dell'area
euroatlantica. Semplificando un po', nel mondo si scontrano due
tendenze: l'una di carattere economico-finanziario, all'insegna della
competizione che non tollera regole e l'altra di carattere politico che
vede nella cooperazione e nel bene comune la strada della sopravvivenza
della civiltà. Come vedremo in un testo "si può affermare che i fautori
della globalizzazione politica guardano al mondo e vedono che ha un
mercato; i fautori della globalizzazione economica guardano al mondo e
vedono una società che è un mercato".9 Poi ci sono posizioni, che
consideriamo esotiche, che prospettano una retrocessione del
mondo nel localismo oppure quelle che fanno finta di attaccare le
ingiustizie della globalizzazione auspicando un ritorno al
protezionismo, ma perseguono nei fatti politiche di ridimensionamento
delle già ridotte capacità di intervento degli stati.
Ormai è abbastanza chiaro che la linea di tendenza è quella di
deprimere gran parte della classe media, (quella nei paesi del Nord è
stata già bloccata) a favore dei ceti più ricchi, cooptando nello
stesso tempo strati abbastanza ampi delle popolazioni dei paesi
emergenti e, in qualche caso, di quelli poveri. I numeri di questi
nuovi accessi a una condizione benestante possono impressionare e
essere proposti come la prova della linea vincente del mercato e del
libero commercio, che riusciranno a risolvere il problema dello
sviluppo su scala mondiale. Ma se si mette in relazione l'entità dei
nuovi grandi consumatori cosmopoliti, come li chiamano diversi
autori, con i numeri delle popolazioni interessate, si scopre che si
tratta pur sempre di minoranze e, nel caso dei paesi poveri, di
minoranze assai ristrette. Come scrivono gli autori del Rapporto del
Wuppertal Institut, "le vittime sacrificali nel presente sono il prezzo
da pagare per avere successo in futuro. Oggi i poveri devono soffrire,
affinché domani possa essere cancellata la povertà". È un vero peccato
che il trend non sia affatto questo e che, con l'attuale modello di
sviluppo, per raggiungere l'obbiettivo promesso sarebbe necessario
avere a disposizione le risorse naturali di sei pianeti come la
Terra.10 Si prospetta anche una fantascientifica emigrazione di massa
su altri improbabili pianeti? Questa fantasia è l'unica soluzione
concettualmente ammessa dai presupposti di partenza dei difensori del
libero mercato globale.
Intanto, il supercapitalismo egemone ossia il capitalismo
finanziario o neo-neocapitalismo, comunque lo si voglia definire, rende
falsa – se mai è stata vera in qualche fase della storia – l'equazione
mercato=democrazia.11
Se realizziamo che il mercato ideale è un'astrazione inesistente (lo
vedremo meglio in seguito); che l'economia preme perché la qualità di
cittadino e di consumatore si scindano a favore del secondo, in quanto
al capitale finanziario serve solo un consumatore e per questo è
fondamentale il controllo dei media; che, aggiungo, l'ideologia di
controllo sociale che accompagna una mercatizzazione universale
si basa, a seconda della circostanze, sulla paura oppure su una nuova
saldatura tra una visione regressiva della religione e il mondo, allora
il fenomeno del supercapitalismo appare il nocchiero di un
processo di globalizzazione che scontrandosi con i limiti naturali
dello sviluppo, con la finitezza delle risorse e con l'impossibilità di
risolvere per una via razionalmente politica gli enormi scompensi
sociali creati, sta andando verso il disastro. Per evitarlo, potrebbe
vincere la tendenza a mettere da parte la democrazia oppure sarà
proprio la messa in disparte della democrazia ad accelerare il
disastro. D'altra parte, come hanno mostrato le vicende degli ultimi
decenni, la necessità di garantirsi il controllo delle risorse
energetiche e delle materie prime spinge gli stessi stati democratici a
usare i mezzi militari. Temiamo che ciò avverrà sempre più di
frequente. Se, nel frattempo, la natura e le sue leggi
fisico-biologiche non ci avranno travolto. Più probabile appare uno
stretto intreccio tra i due fenomeni.
Le risposte finora immaginate sono da quelle più evanescenti alle più
radicali, dalle più ottimiste alle più pessimiste, passando per
proposte di aggiustamento o azioni che dovrebbero/potrebbero essere
risolutive. Dal punto di vista pratico, si va dalla fiducia acritica
nella possibilità della tecnica e della scienza di risolvere tutti i
problemi, alla credenza che gli assetti economici attuali siano in
qualche modo non solo eterni (il punto di approdo finale dell'umanità)
ma così vitali da contenere dentro di sé l'automatica possibilità di
superare ogni crisi. Non mancano proposte di aggiustamenti e di
interventi più o meno estreme, fino a una fuoriuscita radicale dal
sistema economico attuale, come quella prospettata dalla teoria della
decrescita.12 Dal punto di vista dell'approccio mentale, l'arco
delle riflessioni va dalle visioni apocalittiche a quelle che sfociano
nella speranza di una futura super-umanità. Nel corso delle letture
incontreremo alcune di queste posizioni.
Compito della politica dovrebbe essere soprattutto di partire da qui,
dai pericoli sommariamente delineati e di progettare un futuro per
tutti noi; ma non c'è, anche in questo caso, da essere troppo ottimisti
perché essa appare piuttosto come una subordinata dei processi in atto,
più dedita a cercare di capire come si governa il presente che a
preoccuparsi dell'incombente futuro. Perciò, se la politica perde
rilevanza non è per le banalità da chiacchiere da bar (sono tutti
uguali, e così via), ma perché, come sostiene Aldo Schiavone – "non
tocca contenuti essenziali", ossia sta perdendo la capacità di
anticipazione. Come ha scritto Ernst Bloch, "senza l'ipotesi che un
altro mondo è possibile non c'è politica, c'è soltanto la gestione
amministrativa degli uomini e delle cose".13
Sarà bene affrontare le domande fin qui sollevate partendo da una
visuale storica ampia, anche perché una delle caratteristiche della
cultura mercatistica dominante è di essere scarsamente interessata al
futuro ma anche attenta a non fornire prospettive critiche grazie alla
memoria del passato, di essere cioè confinata in un presente che si
spaccia per eterno. "Avvertiamo così – scrive Aldo Schiavone in
Storia e destino – che, insieme al futuro, stiamo perdendo il
passato, e con lui, il senso della storia".14 Stiamo pagando la
velocità dei cambiamenti indotti dalla tecnica, un fenomeno che "sta
alterando la memoria culturale e sociale, sollecitata a un continuo
oblio di sé, e sta restringendo a una contemporaneità sempre più breve
e contratta l'orizzonte degli eventi entro cui si blocca lo sguardo e
la coscienza della nostra epoca". Si tratta dell'equivalente del vivere
alla giornata, all'inseguimento del consumo e della realizzazione di sé
attraverso le cose, come vedremo anche con il libro Economia
canaglia di Loretta Napoleoni.15
Ma rallentare o, almeno, riorientare il sistema si potrebbe? Qui anche
le risposte sono diverse, molto spesso destinate a non poter essere
coniugate o comparate perché si riferiscono a piani diversi della
storia e dell'analisi, quando non si tratta di neoromanticismi tanto
consolatori quanto del tutto inermi o di epifenomeni elitari o di
rimedi forse peggiori del male.
I percorsi di lettura che suggeriamo iniziano con Giorgio Ruffolo e
continuano con alcuni testi da lui non utilizzati per la ricostruzione
storico-economica del processo di globalizzazione, ma alla fine, come
vedremo, le conclusioni saranno, con la scelta di un autore comune,
abbastanza convergenti con le sue speranze.
Secondo percorso - La mercatizzazione del mondo
Un libro di ampio respiro, quasi la sintesi di una vita di
esperienze e di elaborazioni economiche e politiche (l'autore è stato anche
ministro e deputato nazionale ed europeo), è
Il capitalismo ha i secoli contati di Giorgio Ruffolo
(Torino, Einaudi, 2008, pp. 295). Il titolo suonerebbe a prima vista
beffardo nei confronti di quelle teorie che nel Novecento davano per
imminente il crollo del capitalismo e, in effetti, l'autore, da sempre
riformista e non a parole, avrebbe tutti i titoli per togliersi qualche
sassolino dalla scarpa. Eppure, quell'espressione "secoli contati"
serve a tutt'altro, serve a dare una profondità storica ad un termine,
capitalismo per l'appunto, mai usato da Karl Marx, il quale
parlò solo di capitale. La ricognizione storica di Ruffolo
comincia da qui, dalla ricostruzione di un fenomeno, il capitalismo (o
meglio, i capitalismi) come categoria economico-politico-sociale che
non era nell'originario orizzonte marxiano ma che si è affermata in
seguito, come categoria falsamente compatta, oggetto di esaltazioni e
di maledizioni, passando attraverso un'invenzione che ha delle radici
antiche, quella del mercato.
Qualche dettaglio storico da approfondire, sacrificato al quadro
d'insieme, ma necessario per contenere il testo in una lunghezza
accettabile, non inficia la validità del saggio che si presenta
peraltro come un percorso intellettuale, un'avventura di ricerca che è
possibile ancora di più apprezzare grazie alla Nota
bibliografica finale; però un indice analitico sarebbe stato il
benvenuto. E poi, se debbo dirlo, apprezzo molto l'antipatia
dell'autore per Martin Heidegger e i suoi nipotini.
C'è un presupposto che guida la ricostruzione dell'autore e che
potrebbe suonare come una filosofia della storia, se non rappresentasse
l'osservazione conclusiva di un dato permanente in tutte le storie
delle civiltà: "senza la libertà individuale non c'è iniziativa e non
c'è innovazione". Si può cominciare dalla transizione dall'economia del
dono e del baratto ai primi sintomi dell'esistenza di un mercato,
passando per la rivoluzione agricola avvenuta nell'asiatica mezza luna
fertile, la Mesopotamia; per continuare con il miracolo greco e poi con
la costruzione dell'impero romano, il quale conobbe una forma di
economia di mercato lontana da quella moderna. E non tanto perché fosse
in uso la schiavitù, la quale – come vedremo – prospera illegalmente
nell'attualità del supercapitalismo, ma perché l'economia romana non
era orientata al reinvestimento dei profitti e perché esisteva
"l'impossibilità di trarre da un mercato del lavoro le risorse
necessarie per l'accumulazione". Qui, osserva l'autore, è stato il
colpo da maestro del capitalismo moderno, la capacità di trasformare in
merce non gli uomini (schiavizzandoli), ma il loro lavoro "estratto da
esso e venduto sul mercato, dove può essere utilizzato razionalmente
estraendone un surplus".
Poi, dapprima con quello che lo storico Braudel ha chiamato il
mercato entro le mura, per quanto riguarda il Medioevo, e in
seguito con la civiltà mercantile italiana e europea si è preparato il
passaggio al capitalismo moderno, il quale è nato "dalla fusione delle
nuove tecniche con i nuovi mercati" dei capitali. "È da questa fusione
– aggiunge Ruffolo – che si realizza solo in Occidente, che esso trae
il suo potere di mercato e la sua superiorità su tutto il resto
del mondo".
Il capitolo dedicato al lungo primato italiano non è destinato
alla solita rivendicazione di un primazia italiana o a una capziosa
ricostruzione storica sulle precedenze del protestantesimo o del
cattolicesimo nel tenere a battesimo la nascita del capitalismo, ma a
fissare la concreta successione dell'evoluzione capitalistica che ha
attraversato l'Europa e a individuare i due modelli principali di
riferimento, Genova e Venezia.16 Nel caso italiano, quel che è accaduto
"perché si possa parlare a pieno titolo di capitalismo, è la mancanza
della sua base: il potere politico dello Stato. Solo nel secondo ciclo
egemonico europeo l'Olanda, pur restando vicina al modello della
città-Stato, tenterà e in gran parte riuscirà a colmare questa lacuna".
Concordiamo con l'autore che "il ciclo economico che meglio rispecchia
il modello ideale di capitalismo non è, come spesso si crede, quello
britannico, ma proprio quello olandese, che più fedelmente rispecchia
l'autentico spirito borghese". Un modello che è riuscito a fondere la
strategia politica di origine veneziana con quella di stampo
prettamente economico genovese.17 Con in più, una tolleranza religiosa
del tutto inusuale per quei tempi, così da attirare l'immigrazione
ugonotta, giansenista, puritana ed ebrea, che ne accrebbe la
prosperità. Ma l'autore avrebbe potuto citare anche l'intelligenza
italiana, in fuga dall'asfissiante Inquisizione cattolica.18
È con l'avvento dei grandi stati territoriali, dopo l'egemonia spagnola
la cui aristocrazia dissipò un enorme patrimonio, fornendo nello stesso
tempo "un caso di scuola di resistenza al cambiamento", che la
rivoluzione industriale incipiente favorita dall'espansione coloniale,
produsse una fase nuova del fenomeno capitalistico. Anche l'espansione
coloniale, con le sue crudeltà e i suoi orrori che mietettero milioni
di vite umane, rappresentò quell'autentico spirito borghese di
cui sopra. Ruffolo rimane giustamente interdetto di fronte al silenzio
olandese del tempo sulle carneficine che si andavano compiendo: il
silenzio "non solo dei mercanti, dei marinai e dei soldati: dei
generali e dei politici. Ma anche di tanti intellettuali umanisti,
letterati, pittori, filosofi e poeti che hanno fatto la grandezza
culturale di questo piccolo paese". Qui e altrove l'autore mette poco
in evidenza, però, il ruolo negativo svolto dalla Chiesa, specialmente
nel caso spagnolo, se si eccettua una critica alla tolleranza e al
diretto sfruttamento della schiavitù da parte della stessa Chiesa
contenuti in un riquadro. Si potrà obbiettare che, all'epoca, la
schiavitù era ritenuta un fatto naturale; ma questo dimostra
solo la fallacia e la caducità dell'idea di ciò che si considera
naturale, concetto a cui la Chiesa ama spesso appigliarsi,
nonostante la sua origine culturale e non dato una volta per tutte.
Con l'egemonia britannica, si passa dalle città-stato alle nazioni. Il
ciclo egemone inglese è il frutto delle macchine e dei diseredati
rovesciatisi nelle città, disposti a vendere a basso prezzo le proprie
braccia, dopo la chiusura da parte dell'aristocrazia delle terre
comuni. Con la Gran Bretagna si assiste a una ulteriore evoluzione del
capitalismo che dall'economia-mondo si trasforma in economia
mondiale. Ma assieme alle masse di lavoratori dequalificate cresce
anche e si emancipa quella classe media che, sostituendosi
progressivamente all'aristocrazia, fornirà il nerbo della potenza,
anche militare, britannica. L'autore riporta un lungo passo dei diari
di viaggio di Daniel Defoe perché in pochi frasi si riassume davvero il
senso di questa potenza sociale che diventa potenza economica e
militare:
"Questa è gente che si prende il grosso del vostro consumo; è grazie a queste persone che i vostri mercati restano aperti fino a tardi il sabato sera [...] il loro numero non è nell'ordine delle centinaia o delle migliaia, o delle centinaia di migliaia, bensì dei milioni; ed è grazie al loro numero, badate bene, che tutte le ruote del commercio procedono a dovere, che la manifattura e il prodotto della terra e del mare viene finito, conservato e preparato per i mercati esteri; è grazie all'entità dei loro mezzi che si sostengono e all'entità del loro numero che l'intero paese si sostiene; è grazie ai loro salari che la gente può vivere nell'abbondanza e grazie al loro prodigo, munifico e libero modo di vivere che il consumo interno, sia di prodotti interni che di quelli esteri, è giunto a tali dimensioni".
Una lezione che il supercapitalismo attuale sembra aver
dimenticato. Naturalmente, Ruffolo non sottace l'altra faccia della medaglia,
quella di un processo di industrializzazione feroce e disumano, su cui
possediamo un'abbondante documentazione.
Al ciclo britannico è seguito quello che è stato chiamato il secolo
americano. Vi torneremo sopra più volte nel corso di questi
Labirinti, considerando che il suo esito coinvolge l'immediato futuro
del mondo. Nella sua rapida rassegna del Novecento l'autore prende in
particolare esame due momenti.
Il primo è la terribile crisi del '29 che fece seguito all'ennesima
sbornia da mercato sregolato, esaltato dai più acuti (si fa per dire)
mentori del liberismo, e dalla quale gli Stati Uniti uscirono in parte
grazie all'intervento regolativo del New Deal roosveltiano. Ma
l'economia americana fu ristabilita davvero dalla guerra, così come il
riarmo aveva aiutato la Germania ad uscire dalla crisi. "Una
conclusione amara ma inevitabile – scrive Ruffolo – particolarmente
pesante per i sostenitori dell'autoregolamentazione dei mercati". Il
secondo momento riguarda la vittoria ottenuta nella Seconda guerra
mondiale contro il nazifascismo, che ebbe un esito diverso dall'inutile
pace di Versailles seguita alla Prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti,
pur salvaguardando ovviamente i propri interessi, riuscirono a
delineare un ordine mondiale più stabile e, per quanto possibile, più
equo, con la costruzione di un sistema economico e monetario
internazionale. In più, attraverso il Piano Marshall aiutarono
vincitori e vinti dell'area occidentale a risollevarsi dalla catastrofe
della guerra, permettendo anche a se stessi una transizione controllata
da un'economia di guerra a una di pace e consolidando le democrazie
alleate al potere. Insomma, permettendo il successivo avvento di quella
che lo storico Eric Hobsbawn ha definito l'età dell'oro.
L'autore sottolinea giustamente come le decisioni americane del tempo
furono lungimiranti perché "perseguivano al tempo stesso l'interesse
proprio e quello della collettività". Una lungimiranza che, come
vedremo in seguito, sembra aver abbandonato del tutto i gruppi
dirigenti americani e il supercapitalismo.
L'ultimo scorcio del Novecento, con la fine dell'Unione Sovietica e dei
regimi dei paesi collegati, e quelli che sono stati definiti i
ruggenti anni novanta, ci introducono direttamente alla rivoluzione
informatica e delle telecomunicazioni, al processo di liberalizzazione
del movimento dei capitali, preceduto dallo sganciamento del dollaro
dall'oro, presupposto necessario per gli Stati Uniti della possibilità
di non tenere più conto del limite esterno della bilancia dei
pagamenti, al pompaggio forzato di risorse effettuato attraverso le
enormi spese militari.19
Nella situazione venutasi a creare con l'avvento della globalizzazione,
che Giorgio Ruffolo giudica alla lunga insostenibile, tre ssabbero gli
scenari di un possibile futuro. Il primo postula la trasformazione
dell'egemonia americana in un aperto dominio di tipo imperiale (una
soluzione peraltro teorizzata, osserviamo, da alcuni circoli della
destra ancora al potere negli USA). Il secondo prospetta la creazione
di un nuovo ordine mondiale non egemonico, multipolare e cooperativo.
Il terzo prevede il caos e un'età di torbidi, sotto qualsiasi forma
essi possano manifestarsi. Questa parte delle considerazioni
dell'autore si conclude con un'osservazione che rappresenta la
preoccupazione di fondo di questi Labirinti. Come vedremo, è possibile
disegnare anche altri scenari.
La guerra fredda con l'URSS è stata vinta grazie soprattutto a quello
che è stato definito il tapis roulant dell'economia: una
crescita esponenziale e un indubbio successo del capitalismo mondiale,
sia pure punteggiato da crisi. L'Unione sovietica e il suo pesante
sistema economico e politico non hanno retto di fronte all'innovazione
continua e alla mobilitazione di risorse e energie prodotte nel campo
del capitalismo di mercato. Ma ora, osserva Ruffolo, si pone un
problema molto serio: quella stessa crescita è messa "in forse da altre
nuove correnti che neppure l'iperpotenza americana è in grado di
governare". C'è ormai una situazione di ingovernabilità di sistema e un
limite delle politiche internazionali condivise che debbono per di più
confrontarsi con un gigantesco problema ambientale, con un
insostenibile sbilanciamento interno ed esterno nella spartizione delle
risorse e delle ricchezze, nonché con una instabilità creata dal
turbocapitalismo finanziario, i cui sussulti si propagano in tempo
reale in tutto il mondo.
Ruffolo mette però giustamente in evidenza il ruolo di moltiplicatore
della ricchezza mondiale giocato dal capitalismo, ad evitare i
rimpianti che talvolta vengono più o meno esplicitamente espressi
sul buon tempo di una volta. A conclusione di questa parte del
saggio, i due grafici riportati da Ruffolo sullo sviluppo esplosivo
della ricchezza umana negli ultimi due secoli sono impressionanti:20
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Eccezionale è stata l'impennata compiuta nel Novecento,
se si pensa che, ancora nei primi decenni dell'Ottocento, il reddito medio
nei paesi europei era pari a circa "il 90% del reddito medio attuale dei
paesi africani". Insomma, con il Novecento inizia l'ottovolante della
storia, tra il raggiungimento di traguardi umani impensabili e le
sanguinose tragedie del secolo, tra le vette raggiunte dalla conoscenza
e l'inferno di regimi dittatoriali, tra l'estensione dei diritti umani
e il manifestarsi di nuove schiavitù. Un'impennata della ricchezza
certo dovuta all'affermazione del capitalismo, ma anche al ruolo
giocato dai suoi antagonisti che l'hanno obbligato a civilizzarsi
almeno un po'. Ma se a Novecento inoltrato l'80% del prodotto mondiale
si concentrava nel ristretto gruppo dei paesi appartenenti all'OCSE
(anche se negli ultimi decenni c'è stata una riduzione del 2%), allora
bisogna rilevare che con gli ultimi due secoli "si è aperto il grande
varco della disuguaglianza", e gli estremi tra povertà e ricchezza si
sono allungati come non era mai prima accaduto nella storia.21 Un
fenomeno che non investe solo il rapporto tra paesi poveri e paesi
ricchi, ma anche e sempre di più le stesse società avanzate, come
abbiamo già osservato.
L'autore prende poi in esame i caratteri principali dell'attuale
situazione politico-economica, quella che egli definisce la
mercatizzazione del mondo, la quale rappresenta qualcosa di più
specifico del concetto forse troppo generico di globalizzazione.
Riassunti i capisaldi ormai abbastanza conosciuti, soprattutto di
carattere ambientale, che fanno concludere sulla insostenibilità del
sistema attuale e che vedremo più in dettaglio parlando di altri
autori, Ruffolo passa a esaminare le condizioni e i presupposti
dell'ampio processo di globalizzazione che ha investito l'umanità.
"Tra il 1970 e il 1989 un intero mondo scomparve": l'abbandono delle
regole di Bretton Woods che avevano ancorato il dollaro all'oro, la
liberalizzazione dei capitali e il crollo dell'URSS, mutarono il
panorama storico. Il ruolo che aveva avuto il sistema sovietico come
regolatore indiretto del sistema capitalistico e i contraccolpi di un
tale evento l'autore li sintetizza in questo modo: "fu travolto anche,
all'interno dei paesi capitalistici dell'Occidente, quel fragile
compromesso keynesiano tra il mercato capitalistico e lo Stato
nazionale che, a completare la pace fredda, aveva garantito una pace
sociale all'interno". Il che è come dire che, cessata la minaccia
comunista, il capitalismo si è liberato di quell'insieme di regole
educatrici o civilizzatrici, politiche e sociali, che era
stato costretto a indossare dalle lotte delle classi subalterne,
riconquistando la piena espressione dei suoi spiriti animali
(animaleschi). Non c'è dubbio che questa interpretazione della storia
non sia tendenziosa se un vice presidente della Confindustria italiana
ebbe a dichiarare suo tempo che il welfare state era da considerarsi
superato, perché andava bene per opporsi allo "stato assolutista
marxista"; ma che ora, cessato il pericolo, si aprivano "spazi di
mercato enormi".22
Quel che veniva rimesso in questione era in sostanza il rapporto tra
capitalismo e democrazia. Riemergeva con forza una contraddizione
permanente che ha attraversato tutta la storia degli ultimi due secoli
e che ha trovato momenti e modi diversi di equilibrio: quella tra
uguaglianza politica e disuguaglianza economica, il cui sbilanciamento
oltre certi limiti rimette in questione la coesione sociale di un
paese.23 Ora, la disuguaglianza economica è arrivata a livelli mai
toccati in precedenza nella storia e la polarizzazione tra i due
estremi, con un effetto "a pera", per cui la parte bassa delle società
si sta ingrandendo e la parte finale del picciolo si sta allungando, ha
raggiunto distanze non relative, a rischio di secessione
sociale, come scrive Ruffolo. Riprenderemo questo problema nel
corso di questi Labirinti. Intanto, va sottolineato che questa società
dei quattro quinti, in cui un quinto della popolazione è in
grado di requisire la gran parte della ricchezza e di controllare mezzi
di comunicazione, potere di impresa e di stato costituisce "l'immenso
pericolo incombente sulle democrazie moderne; che fa di un processo di
esclusione dagli strumenti di conoscenza il punto di forza di un ceto
politico professionalizzato e di un élite di tecnici separati e
contrapposti al resto della società civile, ai miliardi di nuovi
analfabeti che rischiano di popolare le società della
globalizzazione".24
Liberati dagli intralci regolamentari, favoriti dall'emersione delle
tecnologie digitali e dalla rivoluzione dei trasporti, i capitali si
muovono in tutto il mondo, diventano vaganti, sganciati, ci
ricorda Ruffolo, da quella concezione di Ricardo e Smith (due classici
del libero mercato!) che considerava il capitale come "un pezzo della
comunità, con le sue tradizioni, le sue appartenenze, le sue
idiosincrasie". Ma questo turbocapitalismo, che non conosce
frontiere e regole etiche, travolge anche il contenitore che negli
ultimi tre secoli ha permesso la sua affermazione: lo Stato nazionale.
Emergono soggetti che non rappresentano una novità degli ultimi anni,
ossia le grandi compagnie multinazionali o transnazionali, le
Corporations, ma che nella nuova situazione trovano campo libero
per la loro sovranità senza territorio, "più simili agli Stati della
politica – osserva Ruffolo – che alle imprese del mercato". Come le
grandi compagnie mercantili coloniali del Settecento, che arrivarono a
possedere interi paesi (si pensi all'India, possesso privato della
Compagnia britannica delle Indie fino ai primi decenni dell'800), le
nuove Corporations conservano un rapporto collusivo con il loro
paese di origine che diventa una specie di retrovia necessaria, una
base raramente disturbata dallo Stato-nazione. Vedremo in seguito di
quali altre collusioni siano capaci le multinazionali.25
Ma il problema principale, dal nostro punto di vista, è che le
Corporations "di diverso, rispetto agli Stati, hanno un aspetto
essenziale: l'assenza di legittimazione politica, il che aumenta il
grado di arbitrarietà del sistema nel suo complesso". Un tema di
portata immensa, uno di quelli, come vedremo nella parte conclusiva del
saggio di Ruffolo, su cui si gioca il futuro, anche se il problema
della democrazia economica tende oggi a essere accuratamente
oscurato.26
Il processo di privatizzazione avviato negli anni settata del secolo
scorso all'epoca di Reagan e della Thatcher ha avuto effetti precisi
sugli assetti e sulla distribuzione della ricchezza sociale. In
precedenza, era stato raggiunto un compromesso tacito o esplicito, a
seconda dei paesi, su una politica dei redditi che ridistribuiva su
salari e capitali gli aumenti di produttività. A partire dall'offensiva
conservatrice la cui onda lunga ancora continua "i salari hanno segnato
sostanzialmente un ristagno, mentre i profitti raddoppiavano".27 Al
tempo stesso, osserva l'autore, sono crollati alcuni miti. Per esempio
quello del "sogno americano" della mobilità sociale per cui chiunque,
purché dotato di voglia di lavorare e di tenacia, poteva salire nella
scala sociale ed economica: "l'America di oggi segna un grado di
mobilità che è il più basso di tutti i paesi capitalistici avanzati".28
Un fenomeno ben conosciuto da tempo, su cui persino il New York Times
ha scritto articoli di fuoco, ma che naturalmente i media tendono in
genere a occultare. Del resto, mentre la famiglia media americana ha
visto il proprio reddito scendere, l'1% degli americani più ricchi ha
beneficiato di notevoli tagli fiscali. Così come, sempre a proposito di
miti, c'è quello della privatizzazione della sanità. Negli Stati Uniti
il 18% della popolazione è privo di copertura sanitaria con un costo
complessivo dei servizi sanitari che tocca il 13-14% del Prodotto
interno lordo, mentre in Europa una sanità a copertura universale ne
impiega il 6-10%: tanto per rispondere agli sconsiderati e interessati
attacchi che puntano alla privatizzazione del settore, come risposta
all'eccesso di costi da burocrazia del settore, che pure esistono.
In buona sostanza, con l'ondata di privatizzazioni malguidate e
non selettive, in molti casi intenzionalmente mal guidate, a nostro
parere, gli Stati sono stati saccheggiati, con buoni affari da parte
dei privati. Qui andrebbe fatto anche un paragone tra le dimensioni
delle acquisizioni private in Occidente e le vere e proprie rapine
compiute nei paesi ex sovietici, con la copertura e l'impulso del Fondo
monetario internazionale; ma questo aspetto lo vedremo meglio parlando
del libro di Joseph E. Stiglitz.29
"La società non esiste" – così aveva dichiarato la signora Thatcher - e
così la mercatizzazione dell'intera società e, in seguito alla
globalizzazione, del mondo intero è dilagata con effetti sociali e
ambientali disastrosi. Un fenomeno che ha segnato persino un
cambiamento nel funzionamento profondo, se non addirittura nella natura
del capitalismo. Ruffolo mette in evidenza come si sia costituito un
blocco formato dagli azionisti di controllo e dai cosiddetti
executives, quelli, ci ricorda, che Karl Marx definiva i
funzionari del capitale. Egli pensava che, prima o poi, essi
avrebbero spossessato i capitalisti. Invece è avvenuta una fusione
economica e sociale che combina la rendita con i profitti, formando un
formidabile blocco di controllo. I casi e le analisi sono ben
conosciuti. Tanto per fare qualche esempio, la remunerazione dei
manager sono aumentate in modo esponenziale: nel 1974, negli USA gli
executivesguadagnavano circa 34 volte di più del salario medio
operaio, di recente sono arrivati a circa 150 volte. Del resto, anche
in rapporto al trattamento dei manager degli altri paesi, esiste una
vera e propria sindrome americana: il guadagno medio di un
executive è di 2,8 milioni di dollari annui, mentre quello
giapponese è di 300.000 dollari. Non sembra proprio possibile sostenere
che si tratti di differenze dovute alla bravura, tuttavia la tendenza
appartiene a tutti i paesi industrializzati. Per esempio, in Gran
Bretagna, "nella prima metà del 2006 lo stipendio medio dei dirigenti
ai vertici delle società sale del 28%, al contrario gli stipendi medi
settimanali degli impiegati scendono, con l'inflazione, dello
0,4%".30
In un recente articolo, Ruffolo è stato ancora più icastico: "Ma quali
sono le cause di questa mutazione? Fondamentalmente due. E hanno a che
fare non con la cattiva volontà, ma con la stessa struttura del
capitalismo oggi. La prima è l'eccezionale concentrazione della
ricchezza verificatasi nei paesi del capitalismo avanzato, e in specie
negli Stati Uniti, negli ultimi 30-40 anni. La seconda è la
liberalizzazione del movimento dei capitali. Quanto alla prima, in soli
dieci anni, tra il 1979 e il 1989, la quota di ricchezza americana
detenuta dall'1 per cento dei più abbienti è quasi raddoppiata,
passando dal 22 al 39 per cento. A metà degli anni '90 quell'1 per
cento della popolazione si era accaparrata il 70 per cento della
crescita realizzata a partire dalla metà degli anni '70. Nei successivi
dieci anni, dal 1990 ai primi anni del 2000, le grandi fortune
d'America si sono triplicate o quadruplicate (questi dati sono tratti
dal libro di Kelvin Phillips Ricchezza e democrazia, Garzanti).
Non si tratta più, come alcuni hanno osservato (vedi soprattutto Robert
Reich) di aumento delle disuguaglianze, ma di vera e propria
secessione.31
La cosa più scandalosa è che l'incremento esponenziale dei redditi di
chi governa le imprese è ormai del tutto sganciato dai risultati,
sicché è accaduto di frequente che in società portate sull'orlo del
fallimento i manager si si sono attribuiti ricchi premi, fringe
benefits e stock options.32 La cronaca economica e
giudiziaria degli ultimi anni è troppo fitta di casi per riportarli
qui; basterà ricordare la vera e propria rapina a mano armata
compiuta nei confronti dei piccoli risparmiatori nello scandalo della
Enron, per arrivare al tracollo immobiliare recente.33 In tutti i casi,
il capitale finanziario è diventato del tutto simile a un gioco
d'azzardo, al quale c'è una partecipazione di massa, ma le cui perdite,
alla fine, vengono coperte con le risorse pubbliche e pagate in prima
battuta dai piccoli risparmiatori, quelli che nel gergo borsistico
vengono definiti il parco buoi.34 Non crediamo che sia
particolarmente esagerato il giudizio che Serge Latouche dà sulla
dottrina economica neoclassica prevalente e sui manager delle
multinazionali, e non solo, che la mettono inesorabilmente in pratica,
passando attraverso la formazione delle business schools, vere e
proprie scuole di guerra economica. Questi strateghi "pensano
soprattutto a esternalizzare al massimo i costi [espressione anodina
per dire che li scaricano su altri] per farli ricadere sui
dipendenti, sui subappaltatori, sui paesi del Sud, sui clienti, sugli
stati e sui servizi pubblici, sulle generazioni future, ma soprattutto
sulla natura, diventata al tempo stesso fornitrice di risorse e secchio
della spazzatura".35
C'è da chiedersi come mai permanga un'acquiescenza delle classi medie a
processi che le stanno impoverendo, e non solo negli Stati Uniti,
magari facendole votare per quegli stessi che mettono in moto o
proteggono quei processi. La risposta di Ruffolo è che la ragione di un
tale comportamento autolesionistico sta "nel dissolvimento del blocco
sociale che si era costituito attorno alla classe operaia. Con quello
veniva a mancare un polo sociale antagonistico al capitalismo, mentre
si formava un nuovo blocco sociale capitalistico grazie al
coinvolgimento subalterno delle classi medie nelle fortune del grande
capitalismo, attraverso guadagni speculativi di borsa, il credito
immobiliare facile per i risparmiatori e l'accesso facile al credito
per i consumatori".36 L'indebolimento politico, economico e sociale
delle classi lavoratrici, d'altra parte, è facilmente spiegabile con
uno dei caratteri della rivoluzione post-industriale, la quale
"realizza in pieno, su scala mondiale, le conseguenze sociali della
mercificazione del lavoro. Le combinazioni perseguite dalle imprese
sono quelle che minimizzano costi e diritti del lavoro, ponendo in
concorrenza tra loro i lavoratori". In altre parole, entra sul mercato
forza-lavoro disponibile a costi molto più bassi e spesso priva dei più
elementari diritti.37 Riprenderemo più avanti questo aspetto del
discorso.
In effetti, non si potrebbe spiegare altrimenti l'acquiescenza delle
classi medie. Nel momento della massima tragedia nazionale, Bush
abbassò le tasse ai ricchi per rianimare la borsa, mentre preannunciava
la guerra. Sarebbe stato – commenta amaramente Ruffolo – come "un
improbabile Churchill che, invece di annunciare al popolo inglese ciò
che solo poteva offrirgli, lacrime e sangue, avesse deciso di esentare
i figli dei ricchi dal servizio militare, per indurli a finanziare la
guerra".
Il capitalismo – scrive l'autore, avviandosi verso le conclusioni – in
due secoli e mezzo ha comunque radicalmente e irreversibilmente
cambiato il volto del mondo, creando il 97% della ricchezza attuale
dell'umanità, come abbiamo visto nei due grafici precedenti. Nello
stesso tempo, ha saputo adattarsi a tutti i regimi politici, salvo
quello sovietico, per quanto – osserviamo – in questo caso si è parlato
di capitalismo di Stato, mentre sarebbero ancora da discutere i
caratteri del fenomeno cinese. Ma poiché, al contrario di quanto in
modo poco sensato hanno sostenuto alcuni, non esiste una infinita
sostituibilità delle risorse naturali, e nel mezzo secolo appena
trascorso "il mondo ha perso un quarto del suo suolo fertile e un terzo
del suo manto forestale, un terzo delle risorse del pianeta", per
evitare il disastro, occorrerebbe, sulla scorta delle elaborazioni e
delle proposte di alcuni economisti, "spostare lo sforzo produttivo
dalla produttività del lavoro alla produttività delle risorse naturali
(del capitale naturale)", raggiungendo così un nuovo punto di
equilibrio. Già, ma il fatto è – osserva Ruffolo – che di questo punto
di equilibrio il capitalismo non sa che farsene, perché "il suo
successo, misurato dal suo profitto, sta proprio nella capacità di
trarre dalle risorse naturali il massimo di produzione possibile".
L'unica possibilità – aggiunge – sarebbe quella di "una mutazione
culturale che farebbe del capitalismo uno strumento di sviluppo
equilibrato della società". Un nuovo compromesso su scala mondiale,
dunque, che può essere favorito solo da una nuova minaccia alla
perpetuazione dello stesso capitalismo. Questa minaccia potrebbe essere
rappresentata dal tracollo ambientale del pianeta, da una Terra avviata
verso l'inabitabilità, magari associata a immaginabili turbolenze, le
quali sono peraltro già iniziate con episodi o vere e proprie guerre
locali.
D'altra parte – sottolinea l'autore – l'ultimo faticoso accordo di Bali
raggiunto tra centottanta paesi, per quanto tutto da verificare e da
attuare, stabilisce per la prima volta il principio di una comune
disciplina, e non su principi astratti come quelli della
Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ma su obbiettivi concreti che
comportano investimenti e costi poderosi.38 Il che comporterebbe una
redistribuzione delle ricchezze del mondo dai paesi più ricchi a quelli
più poveri, in una sorta di nuovo piano Marshall di dimensioni
planetarie, ma che aprirebbe anche, ovviamente, un capitolo
strettamente collegato, quello della distribuzione della ricchezza
all'interno dei paesi avanzati, se le risorse che verranno
eventualmente messe a disposizione raggiungeranno dimensioni efficaci.
In altre parole, chi pagherà tutto ciò? In modo proporzionale alla
ricchezza goduta da ogni paese e in ogni paese, verrebbe
giudiziosamente da osservare.
Intanto, bisognerebbe cancellare un'intera tendenza decennale ad
abbattere la proporzionalità del prelievo fiscale, dimenticando anche
il vizio dei favori fiscali ai ceti più agiati e ai consumi più ricchi.
Poi occorrerebbe ristabilire una legalità che metta sotto controllo
anche l'economia canaglia, come vedremo; ma sarebbe anche necessaria
una mutazione dei valori materiali e dei comportamenti sociali oggi
prevalenti, alimentati tra l'altro da una pubblicità diventata davvero
insopportabile e irresponsabile.
Insomma, occorrerebbe una nuova mutazione del capitalismo, passando da
un'economia di pura competizione (corredata, all'occorrenza, dalla
rapina) a una economia associativa, e dallo Stato del benessere
(welfare state) alla welfare society. Si tratterebbe,
secondo Ruffolo, di passare dalla socialdemocrazia statalista alla
democrazia sociale. È un obbiettivo indubbiamente affascinante,
sul quale esistono studi, elaborazioni e esperienze che non è possibile
trattare in questo contesto e che comporta una vera e propria
reinvenzione del modo di governare, basato su due esigenze
fondamentali: l'autoamministrazione e la programmazione. Dove
quest'ultima rappresenta "il modo di ricongiungere i cittadini allo
Stato attraverso la comprensione trasparente delle sue finalità e la
possibilità di controllare con continuità impegni e risultati" e in cui
non si ripetano i vizi della burocratizzazione e della imposizione
autoritaria, basandosi invece sulla "categoria politica degli
obbiettivi e dei progetti". Ma c'è un corollario a tutto ciò o, se
vogliamo, una premessa, e cioè un cambiamento degli stili di vita dei
cittadini, a partire in primo luogo da quelli dei paesi maggiormente
consumatori. La domanda che viene subito in mente é: meno benestanti
individualmente?
C'è una linea di pensiero che nega questo esito e mette l'accento su un
modo diverso di consumare e di produrre, sulla sobrietà, insomma. A
patto di sostituire il paradigma della crescita come risposta
all'ampliamento del benessere nel mondo quello della decrescita,
che non vorrebbe dire tanto tornare indietro, quanto crescere o vivere
in modo diverso, soprattutto liberandosi della frenesia consumistica e
adottando nuovi indicatori socio-economici al posto di quelli meramente
quantitativi attualmente usati. Ci sono diverse interpretazioni della
decrescita, fino alle ipotesi più radicali, ma ne riparleremo
quando esamineremo due testi di Serge Latouche.39 In ogni caso, la
proposta presuppone l'affermazione globale di un ampio movimento dal
basso, che modifichi gusti, scelte e indirizzi di consumo,
condizionando il mercato e non facendosi condizionare dalla pubblicità
e dai poteri mediatici.
Si tratta, ammette Ruffolo, di trasformazioni non facili, che egli
correda di passaggi più dettagliati contenuti nel saggio. La loro
realizzabilità è affidata dall'autore non solo all'emergenza derivante
dalle nuove minacce incombenti ma anche a una prospettiva di fondo che
si riconosce nella fiducia nell'umanità e in un approccio
evoluzionistico. L'uomo – scrive l'autore - "rappresenta il punto più
alto di un processo simmetrico a quello della crescente entropia: il
processo dell'evoluzione", il quale contrasta la legge generale
dell'entropia attraverso la sua crescente autorganizzazione e con
l'affacciarsi dell'evoluzione culturale nella storia. Sono la
conoscenza e la scienza le speranze che coronano la possibilità
dell'intelligenza umana di sfuggire a una possibile autodistruzione,
non perché l'autore abbracci una visione scientista del mondo, ma
perché mentre nella produzione materiale l'umanità incontra dei limiti
fisici, nel campo della produzione delle idee e delle capacità ideative
non è possibile intravedere alcun limite, se non quelli che vengono
autoimposti dalla superstizione e dall'ignoranza.
Non si può che condividere questa speranza nel futuro, anche contro
quelli (e sono tanti) che ritengono il progresso tecnico contrario
all'umanità, invece di puntare il dito sul suo asservimento a una
logica di sfrenata accumulazione capitalistica. "Non è vero – conclude
l'autore, criticando in questo senso le teorie di Umberto Galimberti –
che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa
prescrive di fare tutto ciò che è profittevole", per cui il problema è
quello di metterla al servizio della conoscenza, piuttosto che delle
leggi di mercato.40 Una prospettiva affascinante, dunque, ma gli
interrogativi che rimangono aperti sono molti, né Ruffolo aveva
l'ambizione di dare una risposta esaustiva, ma piuttosto di indicare
una possibile direzione di marcia, nella quale il realismo delle
soluzioni è direttamente proporzionale all'entità delle minacce che
gravano sull'umanità. In altre parole, più la crisi sarà generale e di
vaste proporzioni, più le soluzioni che oggi appaiono irrealistiche
potrebbero diventare pratica necessaria di sopravvivenza.
Nel descrivere la struttura e le tendenze del turbocapitalismo,
Ruffolo sottolinea anche che uno dei problemi che l'umanità ha di
fronte è l'estensione e la vitalità della cosiddetta economia
criminale, diventata anch'essa globale. Non si tratta di una
questione secondaria, da catalogare solo tra i fenomeni di distorsione
del mercato o semplicemente come un problema di polizia, perché
economia legale e economia illegale risultano strettamente intrecciate
e, nello stesso tempo, in conflitto. Lo vedremo immediatamente con
l'inquietante saggio di Loretta Napoleoni. E, alla fine di questi
percorsi il lettore si chiederà, assieme a uno degli autori recensiti,
se la nozione ormai popolare di Stato-canaglia sia davvero
confinabile a quei governi usualmente considerati tali.41
Terzo percorso - L'altra faccia dell'economia
Loretta Napoleoni, ha scritto un libro sulla globalizzazione
dell'economia criminale che non esitiamo a definire impressionante,
Economia canaglia. <7i>Il lato oscuro del nuovo ordine
mondiale, Milano, il Saggiatore, 2008, pp. 310.42 L'autrice, residente
a Londra, è "tra i massimi esperti mondiali di terrorismo ed economia
mondiale". Editorialista di diverse testate, le sue competenze sono
utilizzate da alcuni governi occidentali, collaborando con numerose
forze dell'ordine. Tanto per dire che sa di cosa parla; le sue non sono
informazioni di seconda mano.
Gli scenari descritti dall'autrice si aprono con due fenomeni che
normalmente non vengono messi in correlazione. Il primo è rappresentato
dalla caduta dell'URSS, dopo di che "nello spazio di un decennio il
numero della nazioni democratiche nel mondo cresce da 69 a 118". Una
buona notizia insomma. Il secondo fenomeno non è invece una buona
notizia ed è commentato con un'affermazione forte che rappresenta il
motivo conduttore del libro: "la democrazia e la schiavitù non solo
coesistono, ma sono tenute insieme da quella che gli economisti
definiscono una correlazione forte". La ragione sta nel fatto che nella
grande trasformazione in corso dell'economia mondiale quella che
possiamo considerare "una forza oscura codificata nel Dna della nostra
società e sempre in agguato", un fenomeno endemico ossia l'economia
canaglia, ha approfittato di liberalizzazioni e processi di
globalizzazione per uscire allo scoperto, sfuggire a ogni possibilità
di controllo in mancanza di un governo e di una legalità internazionali
e per intessere inconfessati rapporti con l'economia ufficiale.
"Nessuno controlla l'economia canaglia" – scrive l'autrice
nell'iniziare l'esame dei fatti che sostengono le sua affermazioni. Ma,
quel che è peggio e che rappresenta il sintetico messaggio del libro è
che tra economia canaglia e economia ufficiale i collegamenti sono
definibili in molti modi, meno che sporadici. Le zone di
sovrapposizione e di intreccio, spesso con il classico gioco delle
scatole cinesi, incrociano le nostre attività di consumatori
inconsapevoli, in un flusso continuo di denaro e di merci in cui è
divenuto pressoché impossibile distinguere lo sporco dal pulito.
Nel periodo della Guerra fredda, a partire dal Piano Marshall,
l'Occidente, si chiude in un ordine che "per molti versi è l'opposto
della globalizzazione"; la minaccia comunista lo induce ad adottare "un
sistema economico fortemente regolamentato", ma la cui crescita e
vitalità - come abbiamo già detto – sono stati straordinari; tanto da
mandare in frantumi il blocco sovietico. Ma a pezzi, in modo speculare,
ci va anche il vecchio ordine occidentale. Le liberalizzazioni tolgono
agli Stati la possibilità di controllare i mercati, l'economia, non più
tenuta al servizio della politica "diviene una spregiudicata canaglia,
orientata esclusivamente al facile guadagno a spese dei consumatori".
Da qui in poi l'economia (quella canaglia e quella rispettabile) tiene
in scacco la politica.
Ma cos'è questa economia canaglia?
Si può cominciare dal sesso e dal suo mercato. Dalle strade del sesso
lungo i confini delle ex frontiere tra Est e Ovest, al cosiddetto
Mercato Arizona in un villaggio della Serbia nordoccidentale. Lì
migliaia di ragazze slave, adescate e ingannate, vengono spogliate,
palpate, valutate e vendute all'asta. Il racket "industriale" di questa
nuova forma di schiavitù è in mano alla mafia russa, ma non mancano
ceceni, europei e arabi. La prostituzione nei paesi ex comunisti c'era
anche prima, ma era molto circoscritta e limitata ai visitatori
stranieri. Il crollo politico economico dell'ex blocco sovietico,
quando la disoccupazione femminile in Russia raggiunge l'80% delle
donne (in grande maggioranza capifamiglia e monoreddito), le spinge
verso la prostituzione per dare da mangiare a figli e familiari.
"L'unica opzione per sottrarsi alla fame – commenta l'autrice – è
andare a letto con il nemico". E naturalmente le slave, provenienti da
un sistema scolastico eccellente e perciò colte oltre che belle "fanno
schizzare alle stelle la domanda". La cosa che non è molto conosciuta è
che uno dei maggiori importatori di prostitute slave è Israele, non
solo per motivi estetico-materiali (l'attrazione per donne alte e
bionde) ma soprattutto per motivi religiosi, a causa dei tabù vigenti
sul sesso tra gli ebrei ortodossi nei rapporti con le loro donne, che
ne fanno dei frequentatori abituali di prostitute: "le schiave del
sesso slave arrivano in Israele attraverso la Striscia di Gaza, con la
collaborazione di bande criminali egiziane e palestinesi che le guidano
attraverso le frontiere". Attraverso tunnel scavati sotto le frontiere,
utilizzati da trafficanti, spacciatori e terroristi, vengono consegnate
ai loro sfruttatori dell'altra parte. A livello criminale, una salda
collaborazione tra israeliani e arabi è una realtà
Il caso delle prostitute slave non è naturalmente isolato, dall'Africa
e ora anche dalla Cina e da altri paesi un flusso di nuove schiave
viene instradato verso i paesi industrializzati e controllato con i
mezzi più criminali e disumani. La rete si estende per tutto il mondo e
il suo punto terminale principale è nei paesi ricchi. L'intero sistema
è gestito dalle mafie, locali e internazionali, legate tra loro; un
affare che muove all'incirca 52 miliardi di dollari.43 Ma il caso delle
slave è per l'autrice emblematico di una trasformazione economica e
sociale avvenuta in assenza di un progetto, anzi, sotto la consegna di
non disturbare il mercato, sicché "intere nazioni sono precipitate
nella povertà e nell'anarchia, e nel vuoto di potere e di controllo
sociale si sono insinuati gli sfruttatori e i protettori della
globalizzazione". Siano essi veri e propri criminali violenti, siano
essi criminali in giacca e cravatta. Ladri, schiavisti e profittatori
tutti insieme.