17. Labirinti di lettura
I. In/out: sul lìmine della civiltà

... La storia umana non è ancora cominciata.
Luca Francesco Cavalli-Sforza

Ci stiamo muovendo verso una storia della vita
orientata dall'intelligenza e non dall'evoluzione
.
Aldo Schiavone

Primo percorso - Allarme supercapitalismo

La prima citazione si riferisce al fatto che mentre l'umanità è riuscita a sviluppare strumenti culturali e materiali straordinari che hanno aperto nuove strade all'evoluzione naturale, il nostro agire nel mondo e molti nostri quadri mentali sembrano appartenere ancora alla preistoria.1 In altre parole, lo scarto tra la potenza tecnica, economica e intellettuale raggiunta dall'umanità e l'assetto e i caratteri delle ideologie del sistema economico, sociale, politico ed etico dominante, è non solo diventato vistoso, ma rischia di condurci a un disastro generale. La tecnologia di cui andiamo fieri può fare molto, a certe condizioni, ma non sostituirsi alla nostra (in)intelligenza o limitare la nostra rapacità suicida. Scienza e tecnologia rappresentano un'opportunità straordinaria, forse la speranza principale, sia per l'evoluzione delle specie umana, sia per riuscire a governare e a rimettere sui binari giusti un treno (la civiltà umana) che rischia di deragliare. Ma le condizioni necessarie non sono attualmente soddisfatte dalla avidità e irresponsabilità del sistema economico; d'altra parte, né la scienza né la tecnologia possono surrogare assetti e rapporti di potere sociali ed economici, per quanto contribuiscano a sconvolgerli profondamente.
Di fatto, le considerazioni circa il pericoloso scompenso esistente tra potenza raggiunta e decisioni pratiche non sono più solo una speculazione intellettuale o il mormorio di noiosi moralisti afflitti dal solito pessimismo, ma il limite, il bivio su cui si trova realisticamente il mondo attuale. Se, per continuare con le osservazioni contenute nell'articolo di Luca e Francesco Cavalli-Sforza, ci appropriamo in modo scriteriato di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, "senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire"; se abbiamo sviluppato sistemi di pensiero molto complessi e una progredita concezione del mondo (che tuttavia convivono con idee e costumi arcaici, se non spesso barbarici), tanto da non riuscire "ad evitare le guerre"; "se i nostri sistemi economici mantengono in povertà è in miseria metà dell'umanità"; se è vero tutto questo, quando "usciremo dalle caverne?" e, soprattutto, faremo in tempo a uscirne e a quale prezzo?
Se, per anticipare un'affermazione di Giorgio Ruffolo, "una civiltà che pretende di abolire il limite è perduta, non solo perché non riconosce i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce il senso che solo il limite può attribuirle",2 allora, come vedremo, è possibile che la civiltà umana sia vicina a qualcosa di più serio di una crisi mondiale, preceduta o accompagnata o seguita da un periodo di instabilità e di conflitti armati di cui non è possibile prevedere il catastrofico esito, ma di cui fin da ora è possibile dire che si tratterà per l'appunto di una catastrofe o, forse, di un collasso, come teme un altro autore che esamineremo; comunque, un prima e un dopo (fiduciosi che ci sarà un dopo) destinato a segnare quella che gli storici definiscono una frattura storica nel tempo profondo. Dove per tempo profondo non si intendono i secoli o i millenni ma le ere.
Eppure, ci sono studi e autori che dubitano che "il tasso di cambiamento tecnologico avrà il sopravvento su di noi", perché potrebbe esistere un meccanismo di autoregolazione che pilota il nostro ingresso nel nuovo. La tesi si appoggia soprattutto agli studi sulla complessità e a un'interpretazione estensiva e originale dell'evoluzionismo.3 La seconda citazione, tratta dal libro di Aldo Schiavone, il quale assume un punto di vista evoluzionista sulla storia, potrebbe sembrare in contraddizione con la prima, forse troppo pessimista, per quanto troppo ottimista potrebbe essere considerata quella di Schiavone.4 In realtà, si tratta dello stesso problema e della stessa visione, ma la prima sottolinea la difficoltà che l'umanità ha davanti a sé, mentre la seconda non l'ignora di certo, ma incita a guardare avanti, a renderci attori coscienti e partecipi del cambiamento necessario, a non rimanere spaventati e pietrificati di fronte al futuro. Schiavone si affida a una interpretazione evoluzionistica dell'universo e della vita per metterci nella prospettiva di quello che potremmo definire un mutamento evoluzionistico dell'umanità, che sarebbe ormai incipiente (Kauffman lo definirebbe un passaggio adiacente possibile). Esso consisterebbe nella transizione "del controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente", ossia alla intelligenza tecnica e scientifica. Se questo futuro può sollevare paure di scenari inquietanti, si può confidare nel fatto che gli effettivi e i potenziali disastri accaduti o incombenti nel Novecento (da ultima la minaccia dell'olocausto atomico) sono stati un qualche modo superati, e ciò – secondo Schiavone - vuol dire che la nostra evoluzione culturale ha incardinato dentro di sé sufficienti anticorpi per riuscire a superare anche la crisi incombente. È però un vero peccato che non sia possibile prevedere alcunché nel campo della biologia evolutiva e dell'evoluzionismo in generale, come vedremo discorrendo del suo libro. Tuttavia, la peggiore reazione che potremmo avere (e in alcuni casi già si ha), da questo punto di vista sarebbe quella di ancorarci a certezze obsolete, perché ben conosciute, ma falsamente tranquillizzanti e temere uno shock da futuro.
In tutti e due gli approcci ci troviamo comunque su una soglia, un lìmine, un passaggio stretto, appunto, con la possibilità di superarlo e di entrare in una nuova storia, lasciandosi alle spalle quella che potremmo considerare una preistoria; ma anche con il contemporaneo rischio di un naufragio, di essere rigettati al di qua della soglia.
O fuori o dentro.
L'ostacolo che sta davanti a noi è il tempo: l'evoluzione culturale e la velocità del cambiamento hanno talmente accelerato, l'espansione umana ha raggiunto tali livelli e i loro effetti nel mondo in cui viviamo (in tutti i sensi, ambientali e economico-sociali) sono così radicali, che di tempo non ne abbiamo forse proprio più. Chi arriverà prima? Il passo oltre la soglia oppure il ripiegamento? Il secondo evento sarebbe un disastro che costerebbe lacrime e sangue, ma anche la conquista del primo non sarebbe indolore. Le modalità con cui tutto ciò potrebbe avvenire possiamo solo immaginarle nei nostri peggiori incubi, non certo prevederle. Possiamo solo tentare qualche estrapolazione e procedere sperando che alle opportunità e alle minacce si risponda in modo razionale dal punto di vista del futuro dei popoli della Terra: ma già questo atteggiamento rappresenterebbe una incerta e faticosa conquista.
Eppure, se la cultura umana, così come l'evoluzione, ha la proprietà di esplorare ogni possibilità, ci sembra arrivato il momento, prima che sia troppo tardi, di riuscire a dare una riposta collettiva ai problemi sollevati dall'unificazione del mondo in un'unica storia, se così vogliamo definire il fenomeno della globalizzazione, per cui non c'è rilevante scelta locale che non influenzi il quadro internazionale e non c'è comportamento o decisione supernazionale che non cambi o influenzi ogni angolo del mondo. Per riprendere un'intuizione di Willy Brandt, ogni politica estera è divenuta, nell'epoca transnazionale, una politica interna mondiale. Non esiste cioè una risposta ai problemi attuali circoscrivibile nell'ambito delle sovranità nazionali e i singoli paesi (o gli organismi supernazionali, come le multinazionali) che tentano di farlo in realtà sequestrano la volontà, gli interessi, le speranze di tutti gli altri e ne tradiscono le aspettative. La nuova configurazione del mondo definisce le due nozioni di globale e di locale, in cui si costruisce uno stretto intreccio tra le due aree.
Insomma, di fronte a eventi geograficamente lontani o a scoperte o azioni apparentemente remote nessuno può più dire: "non mi riguarda". Non solo perché i media ne danno immediatamente un resoconto; non tanto per un filosofico convincimento ancora circoscritto a una minoranza cosmopolita di essere "cittadini del mondo", ma perché ne scopriamo, se solo abbiamo la pazienza e la voglia di approfondire l'informazione, la concatenazione degli effetti che determinano o condizionano il nostro stato. Ma forse è vero quello che hanno scritto Wolfang Sachs e Tilman Santarius che "sulla curva di apprendimento culturale dei popoli si preannuncia ormai il passaggio alla fase di decentramento. Allargando lo sguardo, il proprio punto di vista si innesta in un sistema di referenze trasnazionale e comincia a includere la prospettiva di popoli lontani".5
Anche per questo è necessario elaborare una nuova etica, una nuova politica e, in primo luogo, un nuovo umanesimo che si lasci alle spalle equivoci e distorsioni millenarie; insomma, è davvero urgente la costruzione di quella che viene definita una terza cultura o post-humanism.
Non è qui il caso di soffermarsi sulla definizione di cosa è la globalizzazione, la quale racchiude diversi e contraddittori fenomeni e che non è certo confinabile nel solo aspetto economico. Ma diamo per scontato che essa rappresenta il carattere emergente di questa nuova fase storica, per cui risulta quanto mai opportuno esaminarne alcuni aspetti, cercando di individuare almeno alcuni degli ostacoli o delle contraddizioni più gravi che, se non risolte e superate, potrebbero segnare il limite dell'attuale civiltà umana. Con un'avvertenza, e cioè che a seconda delle prospettive da cui lo si guarda, lo si pratica e lo si subisce, si tratta di un fenomeno dalle configurazioni molto diverse. Per esempio, dal punto di vista della conclamata libertà di commercio, che produrrebbe un generale incremento della ricchezza, a seguito di un enorme sviluppo degli scambi, gli studi e le rilevazioni statistiche ci ricordano che la stragrande maggioranza delle transazioni avviene ancora tra i tre poli dell'Europa, degli Stati Uniti e del Giappone. A questo dato occorre aggiungere che i due terzi delle transazioni globali vengono svolte tra le multinazionali (i cosiddetti global players) e metà di esse tra le loro sedi sparse in tutto il mondo. In buona sostanza "i flussi del commercio mondiale [...], nel complesso, seguono il seguente modello: i ricchi si scambiano tra loro merci pregiate, i poveri e i ricchi si scambiano merci di minor valore monetario e i poveri quasi nulla". Ma c'è anche un problema interno ai paesi più ricchi, per cui "ogni paese è suddiviso in ricchi globalizzati da un lato e poveri locali dall'altro, anche se le proporzioni variano".6 D'altra parte, il problema per i paesi poveri non è quello di essere esclusi dalla globalizzazione, come ha sottolineato Amartya Sen in un suo saggio, ma quello di esservi inclusi e in modo non passivo, così da poterne cogliere i frutti, distribuiti in modo equo.7
La cosa terrificante è che, nel complesso e in rapporto alle prospettive di crescita, il pensiero e le forze dominanti della globalizzazione non sono in grado, se rimarranno nella loro attuale configurazione economica e politica, di garantire un futuro della civiltà, perché le risorse fisicamente disponibili non sono in grado di sostenere per tutta l'umanità un livello di benessere equivalente a quello dei paesi più ricchi e dei ceti medi. Tra le espressioni più efficaci che descrivono la situazione attuale, scegliamo quella di S. Latouche (autore che per altri versi criticheremo): "Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta".8
Il dramma è che continuano a ripetere e ad agire senza pensare alle conseguenze, e a far credere che sia possibile estendere su scala mondiale, e per tutti, la stessa traiettoria, magari accelerata, che ha visto nei due secoli precedenti lo sviluppo industriale dell'area euroatlantica. Semplificando un po', nel mondo si scontrano due tendenze: l'una di carattere economico-finanziario, all'insegna della competizione che non tollera regole e l'altra di carattere politico che vede nella cooperazione e nel bene comune la strada della sopravvivenza della civiltà. Come vedremo in un testo "si può affermare che i fautori della globalizzazione politica guardano al mondo e vedono che ha un mercato; i fautori della globalizzazione economica guardano al mondo e vedono una società che è un mercato".9 Poi ci sono posizioni, che consideriamo esotiche, che prospettano una retrocessione del mondo nel localismo oppure quelle che fanno finta di attaccare le ingiustizie della globalizzazione auspicando un ritorno al protezionismo, ma perseguono nei fatti politiche di ridimensionamento delle già ridotte capacità di intervento degli stati.
Ormai è abbastanza chiaro che la linea di tendenza è quella di deprimere gran parte della classe media, (quella nei paesi del Nord è stata già bloccata) a favore dei ceti più ricchi, cooptando nello stesso tempo strati abbastanza ampi delle popolazioni dei paesi emergenti e, in qualche caso, di quelli poveri. I numeri di questi nuovi accessi a una condizione benestante possono impressionare e essere proposti come la prova della linea vincente del mercato e del libero commercio, che riusciranno a risolvere il problema dello sviluppo su scala mondiale. Ma se si mette in relazione l'entità dei nuovi grandi consumatori cosmopoliti, come li chiamano diversi autori, con i numeri delle popolazioni interessate, si scopre che si tratta pur sempre di minoranze e, nel caso dei paesi poveri, di minoranze assai ristrette. Come scrivono gli autori del Rapporto del Wuppertal Institut, "le vittime sacrificali nel presente sono il prezzo da pagare per avere successo in futuro. Oggi i poveri devono soffrire, affinché domani possa essere cancellata la povertà". È un vero peccato che il trend non sia affatto questo e che, con l'attuale modello di sviluppo, per raggiungere l'obbiettivo promesso sarebbe necessario avere a disposizione le risorse naturali di sei pianeti come la Terra.10 Si prospetta anche una fantascientifica emigrazione di massa su altri improbabili pianeti? Questa fantasia è l'unica soluzione concettualmente ammessa dai presupposti di partenza dei difensori del libero mercato globale.
Intanto, il supercapitalismo egemone ossia il capitalismo finanziario o neo-neocapitalismo, comunque lo si voglia definire, rende falsa – se mai è stata vera in qualche fase della storia – l'equazione mercato=democrazia.11
Se realizziamo che il mercato ideale è un'astrazione inesistente (lo vedremo meglio in seguito); che l'economia preme perché la qualità di cittadino e di consumatore si scindano a favore del secondo, in quanto al capitale finanziario serve solo un consumatore e per questo è fondamentale il controllo dei media; che, aggiungo, l'ideologia di controllo sociale che accompagna una mercatizzazione universale si basa, a seconda della circostanze, sulla paura oppure su una nuova saldatura tra una visione regressiva della religione e il mondo, allora il fenomeno del supercapitalismo appare il nocchiero di un processo di globalizzazione che scontrandosi con i limiti naturali dello sviluppo, con la finitezza delle risorse e con l'impossibilità di risolvere per una via razionalmente politica gli enormi scompensi sociali creati, sta andando verso il disastro. Per evitarlo, potrebbe vincere la tendenza a mettere da parte la democrazia oppure sarà proprio la messa in disparte della democrazia ad accelerare il disastro. D'altra parte, come hanno mostrato le vicende degli ultimi decenni, la necessità di garantirsi il controllo delle risorse energetiche e delle materie prime spinge gli stessi stati democratici a usare i mezzi militari. Temiamo che ciò avverrà sempre più di frequente. Se, nel frattempo, la natura e le sue leggi fisico-biologiche non ci avranno travolto. Più probabile appare uno stretto intreccio tra i due fenomeni.
Le risposte finora immaginate sono da quelle più evanescenti alle più radicali, dalle più ottimiste alle più pessimiste, passando per proposte di aggiustamento o azioni che dovrebbero/potrebbero essere risolutive. Dal punto di vista pratico, si va dalla fiducia acritica nella possibilità della tecnica e della scienza di risolvere tutti i problemi, alla credenza che gli assetti economici attuali siano in qualche modo non solo eterni (il punto di approdo finale dell'umanità) ma così vitali da contenere dentro di sé l'automatica possibilità di superare ogni crisi. Non mancano proposte di aggiustamenti e di interventi più o meno estreme, fino a una fuoriuscita radicale dal sistema economico attuale, come quella prospettata dalla teoria della decrescita.12 Dal punto di vista dell'approccio mentale, l'arco delle riflessioni va dalle visioni apocalittiche a quelle che sfociano nella speranza di una futura super-umanità. Nel corso delle letture incontreremo alcune di queste posizioni.
Compito della politica dovrebbe essere soprattutto di partire da qui, dai pericoli sommariamente delineati e di progettare un futuro per tutti noi; ma non c'è, anche in questo caso, da essere troppo ottimisti perché essa appare piuttosto come una subordinata dei processi in atto, più dedita a cercare di capire come si governa il presente che a preoccuparsi dell'incombente futuro. Perciò, se la politica perde rilevanza non è per le banalità da chiacchiere da bar (sono tutti uguali, e così via), ma perché, come sostiene Aldo Schiavone – "non tocca contenuti essenziali", ossia sta perdendo la capacità di anticipazione. Come ha scritto Ernst Bloch, "senza l'ipotesi che un altro mondo è possibile non c'è politica, c'è soltanto la gestione amministrativa degli uomini e delle cose".13
Sarà bene affrontare le domande fin qui sollevate partendo da una visuale storica ampia, anche perché una delle caratteristiche della cultura mercatistica dominante è di essere scarsamente interessata al futuro ma anche attenta a non fornire prospettive critiche grazie alla memoria del passato, di essere cioè confinata in un presente che si spaccia per eterno. "Avvertiamo così – scrive Aldo Schiavone in Storia e destino – che, insieme al futuro, stiamo perdendo il passato, e con lui, il senso della storia".14 Stiamo pagando la velocità dei cambiamenti indotti dalla tecnica, un fenomeno che "sta alterando la memoria culturale e sociale, sollecitata a un continuo oblio di sé, e sta restringendo a una contemporaneità sempre più breve e contratta l'orizzonte degli eventi entro cui si blocca lo sguardo e la coscienza della nostra epoca". Si tratta dell'equivalente del vivere alla giornata, all'inseguimento del consumo e della realizzazione di sé attraverso le cose, come vedremo anche con il libro Economia canaglia di Loretta Napoleoni.15
Ma rallentare o, almeno, riorientare il sistema si potrebbe? Qui anche le risposte sono diverse, molto spesso destinate a non poter essere coniugate o comparate perché si riferiscono a piani diversi della storia e dell'analisi, quando non si tratta di neoromanticismi tanto consolatori quanto del tutto inermi o di epifenomeni elitari o di rimedi forse peggiori del male.
I percorsi di lettura che suggeriamo iniziano con Giorgio Ruffolo e continuano con alcuni testi da lui non utilizzati per la ricostruzione storico-economica del processo di globalizzazione, ma alla fine, come vedremo, le conclusioni saranno, con la scelta di un autore comune, abbastanza convergenti con le sue speranze.

Secondo percorso - La mercatizzazione del mondo

Ruffolo"

Un libro di ampio respiro, quasi la sintesi di una vita di esperienze e di elaborazioni economiche e politiche (l'autore è stato anche ministro e deputato nazionale ed europeo), è Il capitalismo ha i secoli contati di Giorgio Ruffolo (Torino, Einaudi, 2008, pp. 295). Il titolo suonerebbe a prima vista beffardo nei confronti di quelle teorie che nel Novecento davano per imminente il crollo del capitalismo e, in effetti, l'autore, da sempre riformista e non a parole, avrebbe tutti i titoli per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Eppure, quell'espressione "secoli contati" serve a tutt'altro, serve a dare una profondità storica ad un termine, capitalismo per l'appunto, mai usato da Karl Marx, il quale parlò solo di capitale. La ricognizione storica di Ruffolo comincia da qui, dalla ricostruzione di un fenomeno, il capitalismo (o meglio, i capitalismi) come categoria economico-politico-sociale che non era nell'originario orizzonte marxiano ma che si è affermata in seguito, come categoria falsamente compatta, oggetto di esaltazioni e di maledizioni, passando attraverso un'invenzione che ha delle radici antiche, quella del mercato.
Qualche dettaglio storico da approfondire, sacrificato al quadro d'insieme, ma necessario per contenere il testo in una lunghezza accettabile, non inficia la validità del saggio che si presenta peraltro come un percorso intellettuale, un'avventura di ricerca che è possibile ancora di più apprezzare grazie alla Nota bibliografica finale; però un indice analitico sarebbe stato il benvenuto. E poi, se debbo dirlo, apprezzo molto l'antipatia dell'autore per Martin Heidegger e i suoi nipotini.
C'è un presupposto che guida la ricostruzione dell'autore e che potrebbe suonare come una filosofia della storia, se non rappresentasse l'osservazione conclusiva di un dato permanente in tutte le storie delle civiltà: "senza la libertà individuale non c'è iniziativa e non c'è innovazione". Si può cominciare dalla transizione dall'economia del dono e del baratto ai primi sintomi dell'esistenza di un mercato, passando per la rivoluzione agricola avvenuta nell'asiatica mezza luna fertile, la Mesopotamia; per continuare con il miracolo greco e poi con la costruzione dell'impero romano, il quale conobbe una forma di economia di mercato lontana da quella moderna. E non tanto perché fosse in uso la schiavitù, la quale – come vedremo – prospera illegalmente nell'attualità del supercapitalismo, ma perché l'economia romana non era orientata al reinvestimento dei profitti e perché esisteva "l'impossibilità di trarre da un mercato del lavoro le risorse necessarie per l'accumulazione". Qui, osserva l'autore, è stato il colpo da maestro del capitalismo moderno, la capacità di trasformare in merce non gli uomini (schiavizzandoli), ma il loro lavoro "estratto da esso e venduto sul mercato, dove può essere utilizzato razionalmente estraendone un surplus".
Poi, dapprima con quello che lo storico Braudel ha chiamato il mercato entro le mura, per quanto riguarda il Medioevo, e in seguito con la civiltà mercantile italiana e europea si è preparato il passaggio al capitalismo moderno, il quale è nato "dalla fusione delle nuove tecniche con i nuovi mercati" dei capitali. "È da questa fusione – aggiunge Ruffolo – che si realizza solo in Occidente, che esso trae il suo potere di mercato e la sua superiorità su tutto il resto del mondo".
Il capitolo dedicato al lungo primato italiano non è destinato alla solita rivendicazione di un primazia italiana o a una capziosa ricostruzione storica sulle precedenze del protestantesimo o del cattolicesimo nel tenere a battesimo la nascita del capitalismo, ma a fissare la concreta successione dell'evoluzione capitalistica che ha attraversato l'Europa e a individuare i due modelli principali di riferimento, Genova e Venezia.16 Nel caso italiano, quel che è accaduto "perché si possa parlare a pieno titolo di capitalismo, è la mancanza della sua base: il potere politico dello Stato. Solo nel secondo ciclo egemonico europeo l'Olanda, pur restando vicina al modello della città-Stato, tenterà e in gran parte riuscirà a colmare questa lacuna". Concordiamo con l'autore che "il ciclo economico che meglio rispecchia il modello ideale di capitalismo non è, come spesso si crede, quello britannico, ma proprio quello olandese, che più fedelmente rispecchia l'autentico spirito borghese". Un modello che è riuscito a fondere la strategia politica di origine veneziana con quella di stampo prettamente economico genovese.17 Con in più, una tolleranza religiosa del tutto inusuale per quei tempi, così da attirare l'immigrazione ugonotta, giansenista, puritana ed ebrea, che ne accrebbe la prosperità. Ma l'autore avrebbe potuto citare anche l'intelligenza italiana, in fuga dall'asfissiante Inquisizione cattolica.18
È con l'avvento dei grandi stati territoriali, dopo l'egemonia spagnola la cui aristocrazia dissipò un enorme patrimonio, fornendo nello stesso tempo "un caso di scuola di resistenza al cambiamento", che la rivoluzione industriale incipiente favorita dall'espansione coloniale, produsse una fase nuova del fenomeno capitalistico. Anche l'espansione coloniale, con le sue crudeltà e i suoi orrori che mietettero milioni di vite umane, rappresentò quell'autentico spirito borghese di cui sopra. Ruffolo rimane giustamente interdetto di fronte al silenzio olandese del tempo sulle carneficine che si andavano compiendo: il silenzio "non solo dei mercanti, dei marinai e dei soldati: dei generali e dei politici. Ma anche di tanti intellettuali umanisti, letterati, pittori, filosofi e poeti che hanno fatto la grandezza culturale di questo piccolo paese". Qui e altrove l'autore mette poco in evidenza, però, il ruolo negativo svolto dalla Chiesa, specialmente nel caso spagnolo, se si eccettua una critica alla tolleranza e al diretto sfruttamento della schiavitù da parte della stessa Chiesa contenuti in un riquadro. Si potrà obbiettare che, all'epoca, la schiavitù era ritenuta un fatto naturale; ma questo dimostra solo la fallacia e la caducità dell'idea di ciò che si considera naturale, concetto a cui la Chiesa ama spesso appigliarsi, nonostante la sua origine culturale e non dato una volta per tutte.
Con l'egemonia britannica, si passa dalle città-stato alle nazioni. Il ciclo egemone inglese è il frutto delle macchine e dei diseredati rovesciatisi nelle città, disposti a vendere a basso prezzo le proprie braccia, dopo la chiusura da parte dell'aristocrazia delle terre comuni. Con la Gran Bretagna si assiste a una ulteriore evoluzione del capitalismo che dall'economia-mondo si trasforma in economia mondiale. Ma assieme alle masse di lavoratori dequalificate cresce anche e si emancipa quella classe media che, sostituendosi progressivamente all'aristocrazia, fornirà il nerbo della potenza, anche militare, britannica. L'autore riporta un lungo passo dei diari di viaggio di Daniel Defoe perché in pochi frasi si riassume davvero il senso di questa potenza sociale che diventa potenza economica e militare:

"Questa è gente che si prende il grosso del vostro consumo; è grazie a queste persone che i vostri mercati restano aperti fino a tardi il sabato sera [...] il loro numero non è nell'ordine delle centinaia o delle migliaia, o delle centinaia di migliaia, bensì dei milioni; ed è grazie al loro numero, badate bene, che tutte le ruote del commercio procedono a dovere, che la manifattura e il prodotto della terra e del mare viene finito, conservato e preparato per i mercati esteri; è grazie all'entità dei loro mezzi che si sostengono e all'entità del loro numero che l'intero paese si sostiene; è grazie ai loro salari che la gente può vivere nell'abbondanza e grazie al loro prodigo, munifico e libero modo di vivere che il consumo interno, sia di prodotti interni che di quelli esteri, è giunto a tali dimensioni".

Una lezione che il supercapitalismo attuale sembra aver dimenticato. Naturalmente, Ruffolo non sottace l'altra faccia della medaglia, quella di un processo di industrializzazione feroce e disumano, su cui possediamo un'abbondante documentazione.
Al ciclo britannico è seguito quello che è stato chiamato il secolo americano. Vi torneremo sopra più volte nel corso di questi Labirinti, considerando che il suo esito coinvolge l'immediato futuro del mondo. Nella sua rapida rassegna del Novecento l'autore prende in particolare esame due momenti.
Il primo è la terribile crisi del '29 che fece seguito all'ennesima sbornia da mercato sregolato, esaltato dai più acuti (si fa per dire) mentori del liberismo, e dalla quale gli Stati Uniti uscirono in parte grazie all'intervento regolativo del New Deal roosveltiano. Ma l'economia americana fu ristabilita davvero dalla guerra, così come il riarmo aveva aiutato la Germania ad uscire dalla crisi. "Una conclusione amara ma inevitabile – scrive Ruffolo – particolarmente pesante per i sostenitori dell'autoregolamentazione dei mercati". Il secondo momento riguarda la vittoria ottenuta nella Seconda guerra mondiale contro il nazifascismo, che ebbe un esito diverso dall'inutile pace di Versailles seguita alla Prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti, pur salvaguardando ovviamente i propri interessi, riuscirono a delineare un ordine mondiale più stabile e, per quanto possibile, più equo, con la costruzione di un sistema economico e monetario internazionale. In più, attraverso il Piano Marshall aiutarono vincitori e vinti dell'area occidentale a risollevarsi dalla catastrofe della guerra, permettendo anche a se stessi una transizione controllata da un'economia di guerra a una di pace e consolidando le democrazie alleate al potere. Insomma, permettendo il successivo avvento di quella che lo storico Eric Hobsbawn ha definito l'età dell'oro. L'autore sottolinea giustamente come le decisioni americane del tempo furono lungimiranti perché "perseguivano al tempo stesso l'interesse proprio e quello della collettività". Una lungimiranza che, come vedremo in seguito, sembra aver abbandonato del tutto i gruppi dirigenti americani e il supercapitalismo.
L'ultimo scorcio del Novecento, con la fine dell'Unione Sovietica e dei regimi dei paesi collegati, e quelli che sono stati definiti i ruggenti anni novanta, ci introducono direttamente alla rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni, al processo di liberalizzazione del movimento dei capitali, preceduto dallo sganciamento del dollaro dall'oro, presupposto necessario per gli Stati Uniti della possibilità di non tenere più conto del limite esterno della bilancia dei pagamenti, al pompaggio forzato di risorse effettuato attraverso le enormi spese militari.19
Nella situazione venutasi a creare con l'avvento della globalizzazione, che Giorgio Ruffolo giudica alla lunga insostenibile, tre ssabbero gli scenari di un possibile futuro. Il primo postula la trasformazione dell'egemonia americana in un aperto dominio di tipo imperiale (una soluzione peraltro teorizzata, osserviamo, da alcuni circoli della destra ancora al potere negli USA). Il secondo prospetta la creazione di un nuovo ordine mondiale non egemonico, multipolare e cooperativo. Il terzo prevede il caos e un'età di torbidi, sotto qualsiasi forma essi possano manifestarsi. Questa parte delle considerazioni dell'autore si conclude con un'osservazione che rappresenta la preoccupazione di fondo di questi Labirinti. Come vedremo, è possibile disegnare anche altri scenari.
La guerra fredda con l'URSS è stata vinta grazie soprattutto a quello che è stato definito il tapis roulant dell'economia: una crescita esponenziale e un indubbio successo del capitalismo mondiale, sia pure punteggiato da crisi. L'Unione sovietica e il suo pesante sistema economico e politico non hanno retto di fronte all'innovazione continua e alla mobilitazione di risorse e energie prodotte nel campo del capitalismo di mercato. Ma ora, osserva Ruffolo, si pone un problema molto serio: quella stessa crescita è messa "in forse da altre nuove correnti che neppure l'iperpotenza americana è in grado di governare". C'è ormai una situazione di ingovernabilità di sistema e un limite delle politiche internazionali condivise che debbono per di più confrontarsi con un gigantesco problema ambientale, con un insostenibile sbilanciamento interno ed esterno nella spartizione delle risorse e delle ricchezze, nonché con una instabilità creata dal turbocapitalismo finanziario, i cui sussulti si propagano in tempo reale in tutto il mondo.
Ruffolo mette però giustamente in evidenza il ruolo di moltiplicatore della ricchezza mondiale giocato dal capitalismo, ad evitare i rimpianti che talvolta vengono più o meno esplicitamente espressi sul buon tempo di una volta. A conclusione di questa parte del saggio, i due grafici riportati da Ruffolo sullo sviluppo esplosivo della ricchezza umana negli ultimi due secoli sono impressionanti:20

grafico 1 grafico 2

Eccezionale è stata l'impennata compiuta nel Novecento, se si pensa che, ancora nei primi decenni dell'Ottocento, il reddito medio nei paesi europei era pari a circa "il 90% del reddito medio attuale dei paesi africani". Insomma, con il Novecento inizia l'ottovolante della storia, tra il raggiungimento di traguardi umani impensabili e le sanguinose tragedie del secolo, tra le vette raggiunte dalla conoscenza e l'inferno di regimi dittatoriali, tra l'estensione dei diritti umani e il manifestarsi di nuove schiavitù. Un'impennata della ricchezza certo dovuta all'affermazione del capitalismo, ma anche al ruolo giocato dai suoi antagonisti che l'hanno obbligato a civilizzarsi almeno un po'. Ma se a Novecento inoltrato l'80% del prodotto mondiale si concentrava nel ristretto gruppo dei paesi appartenenti all'OCSE (anche se negli ultimi decenni c'è stata una riduzione del 2%), allora bisogna rilevare che con gli ultimi due secoli "si è aperto il grande varco della disuguaglianza", e gli estremi tra povertà e ricchezza si sono allungati come non era mai prima accaduto nella storia.21 Un fenomeno che non investe solo il rapporto tra paesi poveri e paesi ricchi, ma anche e sempre di più le stesse società avanzate, come abbiamo già osservato.
L'autore prende poi in esame i caratteri principali dell'attuale situazione politico-economica, quella che egli definisce la mercatizzazione del mondo, la quale rappresenta qualcosa di più specifico del concetto forse troppo generico di globalizzazione. Riassunti i capisaldi ormai abbastanza conosciuti, soprattutto di carattere ambientale, che fanno concludere sulla insostenibilità del sistema attuale e che vedremo più in dettaglio parlando di altri autori, Ruffolo passa a esaminare le condizioni e i presupposti dell'ampio processo di globalizzazione che ha investito l'umanità.
"Tra il 1970 e il 1989 un intero mondo scomparve": l'abbandono delle regole di Bretton Woods che avevano ancorato il dollaro all'oro, la liberalizzazione dei capitali e il crollo dell'URSS, mutarono il panorama storico. Il ruolo che aveva avuto il sistema sovietico come regolatore indiretto del sistema capitalistico e i contraccolpi di un tale evento l'autore li sintetizza in questo modo: "fu travolto anche, all'interno dei paesi capitalistici dell'Occidente, quel fragile compromesso keynesiano tra il mercato capitalistico e lo Stato nazionale che, a completare la pace fredda, aveva garantito una pace sociale all'interno". Il che è come dire che, cessata la minaccia comunista, il capitalismo si è liberato di quell'insieme di regole educatrici o civilizzatrici, politiche e sociali, che era stato costretto a indossare dalle lotte delle classi subalterne, riconquistando la piena espressione dei suoi spiriti animali (animaleschi). Non c'è dubbio che questa interpretazione della storia non sia tendenziosa se un vice presidente della Confindustria italiana ebbe a dichiarare suo tempo che il welfare state era da considerarsi superato, perché andava bene per opporsi allo "stato assolutista marxista"; ma che ora, cessato il pericolo, si aprivano "spazi di mercato enormi".22
Quel che veniva rimesso in questione era in sostanza il rapporto tra capitalismo e democrazia. Riemergeva con forza una contraddizione permanente che ha attraversato tutta la storia degli ultimi due secoli e che ha trovato momenti e modi diversi di equilibrio: quella tra uguaglianza politica e disuguaglianza economica, il cui sbilanciamento oltre certi limiti rimette in questione la coesione sociale di un paese.23 Ora, la disuguaglianza economica è arrivata a livelli mai toccati in precedenza nella storia e la polarizzazione tra i due estremi, con un effetto "a pera", per cui la parte bassa delle società si sta ingrandendo e la parte finale del picciolo si sta allungando, ha raggiunto distanze non relative, a rischio di secessione sociale, come scrive Ruffolo. Riprenderemo questo problema nel corso di questi Labirinti. Intanto, va sottolineato che questa società dei quattro quinti, in cui un quinto della popolazione è in grado di requisire la gran parte della ricchezza e di controllare mezzi di comunicazione, potere di impresa e di stato costituisce "l'immenso pericolo incombente sulle democrazie moderne; che fa di un processo di esclusione dagli strumenti di conoscenza il punto di forza di un ceto politico professionalizzato e di un élite di tecnici separati e contrapposti al resto della società civile, ai miliardi di nuovi analfabeti che rischiano di popolare le società della globalizzazione".24
Liberati dagli intralci regolamentari, favoriti dall'emersione delle tecnologie digitali e dalla rivoluzione dei trasporti, i capitali si muovono in tutto il mondo, diventano vaganti, sganciati, ci ricorda Ruffolo, da quella concezione di Ricardo e Smith (due classici del libero mercato!) che considerava il capitale come "un pezzo della comunità, con le sue tradizioni, le sue appartenenze, le sue idiosincrasie". Ma questo turbocapitalismo, che non conosce frontiere e regole etiche, travolge anche il contenitore che negli ultimi tre secoli ha permesso la sua affermazione: lo Stato nazionale. Emergono soggetti che non rappresentano una novità degli ultimi anni, ossia le grandi compagnie multinazionali o transnazionali, le Corporations, ma che nella nuova situazione trovano campo libero per la loro sovranità senza territorio, "più simili agli Stati della politica – osserva Ruffolo – che alle imprese del mercato". Come le grandi compagnie mercantili coloniali del Settecento, che arrivarono a possedere interi paesi (si pensi all'India, possesso privato della Compagnia britannica delle Indie fino ai primi decenni dell'800), le nuove Corporations conservano un rapporto collusivo con il loro paese di origine che diventa una specie di retrovia necessaria, una base raramente disturbata dallo Stato-nazione. Vedremo in seguito di quali altre collusioni siano capaci le multinazionali.25
Ma il problema principale, dal nostro punto di vista, è che le Corporations "di diverso, rispetto agli Stati, hanno un aspetto essenziale: l'assenza di legittimazione politica, il che aumenta il grado di arbitrarietà del sistema nel suo complesso". Un tema di portata immensa, uno di quelli, come vedremo nella parte conclusiva del saggio di Ruffolo, su cui si gioca il futuro, anche se il problema della democrazia economica tende oggi a essere accuratamente oscurato.26
Il processo di privatizzazione avviato negli anni settata del secolo scorso all'epoca di Reagan e della Thatcher ha avuto effetti precisi sugli assetti e sulla distribuzione della ricchezza sociale. In precedenza, era stato raggiunto un compromesso tacito o esplicito, a seconda dei paesi, su una politica dei redditi che ridistribuiva su salari e capitali gli aumenti di produttività. A partire dall'offensiva conservatrice la cui onda lunga ancora continua "i salari hanno segnato sostanzialmente un ristagno, mentre i profitti raddoppiavano".27 Al tempo stesso, osserva l'autore, sono crollati alcuni miti. Per esempio quello del "sogno americano" della mobilità sociale per cui chiunque, purché dotato di voglia di lavorare e di tenacia, poteva salire nella scala sociale ed economica: "l'America di oggi segna un grado di mobilità che è il più basso di tutti i paesi capitalistici avanzati".28 Un fenomeno ben conosciuto da tempo, su cui persino il New York Times ha scritto articoli di fuoco, ma che naturalmente i media tendono in genere a occultare. Del resto, mentre la famiglia media americana ha visto il proprio reddito scendere, l'1% degli americani più ricchi ha beneficiato di notevoli tagli fiscali. Così come, sempre a proposito di miti, c'è quello della privatizzazione della sanità. Negli Stati Uniti il 18% della popolazione è privo di copertura sanitaria con un costo complessivo dei servizi sanitari che tocca il 13-14% del Prodotto interno lordo, mentre in Europa una sanità a copertura universale ne impiega il 6-10%: tanto per rispondere agli sconsiderati e interessati attacchi che puntano alla privatizzazione del settore, come risposta all'eccesso di costi da burocrazia del settore, che pure esistono.
In buona sostanza, con l'ondata di privatizzazioni malguidate e non selettive, in molti casi intenzionalmente mal guidate, a nostro parere, gli Stati sono stati saccheggiati, con buoni affari da parte dei privati. Qui andrebbe fatto anche un paragone tra le dimensioni delle acquisizioni private in Occidente e le vere e proprie rapine compiute nei paesi ex sovietici, con la copertura e l'impulso del Fondo monetario internazionale; ma questo aspetto lo vedremo meglio parlando del libro di Joseph E. Stiglitz.29
"La società non esiste" – così aveva dichiarato la signora Thatcher - e così la mercatizzazione dell'intera società e, in seguito alla globalizzazione, del mondo intero è dilagata con effetti sociali e ambientali disastrosi. Un fenomeno che ha segnato persino un cambiamento nel funzionamento profondo, se non addirittura nella natura del capitalismo. Ruffolo mette in evidenza come si sia costituito un blocco formato dagli azionisti di controllo e dai cosiddetti executives, quelli, ci ricorda, che Karl Marx definiva i funzionari del capitale. Egli pensava che, prima o poi, essi avrebbero spossessato i capitalisti. Invece è avvenuta una fusione economica e sociale che combina la rendita con i profitti, formando un formidabile blocco di controllo. I casi e le analisi sono ben conosciuti. Tanto per fare qualche esempio, la remunerazione dei manager sono aumentate in modo esponenziale: nel 1974, negli USA gli executivesguadagnavano circa 34 volte di più del salario medio operaio, di recente sono arrivati a circa 150 volte. Del resto, anche in rapporto al trattamento dei manager degli altri paesi, esiste una vera e propria sindrome americana: il guadagno medio di un executive è di 2,8 milioni di dollari annui, mentre quello giapponese è di 300.000 dollari. Non sembra proprio possibile sostenere che si tratti di differenze dovute alla bravura, tuttavia la tendenza appartiene a tutti i paesi industrializzati. Per esempio, in Gran Bretagna, "nella prima metà del 2006 lo stipendio medio dei dirigenti ai vertici delle società sale del 28%, al contrario gli stipendi medi settimanali degli impiegati scendono, con l'inflazione, dello 0,4%".30
In un recente articolo, Ruffolo è stato ancora più icastico: "Ma quali sono le cause di questa mutazione? Fondamentalmente due. E hanno a che fare non con la cattiva volontà, ma con la stessa struttura del capitalismo oggi. La prima è l'eccezionale concentrazione della ricchezza verificatasi nei paesi del capitalismo avanzato, e in specie negli Stati Uniti, negli ultimi 30-40 anni. La seconda è la liberalizzazione del movimento dei capitali. Quanto alla prima, in soli dieci anni, tra il 1979 e il 1989, la quota di ricchezza americana detenuta dall'1 per cento dei più abbienti è quasi raddoppiata, passando dal 22 al 39 per cento. A metà degli anni '90 quell'1 per cento della popolazione si era accaparrata il 70 per cento della crescita realizzata a partire dalla metà degli anni '70. Nei successivi dieci anni, dal 1990 ai primi anni del 2000, le grandi fortune d'America si sono triplicate o quadruplicate (questi dati sono tratti dal libro di Kelvin Phillips Ricchezza e democrazia, Garzanti). Non si tratta più, come alcuni hanno osservato (vedi soprattutto Robert Reich) di aumento delle disuguaglianze, ma di vera e propria secessione.31
La cosa più scandalosa è che l'incremento esponenziale dei redditi di chi governa le imprese è ormai del tutto sganciato dai risultati, sicché è accaduto di frequente che in società portate sull'orlo del fallimento i manager si si sono attribuiti ricchi premi, fringe benefits e stock options.32 La cronaca economica e giudiziaria degli ultimi anni è troppo fitta di casi per riportarli qui; basterà ricordare la vera e propria rapina a mano armata compiuta nei confronti dei piccoli risparmiatori nello scandalo della Enron, per arrivare al tracollo immobiliare recente.33 In tutti i casi, il capitale finanziario è diventato del tutto simile a un gioco d'azzardo, al quale c'è una partecipazione di massa, ma le cui perdite, alla fine, vengono coperte con le risorse pubbliche e pagate in prima battuta dai piccoli risparmiatori, quelli che nel gergo borsistico vengono definiti il parco buoi.34 Non crediamo che sia particolarmente esagerato il giudizio che Serge Latouche dà sulla dottrina economica neoclassica prevalente e sui manager delle multinazionali, e non solo, che la mettono inesorabilmente in pratica, passando attraverso la formazione delle business schools, vere e proprie scuole di guerra economica. Questi strateghi "pensano soprattutto a esternalizzare al massimo i costi [espressione anodina per dire che li scaricano su altri] per farli ricadere sui dipendenti, sui subappaltatori, sui paesi del Sud, sui clienti, sugli stati e sui servizi pubblici, sulle generazioni future, ma soprattutto sulla natura, diventata al tempo stesso fornitrice di risorse e secchio della spazzatura".35
C'è da chiedersi come mai permanga un'acquiescenza delle classi medie a processi che le stanno impoverendo, e non solo negli Stati Uniti, magari facendole votare per quegli stessi che mettono in moto o proteggono quei processi. La risposta di Ruffolo è che la ragione di un tale comportamento autolesionistico sta "nel dissolvimento del blocco sociale che si era costituito attorno alla classe operaia. Con quello veniva a mancare un polo sociale antagonistico al capitalismo, mentre si formava un nuovo blocco sociale capitalistico grazie al coinvolgimento subalterno delle classi medie nelle fortune del grande capitalismo, attraverso guadagni speculativi di borsa, il credito immobiliare facile per i risparmiatori e l'accesso facile al credito per i consumatori".36 L'indebolimento politico, economico e sociale delle classi lavoratrici, d'altra parte, è facilmente spiegabile con uno dei caratteri della rivoluzione post-industriale, la quale "realizza in pieno, su scala mondiale, le conseguenze sociali della mercificazione del lavoro. Le combinazioni perseguite dalle imprese sono quelle che minimizzano costi e diritti del lavoro, ponendo in concorrenza tra loro i lavoratori". In altre parole, entra sul mercato forza-lavoro disponibile a costi molto più bassi e spesso priva dei più elementari diritti.37 Riprenderemo più avanti questo aspetto del discorso.
In effetti, non si potrebbe spiegare altrimenti l'acquiescenza delle classi medie. Nel momento della massima tragedia nazionale, Bush abbassò le tasse ai ricchi per rianimare la borsa, mentre preannunciava la guerra. Sarebbe stato – commenta amaramente Ruffolo – come "un improbabile Churchill che, invece di annunciare al popolo inglese ciò che solo poteva offrirgli, lacrime e sangue, avesse deciso di esentare i figli dei ricchi dal servizio militare, per indurli a finanziare la guerra".
Il capitalismo – scrive l'autore, avviandosi verso le conclusioni – in due secoli e mezzo ha comunque radicalmente e irreversibilmente cambiato il volto del mondo, creando il 97% della ricchezza attuale dell'umanità, come abbiamo visto nei due grafici precedenti. Nello stesso tempo, ha saputo adattarsi a tutti i regimi politici, salvo quello sovietico, per quanto – osserviamo – in questo caso si è parlato di capitalismo di Stato, mentre sarebbero ancora da discutere i caratteri del fenomeno cinese. Ma poiché, al contrario di quanto in modo poco sensato hanno sostenuto alcuni, non esiste una infinita sostituibilità delle risorse naturali, e nel mezzo secolo appena trascorso "il mondo ha perso un quarto del suo suolo fertile e un terzo del suo manto forestale, un terzo delle risorse del pianeta", per evitare il disastro, occorrerebbe, sulla scorta delle elaborazioni e delle proposte di alcuni economisti, "spostare lo sforzo produttivo dalla produttività del lavoro alla produttività delle risorse naturali (del capitale naturale)", raggiungendo così un nuovo punto di equilibrio. Già, ma il fatto è – osserva Ruffolo – che di questo punto di equilibrio il capitalismo non sa che farsene, perché "il suo successo, misurato dal suo profitto, sta proprio nella capacità di trarre dalle risorse naturali il massimo di produzione possibile". L'unica possibilità – aggiunge – sarebbe quella di "una mutazione culturale che farebbe del capitalismo uno strumento di sviluppo equilibrato della società". Un nuovo compromesso su scala mondiale, dunque, che può essere favorito solo da una nuova minaccia alla perpetuazione dello stesso capitalismo. Questa minaccia potrebbe essere rappresentata dal tracollo ambientale del pianeta, da una Terra avviata verso l'inabitabilità, magari associata a immaginabili turbolenze, le quali sono peraltro già iniziate con episodi o vere e proprie guerre locali.
D'altra parte – sottolinea l'autore – l'ultimo faticoso accordo di Bali raggiunto tra centottanta paesi, per quanto tutto da verificare e da attuare, stabilisce per la prima volta il principio di una comune disciplina, e non su principi astratti come quelli della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ma su obbiettivi concreti che comportano investimenti e costi poderosi.38 Il che comporterebbe una redistribuzione delle ricchezze del mondo dai paesi più ricchi a quelli più poveri, in una sorta di nuovo piano Marshall di dimensioni planetarie, ma che aprirebbe anche, ovviamente, un capitolo strettamente collegato, quello della distribuzione della ricchezza all'interno dei paesi avanzati, se le risorse che verranno eventualmente messe a disposizione raggiungeranno dimensioni efficaci. In altre parole, chi pagherà tutto ciò? In modo proporzionale alla ricchezza goduta da ogni paese e in ogni paese, verrebbe giudiziosamente da osservare.
Intanto, bisognerebbe cancellare un'intera tendenza decennale ad abbattere la proporzionalità del prelievo fiscale, dimenticando anche il vizio dei favori fiscali ai ceti più agiati e ai consumi più ricchi. Poi occorrerebbe ristabilire una legalità che metta sotto controllo anche l'economia canaglia, come vedremo; ma sarebbe anche necessaria una mutazione dei valori materiali e dei comportamenti sociali oggi prevalenti, alimentati tra l'altro da una pubblicità diventata davvero insopportabile e irresponsabile.
Insomma, occorrerebbe una nuova mutazione del capitalismo, passando da un'economia di pura competizione (corredata, all'occorrenza, dalla rapina) a una economia associativa, e dallo Stato del benessere (welfare state) alla welfare society. Si tratterebbe, secondo Ruffolo, di passare dalla socialdemocrazia statalista alla democrazia sociale. È un obbiettivo indubbiamente affascinante, sul quale esistono studi, elaborazioni e esperienze che non è possibile trattare in questo contesto e che comporta una vera e propria reinvenzione del modo di governare, basato su due esigenze fondamentali: l'autoamministrazione e la programmazione. Dove quest'ultima rappresenta "il modo di ricongiungere i cittadini allo Stato attraverso la comprensione trasparente delle sue finalità e la possibilità di controllare con continuità impegni e risultati" e in cui non si ripetano i vizi della burocratizzazione e della imposizione autoritaria, basandosi invece sulla "categoria politica degli obbiettivi e dei progetti". Ma c'è un corollario a tutto ciò o, se vogliamo, una premessa, e cioè un cambiamento degli stili di vita dei cittadini, a partire in primo luogo da quelli dei paesi maggiormente consumatori. La domanda che viene subito in mente é: meno benestanti individualmente?
C'è una linea di pensiero che nega questo esito e mette l'accento su un modo diverso di consumare e di produrre, sulla sobrietà, insomma. A patto di sostituire il paradigma della crescita come risposta all'ampliamento del benessere nel mondo quello della decrescita, che non vorrebbe dire tanto tornare indietro, quanto crescere o vivere in modo diverso, soprattutto liberandosi della frenesia consumistica e adottando nuovi indicatori socio-economici al posto di quelli meramente quantitativi attualmente usati. Ci sono diverse interpretazioni della decrescita, fino alle ipotesi più radicali, ma ne riparleremo quando esamineremo due testi di Serge Latouche.39 In ogni caso, la proposta presuppone l'affermazione globale di un ampio movimento dal basso, che modifichi gusti, scelte e indirizzi di consumo, condizionando il mercato e non facendosi condizionare dalla pubblicità e dai poteri mediatici.
Si tratta, ammette Ruffolo, di trasformazioni non facili, che egli correda di passaggi più dettagliati contenuti nel saggio. La loro realizzabilità è affidata dall'autore non solo all'emergenza derivante dalle nuove minacce incombenti ma anche a una prospettiva di fondo che si riconosce nella fiducia nell'umanità e in un approccio evoluzionistico. L'uomo – scrive l'autore - "rappresenta il punto più alto di un processo simmetrico a quello della crescente entropia: il processo dell'evoluzione", il quale contrasta la legge generale dell'entropia attraverso la sua crescente autorganizzazione e con l'affacciarsi dell'evoluzione culturale nella storia. Sono la conoscenza e la scienza le speranze che coronano la possibilità dell'intelligenza umana di sfuggire a una possibile autodistruzione, non perché l'autore abbracci una visione scientista del mondo, ma perché mentre nella produzione materiale l'umanità incontra dei limiti fisici, nel campo della produzione delle idee e delle capacità ideative non è possibile intravedere alcun limite, se non quelli che vengono autoimposti dalla superstizione e dall'ignoranza.
Non si può che condividere questa speranza nel futuro, anche contro quelli (e sono tanti) che ritengono il progresso tecnico contrario all'umanità, invece di puntare il dito sul suo asservimento a una logica di sfrenata accumulazione capitalistica. "Non è vero – conclude l'autore, criticando in questo senso le teorie di Umberto Galimberti – che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole", per cui il problema è quello di metterla al servizio della conoscenza, piuttosto che delle leggi di mercato.40 Una prospettiva affascinante, dunque, ma gli interrogativi che rimangono aperti sono molti, né Ruffolo aveva l'ambizione di dare una risposta esaustiva, ma piuttosto di indicare una possibile direzione di marcia, nella quale il realismo delle soluzioni è direttamente proporzionale all'entità delle minacce che gravano sull'umanità. In altre parole, più la crisi sarà generale e di vaste proporzioni, più le soluzioni che oggi appaiono irrealistiche potrebbero diventare pratica necessaria di sopravvivenza.
Nel descrivere la struttura e le tendenze del turbocapitalismo, Ruffolo sottolinea anche che uno dei problemi che l'umanità ha di fronte è l'estensione e la vitalità della cosiddetta economia criminale, diventata anch'essa globale. Non si tratta di una questione secondaria, da catalogare solo tra i fenomeni di distorsione del mercato o semplicemente come un problema di polizia, perché economia legale e economia illegale risultano strettamente intrecciate e, nello stesso tempo, in conflitto. Lo vedremo immediatamente con l'inquietante saggio di Loretta Napoleoni. E, alla fine di questi percorsi il lettore si chiederà, assieme a uno degli autori recensiti, se la nozione ormai popolare di Stato-canaglia sia davvero confinabile a quei governi usualmente considerati tali.41

Terzo percorso - L'altra faccia dell'economia

Napoleoni

Loretta Napoleoni, ha scritto un libro sulla globalizzazione dell'economia criminale che non esitiamo a definire impressionante, Economia canaglia. <7i>Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Milano, il Saggiatore, 2008, pp. 310.42 L'autrice, residente a Londra, è "tra i massimi esperti mondiali di terrorismo ed economia mondiale". Editorialista di diverse testate, le sue competenze sono utilizzate da alcuni governi occidentali, collaborando con numerose forze dell'ordine. Tanto per dire che sa di cosa parla; le sue non sono informazioni di seconda mano.
Gli scenari descritti dall'autrice si aprono con due fenomeni che normalmente non vengono messi in correlazione. Il primo è rappresentato dalla caduta dell'URSS, dopo di che "nello spazio di un decennio il numero della nazioni democratiche nel mondo cresce da 69 a 118". Una buona notizia insomma. Il secondo fenomeno non è invece una buona notizia ed è commentato con un'affermazione forte che rappresenta il motivo conduttore del libro: "la democrazia e la schiavitù non solo coesistono, ma sono tenute insieme da quella che gli economisti definiscono una correlazione forte". La ragione sta nel fatto che nella grande trasformazione in corso dell'economia mondiale quella che possiamo considerare "una forza oscura codificata nel Dna della nostra società e sempre in agguato", un fenomeno endemico ossia l'economia canaglia, ha approfittato di liberalizzazioni e processi di globalizzazione per uscire allo scoperto, sfuggire a ogni possibilità di controllo in mancanza di un governo e di una legalità internazionali e per intessere inconfessati rapporti con l'economia ufficiale. "Nessuno controlla l'economia canaglia" – scrive l'autrice nell'iniziare l'esame dei fatti che sostengono le sua affermazioni. Ma, quel che è peggio e che rappresenta il sintetico messaggio del libro è che tra economia canaglia e economia ufficiale i collegamenti sono definibili in molti modi, meno che sporadici. Le zone di sovrapposizione e di intreccio, spesso con il classico gioco delle scatole cinesi, incrociano le nostre attività di consumatori inconsapevoli, in un flusso continuo di denaro e di merci in cui è divenuto pressoché impossibile distinguere lo sporco dal pulito.
Nel periodo della Guerra fredda, a partire dal Piano Marshall, l'Occidente, si chiude in un ordine che "per molti versi è l'opposto della globalizzazione"; la minaccia comunista lo induce ad adottare "un sistema economico fortemente regolamentato", ma la cui crescita e vitalità - come abbiamo già detto – sono stati straordinari; tanto da mandare in frantumi il blocco sovietico. Ma a pezzi, in modo speculare, ci va anche il vecchio ordine occidentale. Le liberalizzazioni tolgono agli Stati la possibilità di controllare i mercati, l'economia, non più tenuta al servizio della politica "diviene una spregiudicata canaglia, orientata esclusivamente al facile guadagno a spese dei consumatori". Da qui in poi l'economia (quella canaglia e quella rispettabile) tiene in scacco la politica.
Ma cos'è questa economia canaglia?
Si può cominciare dal sesso e dal suo mercato. Dalle strade del sesso lungo i confini delle ex frontiere tra Est e Ovest, al cosiddetto Mercato Arizona in un villaggio della Serbia nordoccidentale. Lì migliaia di ragazze slave, adescate e ingannate, vengono spogliate, palpate, valutate e vendute all'asta. Il racket "industriale" di questa nuova forma di schiavitù è in mano alla mafia russa, ma non mancano ceceni, europei e arabi. La prostituzione nei paesi ex comunisti c'era anche prima, ma era molto circoscritta e limitata ai visitatori stranieri. Il crollo politico economico dell'ex blocco sovietico, quando la disoccupazione femminile in Russia raggiunge l'80% delle donne (in grande maggioranza capifamiglia e monoreddito), le spinge verso la prostituzione per dare da mangiare a figli e familiari. "L'unica opzione per sottrarsi alla fame – commenta l'autrice – è andare a letto con il nemico". E naturalmente le slave, provenienti da un sistema scolastico eccellente e perciò colte oltre che belle "fanno schizzare alle stelle la domanda". La cosa che non è molto conosciuta è che uno dei maggiori importatori di prostitute slave è Israele, non solo per motivi estetico-materiali (l'attrazione per donne alte e bionde) ma soprattutto per motivi religiosi, a causa dei tabù vigenti sul sesso tra gli ebrei ortodossi nei rapporti con le loro donne, che ne fanno dei frequentatori abituali di prostitute: "le schiave del sesso slave arrivano in Israele attraverso la Striscia di Gaza, con la collaborazione di bande criminali egiziane e palestinesi che le guidano attraverso le frontiere". Attraverso tunnel scavati sotto le frontiere, utilizzati da trafficanti, spacciatori e terroristi, vengono consegnate ai loro sfruttatori dell'altra parte. A livello criminale, una salda collaborazione tra israeliani e arabi è una realtà
Il caso delle prostitute slave non è naturalmente isolato, dall'Africa e ora anche dalla Cina e da altri paesi un flusso di nuove schiave viene instradato verso i paesi industrializzati e controllato con i mezzi più criminali e disumani. La rete si estende per tutto il mondo e il suo punto terminale principale è nei paesi ricchi. L'intero sistema è gestito dalle mafie, locali e internazionali, legate tra loro; un affare che muove all'incirca 52 miliardi di dollari.43 Ma il caso delle slave è per l'autrice emblematico di una trasformazione economica e sociale avvenuta in assenza di un progetto, anzi, sotto la consegna di non disturbare il mercato, sicché "intere nazioni sono precipitate nella povertà e nell'anarchia, e nel vuoto di potere e di controllo sociale si sono insinuati gli sfruttatori e i protettori della globalizzazione". Siano essi veri e propri criminali violenti, siano essi criminali in giacca e cravatta. Ladri, schiavisti e profittatori tutti insieme.

continua con la seconda parte

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