18. Labirinti di lettura
II. In/out: sul lìmine della civiltà

Quarto percorso - Ammonizioni: storie di collassi di civiltà

Diamond

Jared Diamond, l'autore del voluminoso saggio Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere, Torino, Einaudi, 2005, pp. 566, non è un fondamentalista ambientale. Come dichiara egli stesso, si colloca "a metà strada tra i due campi, come persona consapevole sia dei problemi ambientali, sia della realtà delle grandi imprese commerciali". Una posizione abbastanza scomoda perché gli attira i sospetti degli ambientalisti puri senza conquistargli le simpatie delle grandi Corporations, ma ha il pregio di rappresentare un punto di vista equilibrato. Diamond è in grado di criticare severamente i disastri compiuti da un sistema che sta correndo verso la propria autodissoluzione, ma quando ne viene a conoscenza è però capace di apprezzare i comportamenti e le misure virtuose da parte di soggetti che sono tenuti in sospetto, come le imprese multinazionali. Il merito principale di questo atteggiamento è di mostrare che un altro modo di operare è possibile e, in qualche caso, è già realtà. Si tratta di uscire dalla trappola di una spirale competitiva che, in mancanza di una regolazione, rischia di portare il mondo a quei crolli o collassi avvenuti in altre epoche e per altre civiltà.
L'analisi che l'autore compie dei casi storici di culture e civiltà che sono andate incontro all'autodistruzione potrebbe sembrare troppo circoscritta nel tempo, nello spazio e nei mezzi economici e tecnologici allora disponibili; per non parlare del livello delle conoscenze, degli assetti sociali molto diversi e delle condizioni ambientali particolari. Ma, a parte il fatto che egli esamina anche la situazione attuale dei rapporti tra economia, ambiente e società di alcune regioni (come il suo prediletto Montana, il Ruanda o la Cina), la disamina dei singoli casi gli serve come una sorta di esperimento di laboratorio, per individuare i casi in specie, isolare e analizzare i fattori principali che hanno determinato i collassi storicamente accertati delle civiltà. Rielaborando e aggiornando poi quei fattori nel contesto attuale, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra business e ambiente, ne trae conclusioni allarmanti sulla direzione presa dal processo di globalizzazione.
La lista delle ricostruzioni storiche è troppo ampia per poterne parlare qui diffusamente. Si va dai casi più noti dei vichinghi in Groenlandia a quelli apparentemente minuscoli di alcune isole del Pacifico (Isola di Pasqua, Pitcairn e Henderson), la cui traiettoria storica culminata nel disastro funziona però piuttosto bene per individuare alcune costanti del comportamento umano che portano all'autodistruzione; dal caso dell'ascesa e della caduta dei maya, allo studio sulla crisi ecologica nel Montana, stato verde dell'America; dall'analisi dei differenti destini ecologici di una stessa isola popolata da due culture differenti (Haiti e Repubblica Dominicana), ad alcune culture di antichi americani; dal genocidio ruandese all'ipersfruttamento attuale dell'Australia e all'instabilità della gigantesca Cina. Ma si esaminano anche due casi di successo di una politica ambientale lungimirante, come quella inaugurata a suo tempo dagli shogun in Giappone e quella parzialmente adottata sugli altipiani della Nuova Guinea per salvaguardare la biodiversità. Tuttavia, almeno nel caso del Giappone, si è trattato di una politica lungimirante per quella nazione ma non per l'ecosfera complessiva, perché il Paese del Sol Levante importa un terzo della produzione mondiale di legno tropicale e sta in pratica spogliando le foreste dell'Australia. Caso atipico, osserva Diamond, di uno sfruttamento asimmetrico tra due paesi del Primo Mondo.
Oggi, naturalmente, i problemi si presentano su una scala gigantesca che comprende l'intero globo terrestre. Come l'autore ha scritto in un'altra sua famosa opera, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni[Torino, Einaudi, 2006, pp. 400], "ciò che per cinquantamila anni era stato un progetto condiviso a livello locale e generazionale, è improvvisamente diventato un progetto che copre la geografia di quasi metà del diametro del pianeta". In sostanza, il fattore di scala raggiunto dallo sviluppo odierno e che, secondo gli oltranzisti, la virtù di un mercato che si autoregolerebbe permetterebbe di tenere sotto controllo risolvendo tutte le difficoltà, rappresenta invece il problema e non la soluzione, se i fattori di base rimarranno quelli attuali. In altre parole, così stando le cose, il pianeta e la civiltà umana sarebbero destinati al collasso.
Si tratta forse di una di quelle visioni esagerate che uno storico come Eric J. Hobsbawn deplora nel suo libro Intervista sul nuovo secolo[Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 169] in quanto affrontano la questione ambientale in termini catastrofici? Niente affatto. Anche Hobsbawm, come molti altri, ritiene che l'intervento umano sulla Natura abbia assunto caratteristiche pericolose. Ovviamente, si tratta di una Natura ormai antropizzata, per cui deve essere chiaro che la sua difesa non comporta un impossibile ritorno a una condizione selvatica o a una visione bucolica; dove, peraltro, non si capisce cosa ci sarebbe di naturale in un paesaggio percorso da pastorelle e pastorelli armati di flauto e pascolanti greggi di animali addomesticati che, se non tenuti sotto controllo, desertificherebbero interi campi; per non parlare del fatto che il bel paesaggio toscano, per esempio, non è anch'esso un prodotto "naturale". Ma il punto non è questo; lo storico inglese, come la maggioranza delle persone (magari un po' allarmate e dubbiose) pensa ancora al processo di sviluppo futuro come a una traiettoria lineare che è iniziata con la prima rivoluzione industriale e che potrà andare avanti, sia pure con qualche scossone, risolvendo i problemi di indigenza e di povertà endemica. E se le risorse non rinnovabili sono destinate, prima o poi, a finire, l'umanità ha tuttavia davanti a sé tempo sufficiente per prendere le misure necessarie alla sua sopravvivenza. Peraltro, Hobsbawn pensa che non per questo si risolveranno i problemi di libertà e di uguaglianza, che invece sono invece destinati ad aggravarsi.
Pensiamo che questo approccio sia intanto il frutto di una concezione ancora dualistica del mondo, per cui da una parte c'è l'umanità e dall'altra la Natura; dove, lo ricordiamo, l'ambiguo concetto di naturale è in realtà un costrutto culturale che muta nel tempo. D'altra parte, c'è da chiedersi se la relativa fiducia con cui si guarda alla capacità umana di tenere sotto controllo l'ambiente non corrisponda a una insufficiente percezione dei cambiamenti e a una incapacità decisionale delle società e dei gruppi dominanti. Jared Diamond elenca, sulla scorta di esempi, alcuni dei fattori comuni a precedenti crolli storici e alla situazione attuale.
Alcuni di essi sono da ricercare nella deforestazione e nella distruzione dell'habitat, nella gestione sbagliata dei suoli, nella cattiva gestione delle risorse idriche, nell'eccesso di prelievo della fauna (caccia e pesca), nell'introduzione di specie nuove in contesti ambientali estranei, nella crescita della popolazione, nell'aumento dell'impatto territoriale dei singoli individui (la cosiddetta impronta ecologica); e poi, ancora, nei cambiamenti climatici dovuti all'intervento umano oppure naturali, nella carenza di risorse energetiche, nell'esaurimento della capacità fotosintetica della Terra, ai quali va aggiunto l'esaurimento per eccessivo sfruttamento delle materie prime non rinnovabili.
Si tratta di una lista non nuova nelle denunce e negli studi degli ultimi decenni, ma che il libro di Diamond ha il pregio di sottoporre alla verifica delle ricostruzione storica di alcune civiltà che hanno imboccato la strada di un'eutanasia involontaria. Perché è ovvio che nessuna civiltà ha scientemente scelto di scomparire, se non nel caso in cui i problemi all'origine del proprio declino erano di impossibile risoluzione con i mezzi disponibili all'epoca o per cause politico-sociali.
Proprio sulla scorta dell'analisi storica, si possono classificare i comportamenti delle popolazioni e dei suoi ceti dirigenti nei quattro atteggiamenti principali che hanno portato al collasso. Non è infatti possibile dare una risposta univoca al perché una cultura o una intera civiltà scompaiono. Ovviamente, le ragioni per cui una civiltà collassa e i gruppi umani non riescono a evitarlo non sono solo ambientali:

1. Il gruppo non riesce a prevedere il sopraggiungere del problema;
2. il gruppo non si accorge che il problema esiste;
3. il gruppo se ne accorge ma non prova a risolverlo;
4. il gruppo cerca di risolverlo ma non ci riesce.

Nel primo caso si possono fare esempi riguardanti sia la storia passata sia quella recente. Come l'importazione in Australia di volpi e conigli, diventati un flagello ambientale per la loro rapida moltiplicazione; ma anche quello della cultura del Chaco Canyon in America, sparita per lo sbilanciamento del rapporto tra popolazione e acqua disponibile; oppure quello di alcune isole del Pacifico, le cui culture furono distrutte da una combinazione tra commercio scriteriato e mutamenti ambientali; o, ancora, quello dei coloni vichinghi giunti in Islanda, che la ridussero completamente senza alberi con un disboscamento folle. Si trattò, in quest'ultimo caso, di una società caduta nella trappola di una falsa analogia. I vichinghi, partiti dall'esperienza agricola dei suoli pesanti e argillosi della Bretagna e della Norvegia, non compresero la differenza con i suoli islandesi e della Groenlandia, esponendoli all'erosione e, alla fine, all'infertilità. Ma ci sono esempi di false analogie anche nel mondo contemporaneo.
Nel secondo caso possiamo collocare una serie di concause similari. "Alcuni problemi sono veramente impercettibili ai loro esordi" – scrive l'autore-, come la progressiva perdita di fertilità del terreno, che oggi è misurabile, a differenza del passato, e che infatti viene attualmente indicata come una della cause di allarme per il futuro dell'agricoltura. Altri problemi riguardano la distanza geografica tra le sedi decisionali e il luogo in cui vengono estratte le risorse, per cui non è infrequente che i responsabili lontani, come nel caso delle multinazionali, tardino a rendersi conto dell'insorgenza di problemi locali. Oppure - aggiungiamo – possono ignorarli a causa della pressione dei mercati finanziari o per nascondere la verità agli azionisti. Ma, in generale, specialmente quando si tratta del clima, i cambiamenti sono graduali e sono celati "da ampie fluttuazioni". L'autore definisce questi aspetti come classici casi di normalità strisciante", ossia la memoria tarda a registrare i mutamenti avvenuti nel corso dei decenni. Come anche nel caso dell'amnesia da paesaggio, il cui cambiamento – come il ritiro dei ghiacciai – è percepibile immediatamente solo da chi torna sui luoghi dopo trenta o quaranta anni, mentre gli abitanti tardano a rendersene conto; oppure, c'è l'esempio delle fluttuazioni climatiche, in cui un inverno rigido sembra immediatamente smentire l'aumento globale della temperatura terrestre.
La terza causa, quella in cui una società si accorge dei problemi insorgenti ma non prova a risolverli, è parecchio più complessa e richiede all'autore la disamina di comportamenti socio-economici storici e la loro interpretazione. A cominciare dalla casistica della cosiddetta scelta razionale, utilizzata da economisti e sociologi per i loro modelli. Questa scelta significa prendere le decisioni in modo utilitaristico, nel senso che "i miei interessi vengono prima di quelli degli altri". In qualche modo, è il modello globale nel quale ci troviamo immersi attualmente. Gli esempi di un tale comportamento collettivamente autolesionistico si sprecano talmente da assumere la fisionomia di una regola predominante, anche se non mancano i modi di agire corretti. Ad esclusione di quelle aziende minerarie che vengono assunte dall'autore come paradigma di una condotta i cui dirigenti approfittano delle carenze normative, dell'assenza di controlli, della debolezza delle strutture amministrative e anche della corruzione, per "perseguire i loro interessi personali guadagnandosi gratifiche e alti salari", mentre creano "disastri ambientali scaricandone il fardello sulla collettività". In Italia, a parte le aziende minerarie, sappiamo bene di cosa si tratta a proposito di spazzatura e di rifiuti tossici, tanto per fare un solo esempio. Un fenomeno non certo confinabile alle note vicende campane, visto che per anni un intreccio perverso tra camorra, faccendieri e imprese del nord e del centro ha utilizzato e stravolto un intero territorio come libera discarica. Si legga, a questo proposito, l'articolo Il boss disse: date a Cesaro di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi sul settimanale l'Espresso, le cui informazioni sono tratte da verbali giudiziari.
Un'altra componente indicata da Diamond concerne il noto dilemma del prigioniero, uno schema proveniente dalla teoria dei giochi e applicabile all'ambiente. In base a questa logica, il comportamento vincente impone di sfruttare una qualsiasi risorsa "prima ancora che lo faccia un altro, anche se ne potrebbe risultare l'esaurimento del bene comune e un danno per tutti".
Ci sono, naturalmente, sistemi di gestione che permettono di amministrare le risorse in modo corretto. L'autore esamina alcuni casi storici e attuali, sia positivi sia negativi. Tra questi ultimi spicca il conflitto tra gli interessi dell'èlite al potere e quelli del complesso della società. In questo caso, giocano numerosi fattori: dalla difesa a oltranza dei privilegi, a un costume sociale che fa del prestigio consumistico e di attività simboliche dispendiose la dimostrazione del proprio potere. In altre parole, il mantenimento dello status quo, assieme alla promessa (magari impraticabile) di accesso a livelli sociali superiori, anche quando la situazione richiederebbe misure e comportamenti che tengano in maggior conto gli interessi generali, sono all'origine di quella spirale competitiva che ha portato all'estinzione alcune società storiche. L'impunità di fatto e/o di diritto assicurata alle élites per le conseguenze delle loro azioni innesca un meccanismo perverso che travolge in genere l'intera società. Ne abbiamo avuto ora un esempio con la crisi dei subprime e con l'intervento massiccio del Tesoro americano che ha caricato sulle spalle di almeno due generazioni di cittadini il debito acceso dall'avidità dei finanzieri; ma i responsabili, quando sono cacciati, se ne vanno con ricche liquidazioni e premi. Qui, in realtà, andrebbe fatta una lunga digressione sulla questione del potere, cui l'autore dedica alcune considerazioni, ma che per la sua centralità nei rapporti umani e sociali richiederebbe un approfondimento maggiore, interpellando una vasta letteratura. Citiamo qui soltanto due tra i libri più recenti e istruttivi, il primo dei quali abbiamo già recensito, Superclass. La nuova élite globale e il mondo che si sta realizzando, scritto da David Rothkopf [Milano, Mondadori, 2008, pp. 480]. Il comportamento di questa superclass, la crisi finanziaria attuale e la recessione in corso possono essere spiegati anche attraverso gli abbondanti esempi e le analisi di Rothkopf. Per quanto riguarda il caso periferico dell'Italia, è particolarmente istruttivo il libro di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti, La paga dei padroni. Banchieri, manager, imprenditori. Come e quanto guadagnano i protagonisti del capitalismo all'italiana [Milano, Chiarelettere, 2008, pp. 278] dove "all'italiana" si riferisce soprattutto al fatto che nel nostro Paese il mercato, spesso invocato con tono serioso e cattedratico, è in realtà piuttosto finto per quelli stessi che ne dovrebbero essere i protagonisti. Per inciso, potremmo renderci meglio conto di come le geremiadi sul Paese bloccato, si tengano prudentemente alla larga dalla causa principale delle difficoltà di crescita e rinnovamento: ossia la struttura del sistema capitalistico italiano.
Ovviamente diverso - tornando alla lista di Diamond - ma spesso compresente, è il caso in cui prevale un comportamento irrazionale che travalica il modello utilitaristico. Valori religiosi e identitari tradizionali, valori laici non sottoposti a critica, oppure il conflitto tra obbiettivi a lungo termine e quelli a breve, rappresentano altrettanti fattori che possono portare all'estinzione una società, bloccandone la capacità di rinnovamento, di adattamento e di autocorrezione. L'autore cita la sorpresa di un analista nello scoprire che a Washington i leader politici concentrano la propria attenzione "su un orizzonte massimo di 90 giorni". È qui che si innesta anche, a proposito delle società contemporanee, uno dei fattori più pericolosi e potenzialmente disastrosi per il futuro del pianeta e della nostra civiltà. Questa concentrazione dell'attenzione (e dei profitti) sulla breve scadenza viene razionalizzata e giustificata dagli economisti neoclassici partendo dall'idea che "i profitti di oggi possono essere investiti e che gli interessi accumulati dopo un certo lasso di tempo rendono più redditizio sfruttare oggi tutta la risorsa in questione, invece di lasciarne una parte del futuro". Abbiamo assistito tutti all'esaltazione acritica, negli anni appena trascorsi, della finanza creativa e delle virtù di quello che è stato definito il turbocapitalismo nello sfruttare la resa borsistico/finanziaria di qualsiasi attività, cioè nello scegliere i risultati a breve rispetto a quelli a medio e a lungo termine. Il fenomeno fa parte di quel comportamento degli executives di cui abbiamo parlato nel precedente Labirinto 17, secondo percorso, La mercatizzazione del mondo.
Il quarto caso descritto da Diamond, quello cioè in cui il gruppo cerca di risolvere il problema insorto ma non ci riesce è anch'esso storico e, minacciosamente, anche una possibilità per il mondo attuale. Di nuovo, vengono citati i vichinghi in Groenlandia che, dopo quattro secoli, non riuscirono a sopravvivere ai cambiamenti climatici, anche perché, prigionieri della propria cultura, si rifiutarono di adottare le tecniche di sopravvivenza degli inuit. Oppure, per venire all'attualità, potrebbe essere il caso dei ricorrenti distruttivi incendi nelle foreste americane, la cui tenuta sotto controllo preventiva costerebbe troppo alla comunità; o anche l'innalzamento del livello dei mari che sommergerebbe molte coste e isole.
Ricapitolando i casi presi in esame dall'autore, accanto alle ragioni economiche e politiche che hanno condotto al disastro le civiltà, si inseriscono quelle psico-sociali, per cui "la psicologia di massa e il pensiero di gruppo sono fenomeni che possono influire sul comportamento in modo più o meno duraturo per ore come per anni: quello che resta incerto è quanto contribuiscano alle decisioni catastrofiche che riguardano i problemi ambientali a lungo temine".
Due sono le questioni fondamentali da tenere presenti in tutti questi nostri percorsi riguardanti la questione ambientale. Sono molto semplici ma non bisogna mai perderle di vista di fronte alla girandola dei dati e delle posizioni che si confrontano producendo un rumore di fondo in grado di disorientare il cittadino e di posporre il momento delle decisioni efficaci, finché non sarà troppo tardi.
La prima – come riassume Diamond - è che "in media ogni cittadino degli Stati Uniti, dell'Europa occidentale e del Giappone consuma una quantità di risorse e produce una quantità di rifiuti 32 volte maggiori rispetto a un africano". Naturalmente, si tratta di una media, con scarti assai sensibili al suo interno. Da un lato, c'è un miliardo di persone e dall'altro ce ne sono 5,5 miliardi che aspirano a raggiungere livelli di vita e di consumo più elevati. Attualmente i tassi di consumo cinesi sono undici volte inferiori a quelli americani, ma se la Cina (assieme all'India) dovesse superare il divario, l'indice di consumo mondiale triplicherebbe e se, come giustamente desiderano, ce la dovessero fare anche gli altri paesi in via di sviluppo, allora l'indice sarebbe moltiplicato per 11. Ha scritto il New York Times che ciò equivarrebbe, agli attuali tassi di consumo, a pensare di sostenere una popolazione mondiale di 72 miliardi di persone! C'è qualcuno abbastanza pazzo da dichiarare che non ci sarebbe alcun problema? Come vedremo in seguito, anche continuando a ridurre la quantità di energia e di materiali impiegati, che pure rappresenta un trend consolidato degli ultimi decenni nei paesi industrializzati, le risorse non basterebbero comunque.
Alcuni esperti sostengono che i paesi emergenti, pur patendo attualmente contraddizioni e disparità immense, "intuiscono che per svilupparsi non possono fare lo stesso percorso che noi abbiamo fatto inquinando e devastando la natura per 200 anni. È inevitabile quindi l'affermarsi di una nuova visione del capitalismo che nasce dalla realtà concreta di questi paesi e che finirà per influenzare anche i nostri modi di vita". È quanto afferma in un'intervista Roberto Panzarani, autore del libro L'innovazione a colori: una mappa per la globalizzazione [Milano, Luiss University Press, 2008, pp. 153], in Fondazione Giannino Bassetti
Si tratta di una speranza, certo, ma per ora ci sembra solo tale, e se il modello economico americano è in crisi non per questo i paesi emergenti o poveri ne presentano uno migliore dal punto di vista ambientale (per non parlare di quello politico-sociale), come nel caso della Cina, che vedremo appresso. Naturalmente, il problema investe anche i bisogni primari; per esempio, uno studio internazionale ha collegato la crescita della popolazione e del benessere al consumo di acqua, scoprendo che dai 3.350 chilometri cubi consumati nel 1998 si passerebbe a 9.259 nel 2050, a prezzi invariati. Le tecniche per conservare, risparmiare e produrre acqua potabile sono già disponibili, ma il punto è che la loro applicazione su scala mondiale costa molto e, soprattutto, sarebbe necessario iniziare da subito a metterle sistematicamente in pratica. [P. Rogers, Affrontare la crisi idrica, in Le Scienze, 482, 2008.
Per converso (e questa è la seconda questione da tenere sempre presente), l'attuale traiettoria di sviluppo e dei consumi può continuare per un periodo di tempo più lungo di quello che si paventa a una sola condizione: che il mondo industrializzato si fermi, che i paesi emergenti si rimangano agli attuali livelli di produzione e di consumo e che il resto del mondo rimanga dove sta ora. Sembra praticabile e auspicabile un simile scenario? D'altra parte, osserva l'autore, "oggi non è politicamente realistico che il leader dei paesi del Primo Mondo propongano ai cittadini di abbassare il loro standard di vita". Anche se ciò, per quanto riguarda la classe media sta di fatto già avvenendo grazie al turbocapitalismo, come abbiamo visto in un precedente percorso.
Continuiamo esaminando la questione della Cina che, assieme all'India, rappresenta già oggi non solo un esempio di successo dello sviluppo (non ne discutiamo qui la qualità e la reale estensione tra la popolazione) e che è solo in parte la causa dell'aumento dei costi delle materie prime su scala mondiale. Oltretutto, "i problemi ambientali [...] stanno rapidamente portando la Cina in Cima a una classifica assai poco lusinghiera, afferma l'autore". Ivi compresi i giganteschi problemi di inurbamento in corso, come segnala Antonio Cappiello nella sua nota su Neodemos.it, In Cina è in atto il più grande fenomeno di urbanizzazione della Storia: "nei prossimi quindici anni, circa duecento milioni di persone migreranno dalle zone rurali a quelle urbane (Yusuf and Saich, 2008), portando la popolazione urbana al 50% circa del totale nazionale. È il più grande fenomeno di migrazione interna della storia", per cui già oggi, nel mondo, "circa 1 persona su 25 è nata o arrivata in un'area urbana cinese". Ora la Cina cerca di frenare l'abbandono delle campagne modificando il regime della proprietà fondiaria ma, in ogni caso, tutti i dodici problemi ambientali elencati all'inizio di questo percorso si presentano nella più grande dittatura del mondo a livello grave, frutto di una crescita vertiginosa e di uno sviluppo sregolato, che sempre più spesso si rovescia sulle popolazioni, talvolta non solo cinesi. Ma il punto riguardante la prospettiva è che se la sola Cina diventerà ricca come i paesi occidentali "l'umanità avrà bisogno del doppio delle risorse attualmente disponibili. Ciò ovviamente è impossibile, e qualcosa dovrà cambiare se vogliamo scongiurare un tracollo globale" – osserva Diamond.
Naturalmente, ciò che preoccupa non è solo il problema dell'esaurimento delle risorse (esamineremo la questione dei picchi dello sfruttamento di alcune materie prime nel prossimo percorso), ma anche il cambiamento climatico determinato dalle attività umane.
Secondo Jeff Tollefson, che scrive su Nature, "lo scenario al 2015 prevede l'aumento delle emissioni di gas a effetto serra, l'ultima versione di modelli climatici delinea un quadro cupo del futuro, se l'economia continuerà secondo il trend attuale. Le situazioni meteorologiche estreme, tra cui la siccità, le tempeste e le inondazioni, sono già in aumento". [ Nature, 455 del 10 settembre 2008, Role-play negotiations test the outcomes of global warming at Washington]. D'altra parte, James Hanson, che è stato a suo tempo il primo scienziato a parlare del riscaldamento globale della Terra, sostiene che gli attuali livelli di rientro dalla concentrazione del biossido di carbonio concordati con il protocollo di Kyoto, fissati a 450 ppm, sono troppo alti e che la soglia minima necessaria sarebbe di 350 ppm. Il che vorrebbe dire l'eliminazione di tutte le emissioni delle centrali a carbone e l'impegno effettivo in una massiccia opera planetaria di rimboschimento. [The Independent del 14 settembre 2008, Phase out coal and burn trees instead, urges leading scientist] Per fare un esempio, il recente inventario del patrimonio boschivo effettuato dal Corpo Forestale dello Stato ha rilevato che l'Italia non è messa così male come potrebbe sembrare (ci sono duecento alberi per abitante). Potremo così "detrarre dalle nostre emissioni circa 25 milioni di tonnellate di carbonio, risparmiando due miliardi e mezzo di euro di sanzioni".
D'altronde, una ricerca condotta in modo più rigoroso e attendibile di quelle precedenti dimostra che l'esposizione a un caldo anomalo riduce la "captazione di biossido di carbonio sia nell'anno di calura, sia nei due anni successivi, fino a un terzo di quanto viene assorbito in anni normali". Aggiunge Paul Verburg, coautore dell'articolo pubblicato su Nature: "Questa notevole riduzione nella captazione netta di CO2 era legata, nell'anno caldo, principalmente alla minore produttività vegetale dovuta alla siccità, mentre il mancato completo ristabilimento della situazione negli anni successivi era dovuto a una stimolazione ritardata del rilascio di CO2 da parte dei microrganismi del suolo in risposta alle condizioni di umidità". Insomma, gli ecosistemi rispondono ai cambiamenti climatici in modo molto più complesso di quanto si supponesse in precedenza. [La risposta degli ecosistemi agli anni caldi, in LeScienzeNews, settembre 2008].
Ma il problema non sembra nemmeno l'aumento della temperatura media in sé. Come hanno messo in evidenza recentemente Michael E. Mann e altri, milioni di anni fa faceva molto più caldo e alcune migliaia di anni fa faceva più freddo (e attorno al 1600 c'è stata quella che è stata definita una piccola glaciazione). Ciò che allarma è l'aumento di 0.7 gradi in un solo secolo, che è una novità preoccupante, destinata quasi sicuramente a produrre un effetto-valanga. [M. E. Mann et al., Proxy-based reconstructions of hemispheric and global surface temperature variations over the past two millennia, in PNAS, 36, settembre 2008]. Esiste ormai un sufficiente consenso scientifico, dopo ampi e mondo. L'aumento del livello del mare, tra valutazioni allarmanti a altre meno disastrose, è scontato. Alcuni studi calcolano che un terzo della popolazione mondiale vive in zone rivierasche, per non parlare delle isole e delle terre basse del Bangladesh e dell'Olanda. Ma se c'è già qualche popolazione che si preoccupa, c'è anche chi guarda al fenomeno fregandosi le mani. Lo scioglimento dei ghiacci mette a disposizione nuove rotte marine, territori da sfruttare per le prospezioni petrolifere e per altre materie prime strategiche. Come si legge nelle cronache internazionali, la corsa al controllo del Polo Nord è già cominciata, per non tacere di quella all'Antartico, e ha già prodotto le prime tensioni politiche. Secondo alcune stime, nell'Artico si trovano da un terzo a un quarto delle risorse petrolifere e di metano ancora da sfruttare. Il cambiamento climatico ha ovviamente influenze geopolitiche ben più vaste avendo già cominciato a cambiare le condizioni di accesso e di sfruttamento di territori immensi, come la Siberia, dove si è scatenata la stessa economia canaglia che abbiamo visto nel precedente terzo percorso. Si veda a questo proposito l'articolo di Leonardo Coen su La Repubblica del 13 agosto 2007, Tra i roghi della Siberia che avvelenano il Pianeta. Tuttavia, a testimoniare la estrema difficoltà di previsioni certe attraverso i modelli climatici, l'inverno del 2008 nell'Asia centrale è stato tra i più freddi con un calo termico dai 15 ai venti gradi rispetto all'andamento normale, ma in estate il permafrost si scioglie fino a profondità inusuali.
Secondo alcune interpretazioni dell'evoluzionismo e delle teorie della complessità, l'accelerazione improvvisa del cambiamento climatico è proprio ciò che ha determinato i picchi di estinzioni del passato, a causa delle difficoltà di adattamento della sfera biologica a mutamenti così repentini. Ma, molti obbiettano, noi abbiamo la tecnologia dalla nostra parte e una civiltà progredita, per cui non c'è molto da preoccuparsi. L'umanità saprà intervenire su scala planetaria per risolvere i problemi che abbiamo sin qui delineato. Può darsi, però di mezzo non c'è tanto una questione tecnologica quanto politica: è questo il problema principale. Un intervento globale richiede un governo globale, cioè il superamento, almeno in larga parte, delle sovranità statali delle grandi potenze e anche delle altre. Per non parlare degli enormi investimenti necessari per una riconversione industriale e produttiva radicale. Non ci pare che, almeno per ora, la tendenza sia questa; a meno di non imbattersi in una situazione catastrofica generale che costringa i governi ad associarsi e a sottoporsi a una disciplina comune obbligatoria, con tutto quel che ne discende in termini giuridici e militari. Con il che torniamo ad alcune delle domande che ci siamo posti nell'introduzione a questi Labirinti.
Jacques Attali, nel libro che vedremo, osserva che "i disastri saranno, ancora una volta, i migliori avvocati del cambiamento". Purtroppo, questo è vero, ma non è particolarmente confortante. Certo, sono stati soprattutto i disastri (come nel caso di Bophal, Exxon Valdez e altri) a spingere alcune compagnie multinazionali, secondo un'inchiesta effettuata da Diamond, a gestire le loro attività in modo non distruttivo per l'ambiente: i disastri e la reazione dell'opinione pubblica. Sicché l'autore può riferire di alcuni campi petroliferi in Guinea invisibili al sorvolo dell'aereo, immersi in una foresta pluviale salvaguardata. Gli impianti e le vie d'accesso sono stati costruiti seguendo criteri del minimo danno ambientale e faunistico. Un successivo approfondimento dell'autore, mette in evidenza come tra i criteri di selezione dei dirigenti della compagnia interessata fosse stata introdotta la sensibilità alle questioni ambientali e uno stile di lavoro partecipativo a tutti i livelli. Può questo limitato esempio (ma altri se ne potrebbero fare) rappresentare una specie di modello di previsione di ciò che potrebbe avvenire su scala globale? In questo casi una serie di catastrofi hanno spinto alcune Corporations a modificare l'organizzazione aziendale in modo da non esternalizzare più i rischi e i danni ambientali. Su scala planetaria, saremo obbligati ad affrontare un cataclisma perché si riformi il sistema socio-economico complessivo dello stesso tipo?
Le osservazioni dell'autore ci dicono che è possibile intervenire prima che ciò avvenga, ma la condizione è che, da subito, le imprese non riescano più a scaricare all'esterno (sull'ambiente e sulla collettività) i costi dell'impatto ambientale, avendo anche compreso che continuare a funzionare secondo criteri predatori della Natura porta anche alla loro autodistruzione. Certo, come minimo, deve cambiare il capitalismo, non più egemonizzabile dalla finanza che continua a credere solo nel breve e brevissimo termine. Ma le prime reazioni alla crisi finanziaria mondiale parlano di una corsa a turare le falle, non ancora a rifare lo scafo.
Naturalmente, non è corretto prendersela solo con la finanza. Per esempio – secondo l'autore – "l'industria mineraria è l'esempio per eccellenza di un'attività commerciale che si sta autodistruggendo per avere anteposto i suoi interessi privati a breve termine agli interessi pubblici". Forse pesano molto, nel sottolineare il ruolo negativo dell'industria mineraria, le preoccupazioni di Diamond per il suo amato Montana, massacrato da imprese estrattive prive di scrupoli. Anche in questo caso, però, non manca qualche esempio di comportamento lungimirante da parte di società minerarie, ma anche da parte di Corporations che difendono il proprio marchio e la propria reputazione imponendo un controllo di qualità lungo tutta la filiera produttiva. La pesca e l'utilizzo del legname sono gli altri due campi di più ravvicinata indagine del saggio. La certificazione di qualità e di correttezza ambientale è diventata una questione strategica, oggetto di guerre tra organizzazioni rivali, non sempre trasparenti. Il punto è: a chi risponde il controllore? In altro ambito economico, la storia delle connivenze delle società di certificazione nei casi di crack finanziario ci dicono che la riposta non può essere il privato, ma ci dicono anche che la risposta non può essere un pubblico diretto da neoliberisti, espressione di quegli stessi ambienti finanziari che pensano solo a breve termine. Come per esempio è avvenuto nel caso di due Segretari al Tesoro degli Stati Uniti, sotto Clinton e sotto Bush, espressione del mondo degli affari e di Wall Street; ora vedremo cosa accadrà con Barack Obama. Anche su questi aspetti si veda il citato libro di D. Rothkopf, Superlcass.
Per Diamond la speranza è nei consumatori, perché "le industrie sono cambiate quando la gente ha cominciato a chiederlo a gran voce, oppure quando ha premiato i marchi che adottavano pratiche virtuose e certificabili, o boicottato gli altri".
L'ultima parte del libro sintetizza le analisi e i problemi esposti nelle pagine precedenti, sottolineando i dodici problemi principali che abbiamo citato all'inizio e che condizionano i nostri rapporti distruttivi con l'ambiente, uno solo dei quali "basterebbe, da solo, a modificare in peggio il nostro stile di vita nei prossimi cinquant'anni". L'autore descrive anche una serie di obiezioni che vengono usualmente fatte a chi si preoccupa dei problemi ambientali, e ne sgonfia i presupposti. Trascriviamo queste obiezioni qui di seguito, lasciando al lettore il compito di verificare la propria posizione e, nel caso, di leggere il libro per confrontarla con le risposte dell'autore:

1. Non si può privilegiare l'ambiente a scapito dell'economia;
2. La tecnologia risolverà i nostri problemi;
3. La fame nel mondo non esiste: c'è da mangiare per tutti, dobbiamo soltanto risolvere il problema del trasporto e della distribuzione del cibo a quei paesi che ne hanno bisogno; con la variante che segue: Il problema della fame nel mondo è già stato risolto dalla scienza, dalle nuove varietà di riso e altre colture che danno raccolti molto abbondanti, oppure sarà risolta dalle colture geneticamente modificate;
4. Come si deduce da alcuni indicatori, quali la durata media della vita umana, la salute e il PIL pro capite, le condizioni di vita sono andate, in realtà, migliorando negli ultimi decenni; con la variante che segue: Basta guardarsi intorno, l'erba è ancora verde, i supermercati abbondano di beni alimentari, dai rubinetti scorre ancora acqua pulita e non c'è alcun segno di crollo imminente;
5. Si pensi a quante volte in passato gli ambientalisti hanno fatto gli uccelli del malaugurio, predicendo catastrofi che non si sono realizzate. Perché mai dovremmo crederci questa volta?
6. Le preoccupazioni ambientali sono un lusso che si possono permettere soltanto i ricchi yuppie del Primo Mondo, che non hanno alcun diritto di dire ai poveri del Terzo Mondo ciò che devono o non devono fare;
7. Non è possibile applicare direttamente alla nostra società le lezioni del passato, perché ci sono enormi differenze tra il mondo moderno e l'isola di Pasqua, o tra noi e i maya; con la variante che segue: Ma cosa si può fare, a livello individuale, quando il mondo è in realtà plasmato dalle potenze mostruose e inarrestabili di governi e grandi imprese?

A dire il vero, spesso le obiezioni non sono formulate in modo così civile. Basta dare una scorsa su Internet ai siti critici nei confronti dell'ambientalismo per imbattersi in attacchi violenti e spesso al limite del turpiloquio, frazione impresentabile di una vasta opinione pubblica o ancora molto indifferente o dedita, soprattutto in Italia, allo sport preferito di scaricare su altri responsabilità e oneri di un corretto rapporto con l'ambiente. Ebbene, da questo punto di vista sembra che l'unica speranza con cui si conclude il saggio di Diamond non sia del tutto incoraggiante, visto che "ridurre il proprio stile di vita spontaneamente è una cosa inverosimile, ma è anche la soluzione meno irrealistica tra tutte le altre che prevedono la nostra sopravvivenza". Sarà dura. Discutendo con un tecnico della possibilità di installare pannelli solari al posto di caldaie a gas per il riscaldamento, di fronte alle considerazioni sulla possibilità che la fornitura di gas potesse prima o poi avere dei problemi, il tecnico ha osservato che ciò sarebbe forse successo da qui a trent'anni. Come dire: "Di cosa ti preoccupi? Tra trent'anni sarai morto". Abbiamo osservato che tra trent'anni suo figlio sarà vivo. È rimasto interdetto: non ci aveva pensato.
Riprenderemo più avanti la questione dello stile di vita del mondo sviluppato e degli altri o della sobrietà, in altri tempi definita come austerità.

Quinto percorso - Conflitti per l'equità

Sachs e Santarius

Qualche perplessità nei confronti del Rapporto curato per il Wuppertal Institut da Wolfgang Sachs e Tilman Santarius, Per un futuro equo. Conflitti sulle risorse e giustizia globale, Milano, Feltrinelli, 2007 pp. 292, non deriva dalla credibilità delle analisi sulla iniqua spartizione delle risorse globali del pianeta o dall'allarme sui limiti ormai superati dello sfruttamento dell'ecosistema. Il Wuppertal Institut è un centro di ricerca no-profit tedesco la cui missione riguarda la sostenibilità ambientale; pubblica regolarmente dei rapporti in materia, nonché approfondimenti tematici. Di un altro libro di Wolfgang Sachs ha già scritto in questo sito Manlio Maggi, su I fallimenti dello sviluppo.
I due aspetti evocati del problema sono trattati in modo rigoroso e con dati difficilmente contestabili. Qualche dubbio deriva dai percorsi elaborati per evitare l'incombente crisi. Le misure suggerite, nella maggior parte dei casi, sembrano del tutto razionali e anche ben calibrate, tuttavia gli stessi autori, a un certo punto del libro, osservano che lo stile di vita sobrio, necessario per rendere compatibile uno sviluppo diverso da quello del passato e per estendere un certo benessere alla maggior parte della popolazione mondiale, non è redditizio per il capitale. Il modello che viene proposto, come vedremo meglio più avanti, è quello della contrazione e convergenza tra i popoli della Terra come risposta a un interrogativo secco: quale globalizzazione è sostenibile per il futuro? Il concetto di sviluppo sostenibile è infatti la chiave di lettura del libro, la cui fondatezza e la cui praticabilità sono tuttavia negate da altri autori più radicali, come vedremo in seguito.
Il fatto è che, anche se in larga parte condivisibili, i percorsi di riforma proposti prendono scarsamente in considerazione le resistenze e le vere e proprie rivoluzioni sociali che essi comportano e sembrano più affidati alla buona volontà che all'interrogativo di come rimuovere certi meccanismi economici e certi assetti politico-istituzionali affinché la situazione torni sotto controllo. Tutto ciò, nonostante che nel libro si dedichino alcuni paragrafi al ruolo delle istituzioni internazionali e all'Europa. Si può certamente sostenere che già il diventare coscienti dei pericoli della situazione attuale rappresenti un passo in avanti importante; tuttavia è chiaro che senza concrete e praticabili indicazioni operative, e la capacità di soggetti collettivi di rappresentarle, la sola presa di coscienza risulterà passiva e impotente.
Il campanello di allarme da cui parte il Rapporto del Wuppertal Institut è rappresentato dalle tendenze globali delle attività umane, così come sono organizzate, che stanno cambiando da circa un secolo l'ecosistema in modo rapido e con un'ampiezza mai raggiunta nel passato. La constatazione, come abbiamo già sottolineato, è che le risorse terrestri, al contrario di quanto ha ritenuto a lungo l'economia, sono finite e molte non sono rinnovabili. Il saggio documenta che "le attività della tecnosfera superano già quelle dell'ecosfera". In altre parole, stiamo abbondantemente intaccando il capitale naturale, sottraendolo ai nostri discendenti. Così stando le cose, la questione della giustizia, indicata fin nel titolo del libro in termini di equità, rimane centrale in tutte le società umane, in quanto "non si può pensare di ottenere una maggiore giustizia nel mondo diffondendo su scala planetaria il modello di benessere occidentale, perché esso ha un costo troppo alto, spreca troppe risorse e finirà per distruggere la biosfera".
La durata della disponibilità delle risorse naturali è uno dei punti chiave delle discussioni tra ottimisti e pessimisti, per semplificare in questo modo le posizioni. Il Rapporto riassume la situazione generale con dati tratti dalle rilevazioni di organismi internazionali e da studi di settore, con l'avvertenza che a tre anni dalla pubblicazione la situazione è peggiorata.

Atmosfera: gran parte del riscaldamento del clima negli ultimi cinquanta anni è dovuto ad attività antropiche: prima della fine del XXI secolo la temperatura media globale dovrebbe salire tra 1,4 e 5,8 gradi, a seconda del tipo di sviluppo.
Zone umide: essenziali per il bilancio idrico e per la biodiversità sono già andate perdute per più del 50% nell'ultimo secolo.
Biodiversità: l'estinzione delle specie dovuta alle attività antropiche procede a ritmo accelerato, tanto che si parla della sesta grande estinzione nella storia della Terra, il che aggrava, tra l'altro, l'instabilità degli ecosistemi
Terreni e campagne: ormai più del 50% della superficie terrestre è completamente antropizzata, ma il 23% ha subito un costante peggioramento della qualità (pesticidi, superfruttamento, irrazionalità dei sistemi di coltura) riducendone la produttività; il 15% del terreno (una superficie superiore a quella del Messico e degli Stati Uniti) ha subito un'erosione dovuta alle attività umane.
Acqua: più del 50% di quella disponibile è utilizzata per le attività umane (il 70% per l'agricoltura), mentre dovunque sono state ormai intaccate anche le falde acquifere profonde.
Foreste: in 29 paesi, a partire dal XVI secolo è andato perduto il 90% delle foreste; nell'ultimo decennio del secolo scorso ne è andato perduto un altro 4,2% soprattutto nel Sud del mondo.
Riserve ittiche: come abbiamo già segnalato in un precedente percorso, il 25% delle riserve ittiche è andato perduto o in via di esaurimento, mentre un ulteriore 50% è già utilizzato al massimo biologico consentito; in ogni caso negli ultimi trenta anni del secolo scorso la riserva ittica mondale si è pressoché dimezzata.

Dobbiamo dire che altri autori, niente affatto contrari alla globalizzazione o sospettabili di catastrofismo per partito preso, come Jacques Attali nel suo libro Breve storia del futuro, forniscono un quadro ancora più fosco, nonostante il suo maggiore ottimismo sull'esaurimento delle risorse di base. Per esempio, a circa metà di questo secolo la disponibilità di acqua potabile per abitante si ridurrebbe a 4.000 metri cubi annui, dai 15.000 metri cubi che era nel 1900 (oggi 8.000). Mentre, al ritmo attuale di sfruttamento, tra 40 anni non ci saranno più foreste, salvo quelle protette (in America del nord e in Europa). Per l'Europa del sud, i rapporti dell'IPCC, a cominciare da quello del 1997 che valutava le incidenze regionali del cambiamento climatico, si sottolinea che la diminuita piovosità colpirà la resa delle colture e aggraverà la competizione tra usi civili e agricoli dell'acqua. Il successivo Climate Change and Water (VII chapter) del 2008 segnala che nell'Europa mediterranea lo scioglimenti dei ghiacciai diminuirà la portata dei fiumi e che nel 2050 ci sarà una potenziale riduzione della disponibilità di acqua tra 30% e il 70%. Ma nel Mezzogiorno italiano, ancora oggi, ci sono punte del 70% di dispersione di acqua.
Consumiamo dunque più risorse di quante la natura ne generi. In qualsiasi economia, anche familiare, ciò significherebbe, se non si arrestasse la tendenza, finire in bancarotta. Ma il problema della Terra è che non c'è una seconda chance e che il suo incontrollato sfruttamento porterà a conflitti per l'equità della spartizione delle risorse, perché "con il livello di consumo dei paesi industriali è impossibile ottenere una maggiore giustizia". Il fatto è che la cultura dominante è abituata a pensare da molto tempo che l'uomo vive nell'ambiente e non con l'ambiente. Se vogliamo è la vecchia polarizzazione ereditata dalla cultura greca, e in seguito generalizzata, che vede da un lato le persone e dall'altro la natura (comprensiva ovviamente degli altri esseri viventi).
Ora, l'interrogativo pressante di cui occorre trovare una soluzione è: qual'è il costo di una riconversione (economica, sociale e politica) tale che si possa raggiungere un equilibrio? Qual'è l'entità delle risorse necessarie per finanziare contemporaneamente un corretto sviluppo dei paesi poveri? L'attuale crisi mondiale, l'enormità delle risorse dirottate per tamponarla e la recessione in marcia, rendono ancora più drammatiche queste domande. Le riposte sono ulteriormente complicate da un sistema economico che, almeno per ora, non sembra in grado di liberarsi da un potere deforme aggrappato alla miope difesa di interessi di breve termine, perché poggia le sue fortune proprio su questo. Oltre tutto, la contrazione dei consumi/recessione rende non solo beffarda la promessa di un'elevazione del tenore di vita della popolazione mondiale nel suo insieme, ma abbassa i consumi attuali anche degli strati più poveri delle popolazioni, oltre a incrementare il numero di chi vi entra a far parte.
Una volta tanto, ha ragione Jeremy Rifkin - di cui non abbiamo a suo tempo apprezzato affatto né condiviso l'entusiasmo per il suo libro La fine del lavoro - quando sostiene che la crisi attuale non è solo di carattere finanziario ma coinvolge il problema energetico e la questione dell'ambiente. Per fare un esempio di casa nostra, il governo in carica è stato molto veloce nel tentativo di sganciarsi dagli obblighi dettati dall'Unione Europea per il risparmio energetico e per la riduzione delle emissioni che cambiano il clima, adducendo la scarsità di risorse disponibili. "...L'Europa ha scoperto che una maggiore efficienza energetica dà beneficio all'economia stessa e alle imprese. Il loro impegno ha portato alla nascita di nuove tecnologie, di industrie e alla creazione di decine di migliaia di posti di lavoro. Le imprese hanno fatto qualche investimento iniziale per potenziare i propri impianti, diventando sempre più competitive quanto più i costi dell'energia salivano" – scrive Steven Hill, direttore del Political Reform Program su Cafebabel.com. L'Europa.... e l'Italia?
Non saranno l'ideologia neoliberista e il modello americano, che hanno prodotto fin qui i danni maggiori, a poter fronteggiare le emergenze. Essi non sono la riposta ma il problema, per parafrasare al contrario un detto di Ronald Reagan. Essi non possiedono le soluzioni anche perché partono dal presupposto che il capitale naturale sia inesauribile. Ciò non vuole però dire, come spesso accade di leggere e sentire, che concetti come sviluppo, progresso e così via, siano interpretabili solo in quella chiave.
Anche se - scrive Telmo Pievani in Etica della contingenza (e neuroni anti-darwiniani), in Micromega, numero speciale, novembre 2008 -, "il concetto di progresso è alquanto scivoloso e si misura sempre a posteriori", quello di evoluzione, anche culturale, non può essere negato e si può averne una nozione sensibilmente diversa da quella storicamente invalsa, senza che ciò comporti scartare il termine. Per quanto riguarda il concetto di sviluppo, come mettono in evidenza numerosi studi, esso potrebbe essere riorganizzato attorno a indicatori non solo quantitativi e, soprattutto, a una visione integrata della vita e delle risorse terrestri. C'è un confronto in corso, spesso aspro, anche nell'ambito delle diverse discipline sociali, su questi problemi, ma ci permettiamo di segnalare la caduta di comprensibilità se non di stile dei due autori, quando scrivono che "gli economisti, di qualsiasi colore politico, sono tutti profeti di un futuro roseo. La fiducia nel progresso sta all'economia come la fede alla teologia". A parte il fatto che ciò non è vero e che la storia recente è piena di economisti inascoltati che si sono affannati a documentare e a denunciare come il turbocapitalismo stesse correndo verso un burrone, quella di Sachs e Santorius ci sembra una battuta sarcastica che suona molto come una ripicca accademica.
Piuttosto, occorre chiarire il modo in cui si affronta il problema, consentendo questa volta con gli autori del Rapporto che "l'ecologia non difende la natura ma le possibilità di una prospera convivenza sul pianeta". E aggiungono però che una società cosmopolita o globale "è immaginabile soltanto sulla base di un benessere leggero nell'uso delle risorse." Cosa significa esattamente "benessere leggero"? Ci sembra che si alluda di nuovo al concetto di sviluppo sostenibile che da tempo è al centro di discussioni. Per una rassegna della questione, si veda comunque il già citato articolo di Manlio Maggi, I fallimenti dello sviluppo su questo stesso sito.
Torniamo ora a quel modello di contrazione e convergenza a cui abbiamo già accennato. In pratica esso postula che mentre la parte più ricca della popolazione mondiale deve ridurre la quantità e la composizione dei consumi, la parte più povera li debba incrementare, ma lungo una linea virtuosa. A guardare il grafico, la cosa è molto semplice.

diagramma

Troppo armoniose sono le curve per essere realistiche. Ovviamente, si tratta di un modello ideal-tipico/tendenziale in cui l'andamento reale delle assi comprenderebbe guerre commerciali e probabilmente guerre combattute, crisi economiche devastanti, sommovimenti sociali violenti e cambiamenti politici radicali che potrebbero avere esiti opposti dal punto di vista della democrazia; nonché cambi culturali radicali, profondi mutamenti nelle abitudini di consumo e di vita e, in definitiva, una rivoluzione geopolitica. Per la verità, alcuni di questi fenomeni hanno già iniziato a manifestarsi.
Si può prendere il caso dell'agricoltura, sapendo che le terre coltivabili della Terra sono circa 13 miliardi di ettari e che i paesi industrializzati ne hanno a disposizione circa un terzo. Occorre però sottrarre le aree forestali (4 miliardi di ettari), i deserti e le steppe, per cui soltanto circa 5 miliardi di ettari sono impiegati per l'agricoltura, tra pascoli e coltivazioni. "Le aree coltivabili non sono riproducibili a piacimento", se non a costi crescenti, e se negli ultimi dieci anni sono aumentate del 10%, nel frattempo la popolazione è raddoppiata, per cui la disponibilità pro capite è scesa da 1,46 a 0,82 ettari, con forti sbilanciamenti regionali (in Asia, per esempio, la disponibilità è di 0,17 ettari pro capite). La produzione agricola nei paesi industriali supera del 30% quella dei paesi in via di sviluppo e, se si guarda alla sola Europa, essa è addirittura doppia. L'impiego di maggiori macchinari, fertilizzanti, pesticidi e energia hanno permesso questo risultato, senza il quale "la popolazione mondiale avrebbe bisogno del 30% in più dei terreni", a consumo costante. Non affrontiamo qui la questione degli OGM, oggetto di dispute accese. Il tema dei miglioramenti nutrizionali attraverso la genetica richiede uno spazio di riflessione a sé stante. Per un approccio non rituale alla questione si veda comunque l'articolo di Paolo Manzelli sugli Organismi biologicamente modificati (O.B.A.), in questo stesso sito.
Come abbiamo già accennato in precedenza, le maggiori risorse biotiche (biodiversità) si trovano però nel Sud del mondo. Ora, questi freddi dati nascondono una realtà drammatica, perché non è affatto vero che l'uso del suolo da parte dei paesi industrializzati è confinato alle loro aree geografiche. Attraverso l'importazione di materie prime e prodotti agricoli non lavorati nei paesi di origine - in regime di non equità - la sola Europa sfrutta 43 milioni di ettari in più, pari a un 20% del suo territorio. Il fatto è che in genere i paesi del Sud sono forzati verso le monoculture destinate alle esportazioni, piuttosto che al consumo locale e al commercio regionale; per non parlare delle immense proprietà agricole delle multinazionali, che rappresentano da questo punto di vista l'equivalente di un'annessione territoriale. La ragione è molto semplice: quei paesi hanno bisogno di valuta internazionale per ripagare il debito estero e, nello stesso tempo, pagano il differenziale tra il valore delle materie prime che esportano (non solo nel caso dell'agricoltura) e quello dei prodotti finiti, che importano e che aumentano il debito estero. Il che significa poi, in parole povere, che la disponibilità pro capite di fatto delle aree coltivabili da parte degli abitanti nel Nord è molto superiore a ciò che dice la geografia "statica". Alla fine, è come se ognuno di noi consumatori, sia pure per una piccola quota, occupasse un pezzo di terra in uno qualsiasi dei paesi del Sud.
Se negli ultimi tempi il costo delle alimentazioni di base è aumentato, generando anche vere e proprie rivolte in circa quaranta paesi, c'è da dubitare che ne abbiano usufruito i produttori. Ci si è affrettati a incolpare la Cina, che ha necessità di consumare una maggiore quantità di derrate alimentari, ma il grosso degli aumenti è stato generato alle speculazioni finanziarie del Nord, gemelle di quelle sul petrolio, a copertura della voragine finanziaria preannunciata che si è spalancata nel settembre scorso. Sul tema delle recenti speculazioni finanziarie sul petrolio, si veda comunque l'articolo di Margherita Paolini, Frontiere sull'abisso, in Limes, 5, 2008. C'è un'inchiesta del Congresso USA in corso, ma secondo alcune fonti almeno il 40% dell'aumento del prezzo del petrolio è stato causato dalle manipolazioni virtuali di società finanziarie, come la Goldman Sachs, passata ora sotto la tutela del Tesoro.
Del resto – continuano Sachs e Santorius - negli ultimi venti anni del secolo scorso "i prezzi di diciotto beni agricoli basilari erano diminuiti del 25%, con picchi per il cotone del 47%, caffè 64%, riso 60,8%, cacao 71%, zucchero 76,6%", proprio quei beni in genere prodotti dal paesi del Sud, aggravando il loro debito estero. E non ci pare che i consumatori del Nord ne abbiano avvertito un beneficio, se non attraverso la diminuzione del costo del lavoro su taluni prodotti, derivante dallo spostamento delle produzioni industriali in altri paesi. Mentre, cosa ben più grave, il numero degli affamati è cresciuto, secondo gli stessi dati della FAO. Ora due economisti della Scuola di Chicago (sì, proprio quella che ha dato il via teorico al neoliberismo sfrenato), Christian Broda e John Romalis, hanno pubblicato sull'Economist il saggio Inequality and Prices: Does China Benefit the Poor in America?, nel quale si tenta di sostenere che la forbice tra ricchi e poveri è meno accentuata di quello che in genere si sostiene, perché il tasso di inflazione non è lo stesso per i ricchi e per i poveri. Questi ultimi avrebbero infatti beneficiato di merci a prezzo minore importate soprattutto dalla Cina, mentre i prezzi delle merci di maggior pregio consumate dai ricchi hanno subito degli aumenti. Il saggio era del marzo scorso e si riferiva agli Stati Uniti.
A questo punto si pone anche il problema dell'impronta ecologica, che è un indice statistico utilizzato per calcolare la domanda umana (e il consumo) nei confronti della natura. Ci sono critiche su criteri adottati per misurare l'impronta ecologica (si veda la voce su Wikipedia), ma assumendo questo approccio come valido in via di larga massima, nel 1999 – scrivono gli autori - "l'impronta ecologica dell'uomo ammontava a circa 13,5 miliardi di ettari. La biocapacità globale della Terra ammonta invece solo a 11,4 miliardi ettari". Uno sfruttamento del pianeta del 20% in più di quanto possa sostenere. Il problema nel problema è che l'impronta ambientale pro capite dei paesi industrializzati è di 6,5 ettari, mentre nei paesi in via di sviluppo è di 1,5 ettari. Questo nonostante questi ultimi occupino il 58% dello spazio geografico. Naturalmente, all'interno delle singole società c'è poi una correlazione tra i livello dei redditi e l'impronta ecologica, per cui a redditi medio-alti corrisponde un'impronta più alta. Tralasciamo di parlare del concetto di zaino ecologico, di cui scrivono gli autori, che consiste nella misurazione del consumo ambientale contenuto in ogni unità di merce importata, da cui si può ricavare un apparente paradosso: più i paesi del Nord diventano virtuosi dal punto di vista ecologico, più riescono a scaricare e moltiplicare su quelli del Sud il peso del massacro ambientale. Nel senso che importano merci il cui zaino ecologico è sempre più pesante, ma i cui danni restano nei paesi più poveri.
Riprenderemo con Joseph Stiglitz l'analisi del commercio internazionale, per vedere quanto sia confermata l'osservazione di Sachs e Tillman che "l'ascesa della cultura industriale euroatlantica è da scrivere in buona parte alla possibilità di accedere a due importanti riserve: le materie fossili della crosta terrestre e quelle biotech delle (ex) colonie".
Quello che interessava mettere qui in evidenza è che la pratica di quella "curva armoniosa" che abbiamo visto, comporterebbe in questo caso l'abbattimento delle tariffe doganali che proteggono le produzioni agricole del Nord e la fine dei finanziamenti pubblici all'agricoltura, la diversificazione dell'agricoltura del Sud per rifornire di più i mercati regionali, una serie di riforme agrarie che, come nel caso del Brasile, susciterebbero scontri armati (di fatto già esistenti a bassa intensità), un depotenziamento del predominio delle multinazionali nel commercio intercontinentale e, last but not least, una radicale riforma del WTO e la modifica della gestione unilaterale delle regole da parte dei paesi industrializzati: Stati Uniti in testa, ma con l'Europa al suo fianco. C'è da immaginarla la reazione francese e danese, ma anche degli altri paesi dell'UE, alla cessazione degli aiuti all'agricoltura dal punto di vista sociale e della tenuta politico-istituzionale dell'Unione.
Comunque, esiste già un interessante movimento che si muove in direzione di una valorizzazione delle produzioni locali e di un accorciamento della filiera produttiva agricola e non si tratta soltanto del commercio equo e solidale e di altre forme economiche in via di sperimentazione, perché la Wall Mart, il gigante americano della distribuzione che si fregia anche di feroci politiche del lavoro e antisindacali, ha annunciato che nei propri supermercati darà la precedenza alla vendita di generi alimentari prodotti dall'agricoltura regionale circostante. Come si vede, può essere vero che la pressione dell'opinione pubblica e la potenza dell'immagine riescano a esaltare la capacità di adattamento delle multinazionali (come sottolineava Diamond); tuttavia, senza che ciò comporti una maggiore virtuosità dal punto di vista dei rapporti sociali: dipende dai paesi in cui esse operano.
In buona sostanza i "grandi consumatori" dei paesi industrializzati, ossia una quota grande della popolazione, peraltro già in diminuzione forzata a seguito del peggioramento delle condizioni di vita, dovrebbero ridurre, di un buon 20% il consumo di risorse rinnovabili del pianeta, tanto per cominciare. Questo perché "circa il 25 per cento della popolazione mondiale utilizza il 75 per cento delle risorse globali". La curva di decrescita dei paesi del Nord (anche se gli autori non utilizzano questo termine) dovrebbe perciò, quanto al prelievo delle risorse:

continua con la seconda parte

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