- seconda parte -
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Questo è ciò che servirebbe, secondo Sachs e Tillman, per collocare il nord del mondo sull'asse della curva di contrazione e convergenza. Naturalmente, il concetto di equità, che giustamente accompagna il Rapporto come uno dei valori non negoziabili da riconquistare nel corso della vera e propria riconversione mondiale che si reputa necessaria, sostiene tutta l'impalcatura di un'emergenza generatrice di conflitti, una impalcatura tuttavia obbligata, se non si vuole andare verso un'involuzione o un regresso della civiltà umana.
Equità vuole dire, ovviamente, attenzione al tema dell'eguaglianza, che è uno dei pilastri fondamentali della democrazia. Ma abbiamo visto nei precedenti percorsi come la forbice tra ricchi e poveri si sia ferocemente aperta in questi anni a causa del turbocapitalismo, pur avendo esso permesso a milioni di persone di entrare nella fascia del benessere o del quasi-benessere. Ora, a parte il fatto che le statistiche sulla povertà, come quelle della Banca mondiale, sono oggetto di serie critiche a causa dei calcoli utilizzati per definire le soglie di povertà, in quanto non considerano il potere di acquisto reale all'interno delle singole società, c'è un calcolo che più di tutti gli altri viene ritenuto attendibile dagli specialisti ed è il cosiddetto coefficiente di Gini. Tra l'altro, l'indice di benessere umano delle Nazioni Unite, che prende in considerazione anche altri parametri, oltre a quelli puramente quantitativi mostra che "il legame tra lo sviluppo economico e l'appropriazione di risorse", non è così stretto come lasciano intendere gli usuali indici economici - scrivono gli autori. Secondo alcuni studi il divario tra ricchi e poveri, che nel 1960 era di 30 a 1, nel 1998 era diventato di 74 a 1.
Si tratta di un metodo per misurare la distanza tra la parte più povera e quella più ricca della popolazione, cioè il tasso di disuguaglianza, per cui si rappresenta una società in modo tripartito (ricchi, classe media, poveri). Il recentissimo rapporto Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries dell'Ocse, che è un'organizzazione tra i trenta paesi più industrializzati non certo accusabile di anticapitalismo, certifica che negli ultimi decenni la crescita economica ha favorito i più ricchi. L'Italia, per inciso, è il sesto paese in cui il divario è più forte (dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia) e il secondo dopo gli USA nell'ambito del G7. Peraltro, è interessante correlare l'andamento italiano del coefficiente alle varie coalizioni succedutesi al governo: dice molto di più delle dichiarazioni gridate sui media sugli effetti reali delle politiche governative. Ma, a questo punto, anche sulla scorta delle approssimative dichiarazioni rese sui media italiani e che ingenerano consusione, ricordiamo che la nozione di classe media qui usata è quella americana, nella quale è compreso tutto il lavoro dipendente. Sul punto specifico dell'Italia, poi, si veda la nota di Claudio Treves, coordinatore del Dipartimento politiche del lavoro della Cgil, Le diseguaglianze crescono in Italia più che nel resto del mondo, il quale sostiene ironicamente che da questa correlazione risulta "sufficientemente chiaro che non è proprio indifferente l'orientamento, di destra o di sinistra".
Come se non bastasse, la cosiddetta uguaglianza delle opportunità, richiesta come correttore di un sistema iniquo e come base per un reale funzionamento del mercato, è clamorosamente smentita dal blocco della mobilità sociale e dalla particolare configurazione del sistema, in Italia più degli Stati Uniti e altrove, e fatti salvi i paesi emergenti.
Tuttavia, l'equità tra gli esseri umani non basta, perché una volta che fosse raggiunta rimarrebbe pur sempre fuori quella nei confronti della Natura (che è poi l'adozione di attività non autodistruttive da parte dell'umanità). In sostanza, non si può ignorare la variabile ambientale, per cui ci sarebbero da aggiungere due ulteriori obbiettivi a quelli sopra riportati:
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Per farla breve, "l'economia transnazionale basata sui grandi consumi deve ristrutturarsi in modo tale che alla fine non abbia più bisogno di considerare la Terra una miniera o una discarica".
Ora, a parte i valori di fondo da condividere che ispirano le ricette degli autori per uscire dalla pericolosa e iniqua situazione attuale, temiamo però che i loro suggerimenti si appoggino a una concatenazione di concetti-prescrizioni che postulano un mondo già reso universale nella condivisione soggettiva di un unico destino e di un governo planetario. È evidente che il destino dell'umanità è comune, se non altro proprio dal punto di vista del rapporto con la Natura, e che sembra necessario anche dal punto di vista politico, se si vuole evitare un disastro, ma ci sembra che l'accumulo di considerazioni del tipo: "il fulcro della globalizzazione non sta nel garantire a tutti i cittadini del mondo una vita prospera, ma nel lasciare a tutti la libertà di perseguire il proprio progetto di vita soddisfacente"; oppure che "nessuno può fondare le proprie azioni su principi non universalizzabili, ovvero che non possano essere accettati da tutti gli altri"; o, ancora, utilizzando una massima di derivazione kantiana che "l'ingiustizia può essere definita in questi termini: le istituzioni politiche ed economiche sono ingiuste quando si fondano su principi che non possono essere adottati da tutte le nazioni", siano discretamente asimmetriche, per usare un eufemismo, generando una specie di loop che porta all'immobilismo totale o a una serie di conflitti per interromperlo. In altre parole, è l'oscillazione/contraddizione tra la rivalutazione del comunitarismo come regolatore autogestito del pianeta e l'intangibilità dei diritti universali, che alimenta alcune delle posizioni espresse nel campo dei sostenitori di uno sviluppo sostenibile o della decrescita.
È però vero che il Rapporto non si sottrae alla necessità di riflettere sui due filoni interpretativi sullo scambio equo. Al di là delle diverse varianti, si possono individuare due linee storiche:
1. quella del valore oggettivo, che va da Tommaso d'Aquino, a Marx, a Georgescu-Roegen, secondo la quale "è la quantità di natura o di lavoro insita in un prodotto a determinarne il valore":
2. la teoria del valore soggettivo (dall'economia classica al neoliberismo), secondo la quale "il valore dipende dalla quantità di un prodotto nella relazione tra domanda e offerta".
Per gli autori, entrambi le linee sarebbero al contempo coerenti ed erronee, scaturendo da due diverse prospettive: la prima si preoccupa molto della giustizia, la seconda dell'efficienza. Ora, non per semplificare e senza entrare nel merito di un confronto politico-culturale che dura da un paio di secoli, a noi sembra che fenomeni come la globalizzazione, l'esponenziale incremento delle merci e degli scambi, il sopravvento di un'economia finanziaria speculativa su quella reale (o, forse, l'intreccio strutturale tra le due), in una parola, quello che abbiamo chiamato turbocapitalismo, entrato oggi in crisi, derivino da una svalorizzazione radicale proprio della natura e del lavoro. Senza con ciò disprezzare affatto il valore dell'efficienza né schiacciare l'uno sull'altro i fattori indicati. Per quanto, non bisogna dimenticare che si può essere dannatamente efficienti nel prendere decisioni che vanno a scapito della maggioranza delle persone. E non stiamo parlando di ipotesi astratte. Ma qui si aprirebbe un campo di riflessione e di letture che ci porterebbe troppo lontano, anche se si tratta di questioni strettamente connesse al tema in discorso.
Il punto è - osservano gli autori - che, storicamente parlando, nelle relazioni commerciali "chi ha già prende di più", ma il problema è che da reti commerciali storicamente limitate, seppure estese, si è passati a una rete commerciale globale nella quale non viene realizzata una giusta ripartizione "tra chi mette a disposizione le risorse e chi immette sul mercato i prodotti realizzati attraverso di esse". Il caso della filiera del tessile è esemplare: solo il 2% va al produttore di materie prime, uno scarso 20% al lavoro e la fetta più grossa del 78% va alle funzioni di servizio variamente configurate, le quali sono in genere dislocate nel Nord del mondo. Si tratta di un sistema esteso a tutto l'apparato produttivo/commerciale, per cui l'appropriazione di natura/lavoro è facile e a buon mercato. È per questo che la questione del prezzo giusto è stata tenuta dai paesi industrializzati accuratamente fuori dalle trattative commerciali svolte nell'ambito dei vari rounds del WTO: è da qui che nasce la sovrapposizione tra squilibrio economico e squilibrio ecologico. Dal punto di vista del destino delle popolazioni ciò significa che il mercato attuale favorisce l'integrazione del 20% della popolazione (i grandi consumatori) e la segregazione dell'altro 80%.
Nonostante le fastidiose trombette che in questi anni hanno moltiplicato il rumore di fondo sulle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità, ottundendone la soglia critica, sembra che stiamo ormai scivolando verso un baratro. Vedremo ora se il consesso dei paesi più ricchi che si stanno riunendo a Washington proprio in questi giorni riuscirà a produrre qualcosa di più di aggiustamenti pro-ciclici. Non si tratta di essere pessimisti o ottimisti, ma di considerare almeno la maggior parte degli elementi del problema e misurare l'efficacia delle azioni che si stanno praticando e si praticheranno in rapporto alla loro complessità. Nulla per ora lascia pensare che i governi saranno in grado di sfuggire a quella stretta sul mondo esercitata da quella superclass di cui parla David Rothkopf.
Non ci riferiamo solo alla questione del crack finanziario, ma alle ragioni di fondo in cui sembra che il modello di sviluppo imperante sia arrivato al capolinea. Il Rapporto del Wuppertal Institut analizza le riserve economiche stimate delle materie prime minerali, il cui volume dipende dal prezzo e dallo sviluppo delle tecnologie. "Nel complesso – osservano gli autori – il Nord ha meno scorte di materie prime non rinnovabili, reperibili per lo più nei paesi del Sud". Ciò naturalmente spiega quasi completamente l'origine dei conflitti geostrategici da oltre un secolo. Alcune tabelle che corredano il capitolo documentano l'appropriazione delle risorse da parte del Nord a detrimento del Sud. Il caso dell'energia è illuminante.
Si discute molto se l'estrazione del petrolio abbia o meno raggiunto il suo picco (oil crunch o il cosiddetto picco di Hubbert). Secondo alcuni, per esempio Alberto Di Fazio, fisico responsabile italiano del Progetto Igbp/Aimes (Analysis, Integration, and Modeling of the Earth System) e presidente del Global Dynamics Institute, accreditato presso l'IPCC, "non si può più fare quello che si è fatto per oltre 100 anni: pompare sempre di più moltiplicando i pozzi. Su più di 90 paesi produttori, 62 hanno raggiunto il picco e sono quindi in calo; quelli che non l'hanno raggiunto - come l'Arabia Saudita e altri minori - non riescono ad aumentare l'estrazione in misura sufficiente a compensare". [La fine del futuro, riprodotto in Arianna Editrice] Secondo altri, invece, l'accesso a nuovi giacimenti, nell'Artico in corso di disgelamento e altrove, permetterà di avere riserve sufficienti. Un allarme recente è stato lanciato da un comitato formato da otto imprese multinazionali britanniche (non dagli ambientalisti), secondo il quale il picco di produzione mondiale verrà raggiunto nel 2013 (quello di alcuni paesi produttori è stato già raggiunto nel passato recente). Da lì in poi la produzione non potrà che diminuire e l'accesso a nuovi giacimenti sarà molto più costoso; inoltre, "è probabile che una rapida diminuzione della fornitura di petrolio ci colpisca prima degli impatti più deleteri dell'effetto serra". [Sarah Arnott, UK companies urge steps to head off global 'oil crunch', in The Independent del 30 ottobre 2008]
Sta di fatto, che se gli spettacolari aumenti del prezzo del petrolio a cui abbiamo assistito nella primavera-estate del 2008 erano essenzialmente il frutto di speculazioni (in parte delle stesse finanziarie e merchant bank che si stavano cautelando contro il previsto crollo dei subprime: a proposito, dove sono finiti quei superprofitti?), non ci sono comunque dubbi che, per esempio, un "modello economico e di vita fondato sulle lunghe distanze è difficilmente esportabile su tutto il pianeta; l'impiego di spazi e materiali è troppo elevato". Occorre però fare attenzione a valutare certi dati: nonostante l'enorme incremento di passeggeri negli ultimi decenni, dovuto soprattutto alla riduzione delle tariffe aeree, non più del 10% della popolazione mondiale ha mai preso l'aereo. Il consumo di carburante è una frazione modesta del fabbisogno mondiale delle macchine, così come l'impatto dell'aviazione sul clima è variamente valutato, anche se non c'è dubbio che contribuisca all'effetto serra.
Secondo fonti attendibili e non sospette di partigianeria, la situazione delle riserve petrolifere è preoccupante, anche perché i dati sono stati alterati verso l'altro dai paesi produttori a causa dei meccanismi di ripartizione decisi dall'Opec. Si veda, a questo proposito, Marco Magrini, I conti delle riserve petrolifere? Sono falsi, Il Sole/24ore dell'8 agosto 2004. Dello stesso parere è un articolo apparso il 28 ottobre sul Financial Times, che è entrato in possesso di una bozza di rapporto dell'International Energy Agency (IEA), secondo cui la capacità estrattiva dei maggiori impianti petroliferi del mondo ha un tasso di diminuzione annuo del 9,1%.
Ora l'IEA smentisce il contenuto del documento e la sua autenticità, ma la smentita sembra proprio poco attendibile.
Comunque sia, secondo alcune stime "se in tutto il mondo si desse priorità a un uso razionale dell'energia, entro il 2050 [...] nonostante un prodotto interno lordo triplicato, il consumo globale di risorse primarie potrebbe restare invariato". Ma non sembra che ci si muova efficacemente in questa direzione visto che nell'ultimo trentennio il consumo di petrolio è aumentato del 66% e non accenna sostanzialmente a diminuire, per quanto sembra che ora la Cina si stia muovendo in modo sistematico verso l'adozione di tecnologie energetiche più pulite. Secondo l'IEA (International Energy Agency) nel 2030 si consumeranno nel mondo circa 42 miliardi di barili di petrolio/anno, contro i circa 28 miliardi di barili/anno attuali.
Oltre a un uso razionale c'è però anche l'esigenza di una diversa organizzazione nella produzione dell'energia. Qui gli autori riprendono la vecchia questione che vede la costruzione di un sistema, con parti fortemente decentralizzate, opposto al sistema attuale centralizzato, che richiede grandi impianti e grandi investimenti. Non si tratta solo di una questione di prevalenza degli interessi dei grandi investitori, che ovviamente preferiscono il sistema centralizzato. Riprendendo vecchie ma ancora valide elaborazioni, un apparato decentrato di produzione (e una produzione distribuita), ossia non calibrato sull'offerta dei produttori, fatto il bilancio dei pro e dei contro, permette comunque una maggiore flessibilità del sistema oltre ad un utilizzo migliore di tutte le fonti di energia, comprese le rinnovabili.
Già nella Conferenza dell'energia della Cgil del febbraio 1987, nel Rapporto su ricerca e nuove tecnologie, si affermava: "Un modello centrato sull'offerta (come fa il Pen), comporta il mantenimento di una riserva di potenza elevata, assieme ad una politica di taglie sempre più grandi, assieme ad una centralizzazione strategica e gestionale, assieme alla necessità di prevedere obbligatoriamente un più elevato trend dei consumi. Nel caso di un modello di previsione basato sulla flessibilità, si privilegiano le taglie medie e piccole, con un incremento netto delle capacità di adeguamento alle variazioni dei consumi molto più vicino alla realtà (dimezzamento dei tempi di costruzione dei nuovi impianti) e quindi con uno scarto inferiore fra domanda e capacità di risposta (Collingridge). Il modello della flessibilità permette inoltre una politica strutturale di utilizzazione di tutte le fonti e di tutte le opportunità tecnologiche, ampliando anche il mercato dei produttori ma qualificando in senso manifatturiero le tipologie costruttive (possibilità di portare avanti buona parte della costruzione in fabbriche centralizzate, piuttosto che direttamente sui siti prescelti); assieme ad una migliore possibilità di apportare correzioni; assieme ad una migliore controllabilità e ad un impatto socioambientale meno violento." Questo è anche il modo per ottimizzare l'utilizzo di fonti di energia disperse. L'autore citato è David Collingridge, Il controllo sociale della tecnologia, Roma, Editori Riuniti, 1983 e Politica delle tecnologie: caso dell'energia nucleare, Roma Editori Riuniti, 1985. [i due titoli sono fuori commercio] |
Una indirizzo che altri paesi europei, a differenza dell'Italia, hanno intrepreso da tempo. Il V Rapporto
Solar generation del settembre scorso di Greenpeace/EPIA (Associazione dell'Industria Fotovoltaica Europea) sostiene, tra scenari intermedi e scenari avanzati, che nel 2030 i due terzi della popolazione mondiale usufruirà del solare fotovoltatico. Potrebbero sembrare previsioni interessate dell'industria di riferimento, ma i dati sono basati sulle proiezioni dell'Agenzia Internazionale per l'Energia.
Tuttavia, ribadiscono gli autori del Wuppertal Institut,, "la sobrietà non è redditizia" per il capitale. Certo, bisagna anche vedere per quale tipologia di capitale. Sarà un caso che nelle direttive europee per l'applicazione del pacchetto energia, che prevedeva il cosiddetto 20-20-20 (entro il 2020: ridurre le emissioni di gas-serra del 20% - portare la quota di fonti rinnovabili al 20% - elevare l'efficienza energetica del 20%), "quello dell'efficienza energetica viene lasciato da parte, diventa un target aspirational e non più mandatory: viene dunque escluso almeno per il momento dal pacchetto clima"? [M. Galeotti, I Donchisciotte dei numeri: i presupposti, in Lavoce.info del 21 ottobre 2008] Nonostante ciò, l'attuale Governo italiano, in compagnia dei paesi più arretrati della UE in termini di politiche energetiche tollerabili, ha provato a non accettare nemmeno delle direttive così parziali, adducendo un problema di costi, in relazione specialmente all'attuale crack finanziario. Il Governo italiano avrebbe quantificato in circa 25 miliardi di euro il costo delle misure europee per le aziende, ma la Commissione europea ha osservato: "Noi non troviamo queste cifre nella nostra valutazione dei costi-benefici[...] Le cifre addotte dall'Italia sarebbero "esagerate"." Il Presidente di turno Sarkozy - riferisce il Giornale del 24 ottobre 2008 - ha a sua volta dichiarato che "Sarebbe drammatico e irresponsabile abbandonare il pacchetto energia e clima con il pretesto della crisi finanziaria". È il monito lanciato dal presidente francese sottolineando che "la situazione ambientale del mondo non è migliorata siccome c'è la crisi finanziaria". "Il pacchetto - ha proseguito Sarkozy a Strasburgo - è fondato sulla convinzione che il mondo va incontro alla catastrofe se continua a produrre nelle stesse condizione. Non vedo alcuna argomentazione che mi dica che il mondo va meglio dal punto di vista ambientale solo perché c'è la crisi economica".
Se l'Europa adottasse l'orientamento italiano, sarebbe come dire che il turbocapitalismo, in un modo o nell'altro, si mangia il pianeta sia quando ha il vento in poppa, sia quando fallisce.
Il Rapporto del Wuppertal Institut continua con altri esempi di spreco delle risorse che hanno un riflesso sia sulla loro disponibilità futura sia sull'ambiente in termini non sostenibili. Come nel caso del sistema attuale dei trasporti, pubblici e privati, o dell'agricoltura non biologica.
Il principio che secondo gli autori deve ispirare un cambiamento radicale della situazione internazionale e delle missioni degli organismi internazionali (primo tra tutti il WTO), in rapporto alla salvaguardia delle risorse e dell'ambiente, è molto semplice: "una politica orientata alla giustizia transnazionale [...] deve garantire una giusta distribuzione dei compensi ricavati dall'utilizzo dell'atmosfera ai popoli e alle istituzioni che si curano del benessere collettivo". Il che significherebbe, nel concreto, mettere in pratica il concetto che l'individuo è niente senza la società, ma che la società muore senza la libertà individuale. Un orientamento giusto, ma "come si può ottenere questo scopo?" – si chiedono gli autori. La riposta non è confortante, perché secondo loro "nella letteratura specializzata non si trova quasi mai nessuna risposta a questa domanda che, anzi, spesso non viene nemmeno posta". A parte alcune proposte concrete che sono state avanzate, come la costituzione di fondi che permettano la partecipazione dei cittadini e un migliore controllo dell'ambiente in cui abitano. Abbiamo già ricordato in un precedente percorso le decisioni di principio assunte a Bali, dove "si è trovato un accordo per costituire un Fondo di adattamento per aiutare i Paesi più poveri; per dare appoggio tecnologico e finanziario ai paesi in via di sviluppo, in modo da aiutarli a ridurre le emissioni di gas responsabili dall'effetto serra; per riconoscere degli indennizzi ai paesi poveri per la tutela del proprio patrimonio boschivo". Ma non sono stati ancora stanziati fondi. Sarà da vedere (Copenhagen, 2009) in quale misura la voragine aperta dal crack finanziario verrà invocata dai paesi del Nord per tirarsi indietro.
Una serie di proposte di modifica degli organismi internazionali e delle loro missioni chiudono il Rapporto, ma questi aspetti li vedremo più in dettaglio nel prossimo Labirinto.
Finora, con il ciclo che si è chiuso con l'elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti, la via delle riforme internazionali è stata bloccata. I conservatori neoliberisti al potere hanno cercato di seguire un'altra strada, teorizzando l'egemonia unipolare dell'America, con la conseguenza di diventare pericolosi per la pace e per gli stessi Stati Uniti. Non hanno certo avuto né il coraggio né l'interesse di mettersi contro le pratiche di rapina economica, di dire ai propri cittadini che era necessario adottare uno stile di vita diverso e di organizzare politiche conseguenti, rinegoziando livelli di sfruttamento delle risorse mondiali, adottando normative internazionali obbligatorie e così via. Per loro questa linea risultava molto più inaccettabile che fomentare disordini altrove e distrarre l'opinione pubblica con politiche estere aggressive, sopravvalutando anche il pericolo del terrorismo, come abbiamo hanno documentato Loretta Napoleoni e Bee J. Ronald, in I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura.
Ora, la speranza è che si apra un nuovo capitolo della storia e che anche i problemi di cui si parla in questi percorsi comincino a trovare una qualche soluzione. Per quanto i conservatori di casa nostra si siano subito affannati a dipingere Barack Obama come un pragmatico che non terrà fede alle promesse riformatrici e quelli davvero al potere nel circuito internazionale si stiano già muovendo per creare intralci alla necessaria spinta riformatrice.
Sesto percorso - Sviluppo vs decrescita?
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Il concetto di decrescita è entrato ormai da tempo nell'arsenale delle discussioni e delle proposte. È variamente declinato da centri studi e da singoli autori. Una delle interpretazioni più radicali del termine è dovuta a Serge Latouche, che la oppone allo sviluppo sostenibile. In due libri, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione di una società alternativa [Torino, Bollati e Boronghieri, 2005, pp. 105] e Breve trattato sulla decrescita serena [Torino, Bollati e Boringhieri, 2008, pp. 135], l'autore prova ad argomentare le sue ragioni, cercando anche di tracciare nell'ultimo dei due libri i lineamenti generali di una possibile società alternativa. Né economia di mercato né economia pianificata (né capitalismo né socialismo), sono le due sponde entro cui Latouche cerca di tracciare una rotta piuttosto segmentata e spesso contraddittoria. Si tratta di una sorta di terza via molto collaterale che, come vedremo, rischia di non portare da nessuna parte.
Per Latouche occorre semplicemente uscire dallo sviluppo, citando un'osservazione di Nicholas Georgescu-Roengen: "poiché lo sviluppo durevole non può in nessun caso essere separato dalla crescita economica". Perciò non esisterebbe uno sviluppo sostenibile. In buona sostanza, la crescita economica consuma comunque risorse e pianeta, e non può avvenire nell'ambito del sistema capitalistico perché esso non assicura l'equità ed è fondato per sua natura sull'appropriazione ineguale. Latouche aggiunge poi che: "Proporre, contro lo sviluppo uno sviluppo durevole, locale, sociale o alternativo, significa in fine dei conti cercare di prolungare il più possibile l'agonia del paziente, nutrendo il virus che lo sta uccidendo". Secondo il nostro punto di vista, la ricetta dell'autore è di uccidere direttamente il paziente. O meglio, siccome ritiene che siamo già morti, tanto vale comportarsi da morti. Sembra un'affermazione paradossale, ma la sostanza dell'impostazione è proprio questa.
Per sostenere le sue tesi l'autore scrive che lo sviluppo "è stato, è e sarà innanzitutto sradicamento. Dovunque, esso ha portato con sé un aumento dell'eteronomia a spese dell'autonomia della società. Per questo lo sviluppo è un mito". Un'osservazione, ci pare, da antropologo a-storico, privo anche di qualsiasi connotazione evoluzionistica. In altre parole, partendo dalla sua osservazione e camminando a ritroso nel tempo, dovremmo condannare tutta la storia umana. Fino a un punto ipotetico (il chiuso Alto Medioevo? l'autonomo e immobile Celeste impero cinese? la tribù separata dalle altre da spazi e foreste immense? o persino l'abbandono delle savane africane da parte di Homo erectus più di un milione di anni fa?). Perché l'autore non attacca soltanto l'idea di sviluppo capitalistico, ma il suo stesso fondamento, definendolo "un'impostura concettuale a causa della sua pretesa universalistica, e un'impostura pratica a causa delle sue profonde contraddizioni". Ora, non importa che nelle epoche precedenti non si avesse l'idea moderna di sviluppo, il punto è che la civiltà è necessariamente anche cambiamento e sradicamento. L'assenza di una idea di complessità/evoluzione, e perciò di storicità, nascono forse da un tipico filone strutturalista francese. Vedremo meglio questi aspetti in uno dei prossimi percorsi, parlando di Stuart Kauffman, Aldo Schiavone e a altri.
Tutto ciò non esclude che in alcune proposte di Latouche ci siano spunti da considerare con attenzione, ma è l'impianto da cui muove che non è proprio condivisibile. Lui stesso, in qualche altro passo, sembra addolcire la critica fatta quanto scrive: "Noi occidentali non dobbiamo vergognarci di condividere il sogno progressista occidentale. Tuttavia, una volta presa coscienza dei danni provocati dallo sviluppo, si tratta di aspirare a una migliore qualità della vita e non a una crescita illimitata del Pil". Il che appare un'affermazione abbastanza ragionevole, se non fosse che poco prima aveva scritto: "È arrivato il momento di smascherare l'ipocrisia dello sviluppismo. Non esiste altro sviluppo che lo sviluppo. È inutile cercarne uno migliore, perché in teoria quello che abbiamo va già bene. Un altro sviluppo è un non-senso".
Peraltro, si può condividere una successiva affermazione che "lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del mondo", se pensiamo a quanto è accaduto dalla scoperta dell'America in poi. Ma, domanda a rovescia, se non ci fossero stati la rivoluzione scientifica e "l'invenzione" del capitalismo? Non è che questo interrogativo esclude una critica anche dura ai modi in cui la storia e la dominazione occidentale si sono espressi. Sebbene l'autore dichiari di non appartenere al filone di chi pensa che l'epoca preindustriale fosse più felice, qualche affermazione del tipo "gli artigiani e i contadini che hanno conservato una larga parte dell'eredità dei modi ancestrali di fare e di pensare vivono nella maggioranza dei casi in armonia con il loro ambiente, non sono predatori della natura", arriva molto vicina a Rousseau. Quell'armonia, peraltro, è solo un mito che non ha escluso affatto disastri della civiltà e rapine ambientali, come abbiamo visto parlando del libro di Jared Diamond o pensando alla deforestazione del Mediterraneo compiuta dai romani antichi. La lotta che Laotuche prospetta contro la mondializzazione non riguarda una sua correzione, anche radicale, ma la scelta del localismo e il ritorno alla società vernacolare.
Un'antropologia relativistica a oltranza, insomma, per alcuni versi immaginaria, non aiuta a trovare le soluzioni convincenti di cui c'è un bisogno estremo. Perché è chiaro che lo strumento principale per una nuova regolazione del consumo e quindi di un uso dell'ambiente alla fine proposto dall'autore, ovvero la comunità, appare un rimedio peggiore e più asfissiante della situazione attuale. Non sapremmo definire in modo diverso l'idea che "i bisogni accettabili dovrebbero essere stabiliti dall'insieme della comunità, la municipalità", che è un'impostazione piuttosto diversa da quella che considera un valore i concetti di collettività e di interesse generale. Il confine tra l'intervento sui bisogni materiali, culturali e di costume diviene così molto permeabile, lasciando intravedere nuove e più sottili forme di un'ascetica dittatura destinata a governare una nuova penuria, anche culturale. Riscoprire il principio dell'autosufficienza associato a quello del necessario come assi portanti della salvezza del mondo, ci riporta a epoche premercantili, quando essi erano piuttosto predicati come mezzo di salvezza dal mondo. È inquietante: il pensiero va subito ai villaggi Amish, alla comuni cinesi ai tempi di Mao e, più indietro nel tempo, alle ossessioni ginevrine di Calvino. Quello disegnato da Latouche è più uno scenario da day after che la proposta di una via di uscita dalla morsa in cui si trova l'umanità, nonostante poco dopo affermi che "non si tratta in nessun modo di colpevolizzare i consumatori per convertirli all'ascesi, ma di responsabilizzarsi in quanto cittadini". Come? Ci sono, delle elaborazioni nel campo della filosofia morale e dell'economia (come il prioritarismo che vedremo più avanti) che sviluppano una teoria che ha una diretta influenza sul tipo di politiche economiche che occorrerebbe fare. Invece, la strada imboccata da Latouche, poiché i cambiamenti radicali avvengono in seguito di disastri, sembra quella di una preventiva pedagogia del terrore. Infatti – scrive - "la pedagogia della catastrofe stimola il necessario cambiamento dell'immaginario, una delle condizioni necessarie perché le alternative possano farsi luce e trionfare". Così prestando il fianco all'accusa di strumentalismo.
Ora, per quanto ci riguarda, non disprezziamo affatto il senso della misura, il risparmio, la sobrietà e siamo contro lo spreco dilapidatore, l'esibizione, il consumismo irresponsabile e, entro certi limiti, il superfluo. Entro certi limiti, però, perché c'è sempre in agguato il pericolo che qualcuno possa considerare superfluo il pensare con la propria testa o ciò che per altri è invece essenziale. Inoltre, questo mettere l'accento solo sul fenomeno del consumo e dei consumatori, cioè sulla fase finale di un processo produttivo nel quale entrano forze, attori e rapporti sociali ben più estesi e determinanti è poco convincente, nel senso che non risolve molto il problema, per quanto un cambiamento di mentalità e di abitudini sia importante. Insomma, il mercato è asimmetrico, anche per i consumatori, anzi, specialmente per loro, visto che i consumi possono essere orientati da un potente apparato mediatico-pubblicitario. Latouche, in un inciso contraddittorio, lo riconosce, scrivendo che non sono i consumatori la molla principale della crisi.
Vale la pena, a questo punto - per rimettere in una prospettiva accettabile e più ampia la critica sociale - citare un lungo passo della recensione di Guido Rossi del libro di Robert Reich, già ministro del lavoro con Clinton, apparsa su la Repubblica, a cui abbiamo già accennato nel precedente secondo percorso: "Un libro, tuttavia, che tradisce un difetto di certa cultura americana, in base alla quale le crisi finanziarie sono delle malattie temporanee che in qualche modo si risolvono [ma non è il caso di Latouche, nda]. Di conseguenza il sistema americano non è e non può essere oggetto di discussione, perché è il solo che può garantire sviluppo economico e globalizzazione. Questa è la tesi sottostante. L'impostazione non regge, prima di tutto perché il supercapitalismo è soprattutto un capitalismo finanziario, e qui invece la finanza non appare quasi neanche come comprimaria. È mai possibile, mi chiedo, che un attento studioso come Robert Reich non si sia reso conto che solo la concorrenza sfrenata che ciascuno di noi vuole come consumatore non sia l'unica origine del deficit di democrazia, ma che dalla fine degli anni Settanta nella struttura stessa delle corporation e dei mercati è apparso un vero e proprio malanno che ha minato l' intero sistema e ha oltraggiato spesso la stessa concorrenza: cioè il conflitto di interessi, neppure nominato nel libro? Così, come ho già detto, è assente qualunque critica al sistema bancario e finanziario. Quindi non si è neppure accorto che il vero deficit di democrazia sta nella nuova lex mercatoria, di medievale memoria, la quale è imposta dalle multinazionali, dai suoi studi legali, dalle sue private corti arbitrali, e che esclude spesso le norme fissate dai legislatori e certamente non tiene in minimo conto i diritti del cittadino o i più elementari principi di democrazia. Quel che a me pare, in definitiva, è che il deficit grave di democrazia debba essere invece affrontato mettendo sotto accusa l'intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumisti e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che, come del resto ho scritto nel mio ultimo libro, abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme. Ma ciò vale anche per il clima, l' ambiente, per la lotta alla povertà, per il diritto cosmopolitico dei popoli ad avere asilo e una vita decente. È purtroppo una scelta alternativa, condizionante per il resto del mondo, sapere se gli Stati Uniti vorranno continuare a pensare che il supercapitalismo è ineluttabile o che la democrazia dei diritti di varie generazioni, secondo le classificazioni di Norberto Bobbio, sia il valore prioritario da perseguire per tutti".
Se si comincia da queste osservazioni, piuttosto che dall'antropologia di Latouche, tutto diventa meno astratto e contraddittorio. Il problema dell'accumulazione come meccanismo di base di una dinamica sociale, che è in genere accuratamente evitato in quasi tutte le analisi correnti, ritorna al centro degli interrogativi che occorre porsi. A Latouche si attaglia bene l'osservazione di Enrico Galavotti - contenuta in un capitolo dedicato all' ecologia contemporanea di un suo saggio - che esiste "un'ideologia ambientalista che genera forti equivoci, quella per cui la democrazia dei consumi è superiore alla democrazia della produzione. Con essa cioè sembra che si voglia una società non consumistica e, in tal senso, anche se non viene detto esplicitamente, si rifiuta il capitalismo, ma poi si aggiunge che anche l'industrializzazione va rifiutata".
Ma Latouche è contro l'accumulazione in quanto tale, perciò non è un caso che sposi una linea antilavorista e faccia dei riferimenti insistiti a André Gorz, che dava per scontato l'immodificabilità dei vecchi sistemi produttivi fordisti e dei nuovi, insomma, di qualsiasi sistema produttivo, cercando così "la salvezza della persona e il recupero della convivialità fuori di quei sistemi". [B. Trentin, Il coraggio dell'utopia, La sinistra e il sindacato dopo il taylorismo. Un'intervista di Bruno Ugolini, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 272]
Queste posizioni sulla questione del lavoro si ricollegano alle proposte antilavoriste di Paul Lafargue, genero di Marx, e al suo libro Il diritto alla pigrizia, che non ha mai cessato di esercitare un certo fascino. Latouche, a un certo punto, sostiene che occorre "recuperare l'abbondanza perduta delle società di raccoglitori-cacciatori descritta da Sahlins". Strano aggancio a un antropologo che è definito come appartenente al filone materialista inaugurato da Leslie White che propose una teoria per cui l'evoluzione della cultura è determinata/condizionata soprattutto dalla tecnologia. Non siamo certo dei workaholic, dipendenti cioè dal lavoro come gli alcolisti, ma non siamo nemmeno per questi approcci da signorotti di campagna e siamo contro la svalutazione del lavoro (già abbondantemente praticata dal capitalismo) che si accoppia alla variante speculare ma tranquillizzante, per chi lo sfrutta, dei cantori della fine del lavoro. Per questo richiamiamo qui i dati che parlano di un incremento progressivo della quantità di lavoro erogata, sia pure in forme e modalità anche molto diverse dall'immediato passato, per cui il problema è proprio un altro. Siamo d'accordo con Bruno Trentin, quando già più di dieci anni fa osservava che "non siamo alla fine del lavoro, come sostengono ciclicamente profeti improvvisati e approssimativi, inevitabilmente condannati a riproporre soluzioni totalizzanti di fuoriuscita dal lavoro, che proprio le trasformazioni del lavoro stesso tendono a rendere sempre più astratte e impraticabili". [B. Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 270]La liberazione umana non può che avvenire nel lavoro, questo è il punto strategico e cruciale di un'impostazione capace di cambiare i rapporti sociali assieme a quelli con la Natura.
Delle due l'una, o Latouche è un esponente fanatico di una tecnologia che abbia la capacità di risolvere tutti i problemi sociali e ambientali, fino al punto che le macchine libereranno dal lavoro l'umanità come moderni schiavi oppure il suo è solo un artificio verbale, visto che "l'alternativa allo sviluppo non può essere un impossibile ritorno al passato, inoltre, non può prendere la forma di un modello unico. Il doposviluppo è necessariamente plurale". Subito dopo, però, la sua attenzione si rivolge ai modelli del passato, entra saltuariamente nel merito dei meccanismi che possono regolare una tale pluralità, e sembra propendere per la stasi dell'accumulazione, nonostante poco più avanti dichiari di essere contro la stasi e la crescita zero. Non basta ricoprire quella che a noi appare una vera e propria distopia con l'espressione di crescita conviviale, dove quel conviviale maschera o cerca di esorcizzare lotte feroci e non meno sanguinose di quelle connesse agli attuali meccanismi dell'economia. Passare da un sistema di concorrenza predatoria a uno conviviale significa mettere in condizioni di non nuocere i predatori. Come si fa?
Secondo l'autore, l'adozione di una decrescita serena comporta "una Aufhebung (rinuncia, abolizione, superamento) della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell'accumulazione illimitata del capitale". Quanto possa essere perseguito serenamente un simile obbiettivo non è dato di capire, se l'autore aggiunge che ci vuole qualcosa di ben più radicale delle teorie sulla crescita sostenibile. Del resto, lui stesso scrive verso la fine del secondo libro che: "Uscire dal capitalismo. Questa è una formula comoda per indicare un processo storico che è tutto meno che semplice: l'eliminazione dei capitalisti, l'interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, l'abolizione del lavoro salariato, precipiterebbero la società nel caos e sarebbe realizzabile solo con un terrorismo generalizzato, ma non servirebbero ad abolire l'immaginario capitalistico, anzi al contrario". Servirebbe "un sovvertimento totale dell'esistente; purtroppo, non sono né le soluzioni né le idee che mancano, ma la condizione della loro realizzazione". Qui non siamo né all'utopia né alla distopia, ma a un carosello verbale, dopo che l'autore ha bruciato tutte le possibili alternative per intervenire concretamente nella crisi in corso.
Infatti, è ancora lui a confermare che, in questo momento, "non ci sono le condizioni per sperare di poter realizzare una società della decrescita, ed è anche dubbio che questa società possa iscriversi efficacemente nel quadro ormai superato dello stato-nazione". Il punto è che Latouche non trova di meglio, dopo averlo criticato nel primo libro, che appoggiarsi al localismo (di nuovo torna il vernacolare e il comunitarismo) e di liquidare qualsiasi aspirazione universalistica, ivi compresa quella di un governo globale del pianeta, accusandola di imperialismo culturale e sostituendovi una non meglio specificata"democrazia delle culture".
Nel contesto in cui questa espressione viene usata (il localismo/comunitarismo), essa significa però meno l'adozione di un pluralismo culturale e il rispetto delle diversità e molto di più la liquidazione dei diritti universali dell'uomo (che l'autore definisce infatti "un delirio universalista etnocentrico"), a favore di usi e costumi tribali (la democrazia delle culture, appunto) e di un inevitabile ritorno all'etnia e ai meccanismi identitari. [Per una critica del comunitarismo si veda nel precedente Labirinto 13. ottavo percorso, La questione dell'identità, nel quale si esamina la questione parlando del libro di Amartya Sen, Identità e violenza]
Riemerge l'idea di una forma di estinzione dello stato a cui segue un ordine che ha un forte sapore di Medioevo, quando piccole potenze autonome si sostituirono alla "globalizzazione" raggiunta dall'impero romano. Sotto traccia, questa posizione si accompagna a un atteggiamento tecnofobo, considerati i riferimento del testo a Jacques Ellul, che è stato definito l'Heidegger francese. Se queste prospettive vi sembrano una strada pacifica e di stabilità geopolitica in grado di superare la crisi dello stato-nazione, non sapremmo che dirvi. Preferiamo una civiltà e una tecnologia aperte e integrabili, pur nella loro diversificazione. Vedremo con Stuart Kauffman che non chiudersi nel localismo ma integrare è addirittura una questione di biologia evolutiva.
Il filosofo e teologo Raimon Panikkar, in saggio pubblicato nel Giornaledifilosofia.net, Filosofia e Rivoluzione: il testo, il contesto e la trama scrive: "Il carattere morfologico di ogni atteggiamento coloniale e neocoloniale è l'ideale di monomorfismo culturale, che sia nella forma di una sola religione, una sola chiesa, un solo re o un solo regno, una sola tecnologia o una sola cultura mondiale, o anche una sola rivoluzione. Tuttavia questo non giustifica l'estremo opposto di una pluralità sconnessa: pluralismo non significa confusione caotica". A parte le riserve sul fatto che un governo mondiale significhi un atteggiamento neocoloniale, non ci sono molti dubbi che la confusione caotica a livello planetario non porti al pluralismo ma alla guerra. Latouche parla naturalmente di collaborazione tra sistemi quasi autosufficienti (per alcuni versi autarchici). Bisogna riconoscere che dietro queste teorie del localismo interconnesso c'è la suggestione della rete, elevata a nuovo paradigma di un modo di concepire la società (e la produzione). Ma la rete, nonostante il suo policentrismo, non abolisce la ridondanza, lo spreco, la sopraffazione e, soprattutto, non produce maggiore equità, per quanto offra maggiori opportunità. E poi rimane sempre il problema di come organizzare il passaggio da un sistema all'altro. In sostanza, Latouche propone di abolire l'economia transnazionale, il che non sembra granché un passo in avanti, da tutti i punti di vista. Il carattere visionario delle sue proposte istituzionali sembra tenere in conto gli scenari prodotti dalla letteratura cyberpunk, come per esempio in Neuromante di William Gibson [Milano, Nord, 2004, pp. 256] nel quale si descrive uno squarcio inquietante di un mondo dominato dalla Yakuza giapponese e dalle grandi Corporations, le zaibastu. Perciò, per eliminare questo possibile scenario, Latouche abolisce l'economia transnazionale (identificata con le Corporations), assieme a qualsiasi livello più alto di controllo.
Ma cos'è dunque questa proposta della decrescita? Ci sembra di ricordare che il concetto, sia stato usato per la prima volta dall'ambientalista Alex Langer nel 1992, discutendo della proposta e delle condizioni di fattibilità di una politica dell'austerità, lanciata da Enrico Berlinguer nel 1977. [E. Berlinguer, Austerità occasione per riformare l'Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 62] Dobbiamo confessare che, stando a quanto scrive l'autore è davvero difficile farsene un'idea più precisa.
Ci sembra che in un Manifesto del doposviluppo da lui firmato sia stato in qualche modo più preciso, nella sua sinteticità, quando scrive: "La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.
Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale". A parte il dubbio riferimento alle società antiche, l'autore sembra qui riferirsi a una specie di economia relazionale, un filone di analisi per una nuova economia che ha una sua consistenza. Il Manifesto continua sottolineando che "si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, LETS e SEL, autorganizzazione degli esclusi del Sud". Dove il primo acronimo significa Local Exchange Trading System e il secondo Systèmes d'échanges locaux, cioè "sistemi di scambi locali di beni e servizi che non ricorrono al denaro, come le banche del tempo". Esperienze indubbiamente importanti, specialmente quella cooperativa, se restituita alle sue funzioni originarie, ma che sembrano al massimo poter delineare una rete integrativa di nicchia di funzioni e attività complesse e di portata planetaria.
Del resto, tornando ai due libri, secondo Latouche, la globalizzazione coincide semplicemente con "il trionfo dell'onnipotenza del mercato", di fronte alla quale "abbiamo bisogno di concepire e di volere una società in cui i valori economici cessano di essere centrati (o unici), in cui l'economia viene rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo". Il che è persino un programma allettante di fronte al quale si fa più drastico lo scarto tra le considerazioni e le analisi generali proposte e alcune delle altre misure concrete ventilate, le quali alla fine fanno parte degli obbiettivi per uno sviluppo sostenibile che egli rifiuta. Per esempio:
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rappresentano degli obbiettivi condivisibili, ma non introducono certo a una società della decrescita, nel senso espresso da Latouche di un abbandono anche del concetto di sviluppo sostenibile.
Più precisi sono, da questo punto di vista, gli obbiettivi delineati dalla Conferenza
sulla Decrescita Economica per la Sostenibilità Ecologica e l'Equità Sociale, tenutasi a Parigi il 18 e 19 aprile 2008.
1. A livello globale, raggiungere una «giusta dimensione» significa ridurre l'impronta ecologica globale [inclusa quella del carbone] a livelli sostenibili. 2. Nei paesi in cui l'impronta pro-capite è maggiore di quella globalmente sostenibile, la «giusta dimensione» richiede di tornare entro un'impronta sostenibile in un lasso ragionevolmente breve di tempo. 3. Nei paesi in cui permangono condizioni di grave indigenza, la «giusta dimensione» implica che si consenta, al più presto possibile e in modo sostenibile, un aumento dei consumi dei più poveri così che essi possano condurre una vita dignitosa, e questo deve avvenire attraverso processi di riduzione della povertà che devono essere decisi localmente e non secondo politiche di sviluppo imposte dall'esterno. 4. La «giusta dimensione» richiederà che in alcuni parti del mondo ci sia un incremento dell'attività economica, ma la ridistribuzione del reddito e della ricchezza - sia a livello nazionale sia internazionale - resta la parte essenziale di questo processo. |
Con il che ci si può almeno porre concretamente il problema del che fare e di come tenere insieme la riduzione del consumo delle risorse e dell'equità sociale, come abbiamo visto parlando del Rapporto del Wuppertal Institut e come vedremo in seguito con Joseph E. Stiglitz.
Meno confusa e più mirata ad una coesistenza tra il sistema mercantile e un altro modo di vivere, ancorché venata da un forte spirito religioso, ci sembra l'elaborazione di Maurizio Pallante. Questo autore, non a caso, parla dei Monasteri del terzo millennio, rivalutando il valore d'uso nei confronti di quello di scambio. Ma anche qui il panorama geopolitico che viene delineato è molto frammentato. Le città, in enorme e progressiva espansione, per loro natura non possono essere, se non marginalmente, la sede di un tale rovesciamento – come riconosce lo stesso Pallante. Secondo il World Urbanization Prospects 2007 delle Nazioni Unite nel 2050 la popolazione urbanizzata ascenderà a più di 6,3 miliardi su poco più di 9,1 miliardi di abitanti (pari a circa il 70%), per non parlare del fatto che sono le città a essere il perno di tutte le innovazioni. Si può immaginare una rete policentrica e multipolare di città, che del resto è già in formazione, e anche che siano possibili interventi per un maggiore rispetto ambientale. Ma smontare i grandi poli urbani per ridistribuirne funzioni e dislocazioni in modo ecocompatibile, richiederebbe un potere centrale di natura autocratica in grado di imporre nuove architetture socioterritoriali. La proposta di Pallante appare perciò una proposta di nicchia, praticabile solo in certe condizioni e per limitati strati sociali, più che altro "gruppi di persone che vi abiteranno per scelta, o confermando con un atto di volontà una collocazione avuta per caso (e, quindi, non vivendo come emarginazione la marginalità), o arrivandoci dopo aver abbandonato le aree urbane in cui vivevano, precedenti ruoli di produttori di valori di scambio e l'economia mercantile". Il che, anche pensando a quanto ha scritto Latouche, significa che non si può vedere e riconoscere l'insieme dei problemi e le loro interconnessioni e dare un frammento di riposta; ovvero si può farlo come contributo, anche importante, ma se non è generalizzabile non serve a molto.
Ora, è chiaro che queste posizioni si pongono all'estremo opposto di altre, come quella espressa da Carlo Lottieri e commentata da Davide Fasolo sul sito della Fondazione Bassetti, secondo il quale "regolare "le attività produttive che utilizzano risorse scarse non è un buon sistema, in quanto domandare norme, proibizioni e piani è "rozzo". Non possiamo inoltre mai sapere con certezza se una risorsa è scarsa o meno (e porta l'esempio del rame che una volta si credeva ingiustamente scarso), tanto vale continuare ad utilizzarla quindi... Per Lottieri se si sostiene che lo sviluppo deve essere compatibile con la natura allora si è fatto un tutt'uno della realtà fisica in modo ingiustificato, e si è quindi collettivizzato l'intero universo passando sopra i legittimi diritti dei proprietari dei beni della terra che in quanto tali possono fare tutto quello che vogliono. Il concetto di sviluppo sostenibile si prospetterebbe come appartenente ad una visione collettivista e statalista della realtà che contraddice i principi del liberalismo classico, garante della proprietà privata". Si tratta di una di quelle posizione utilitaristiche che abbiamo visto con Jared Diamond e che si rifà al modello della scelta razionale e al dilemma del prigioniero. Insomma, per Lottieri gli interventi per salvare la civiltà umana sarebbero puro socialismo; è più importante salvaguardare il diritto di proprietà individuale che la sopravvivenza della specie.
Decrescita.... sobrietà.... austerità. Potremmo scrivere un elogio della sobrietà e cercare di capire come mai quella proposta di cui abbiamo parlato, avanzata in Italia negli anni settanta sull'adozione di una politica di austerità non ebbe successo. Forse perché mancò di un sostegno popolare e era troppo in anticipo sui tempi e, forse, non era nemmeno praticabile in un solo paese. Ma, a distanza di tempo, si deve riconoscere che si trattò di un visione lungimirante del futuro che si proponeva, tra l'altro "di instaurare giustizia, efficienza, ordine", ma anche una moralità nuova. [E. Berlinguer, op. cit.] Insomma, qualcosa di molto vicino a una riforma morale e intellettuale che intervenisse anche sui problemi strutturali in modo organizzato, puntando a obbiettivi quasi maturi nella coscienza delle persone, che fossero "sotto la pelle della storia". Si trattava di "abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario".
Che si tratti di una questione etica e non solo economica e politica è confermato da John Broome, filosofo della morale, il quale osserva in un articolo pubblicato su Le Scienze [L'etica del cambiamento climatico, n. 478, agosto 2008] che nel valutare il rapporto costi-benefici, correntemente usato in economia, osserva che esso "non risponde in modo esauriente alla domanda: "che cosa dovremmo fare per affrontare il cambiamento climatico?", pur essendo parte essenziale della risposta. La risposta è nel confronto tra due modelli correnti di pensiero, quello del prioritarismo e quello dell'utilitarismo. Il primo sostiene che "se un beneficio – un aumento del benessere individuale – è goduto da una persona ricca, allora dovrebbe avere un valore sociale inferiore rispetto allo stesso beneficio a favore di una persona povera". Secondo l'utilitarismo, invece "un beneficio ha il medesimo valore a prescindere da chi lo riceve". In altre parole e su un piano diverso, quello temporale, per l'utilitarismo e le sue varianti i benefici attesi dalle generazioni future hanno praticamente sempre meno valore quanto sono più in là nel tempo, tanto da determinare il calcolo del tasso di sconto. La cosa è meno astratta di quanto sembri, tanto che i due diversi approcci producono modelli di convenienza sensibilmente diversi sulle misure da prendere per riportare entro limiti sostenibili lo sfruttamento del pianeta.
Il fatto è che secondo gli utilitaristi economia e etica non possono stare insieme, per cui ricavano il tasso di sconto dal mercato valutario, "in cui si scambia denaro futuro per denaro presente e viceversa". Ma – obbietta Broome – se alcuni valori sono certamente determinati dai gusti, quello "da attribuire al benessere delle generazioni future non è determinato dai gusti. È un giudizio di natura etica". Il fatto è poi che gli economisti dicono di prescindere da giudizi di valore, di essere neutrali in proposito; ma se il comportamento delle persone che agiscono sul mercato riflette giudizi di valore, come fanno a giustificare "la neutralità etica per poi prendere il tasso di sconto dal mercato"?
Nessuna di queste discussioni fondamentali fa parte della elaborazione di Latouche, se non forse in modo talmente implicito da precludersi un aggancio con l'economia reale. Latouche, come altri, fa affidamento soprattutto a una crescita dal basso della consapevolezza dei problemi ambientali e sulla moltiplicazione delle esperienze alternative. Vi guardano con speranza e interesse anche altre posizioni molto meno radicali, come quella esposta da Giorgio Ruffolo. Si tratta di un fenomeno importante che ha tuttavia bisogno, per non rimanere di nicchia, di un movimento più ampio e del concorso di forze che si pongano il problema dell'equità su scala planetaria e del suo governo.
Certamente il futuro prevedibile che può aiutare una generale presa di coscienza, ma occorre che gli scenari siano meno evanescenti di quelli fin qui discussi e più ancorati alle tendenze attuali, in modo da non perdere di vista quello che potremmo definire il parallelogramma delle forze in campo. D'altra parte, la crisi finanziaria e la recessione in atto riconfigurano le disposizioni future del puzzle mondiale, mentre riesce assai difficile capire cosa può succedere con una crisi che si infila dentro un'altra, nel quadro di un'altra crisi.
Potremmo spingerci anche più oltre nelle previsioni, come vedremo nel prossimo percorso con libro di Jacques Attali e cominciare a guardare più concretamente come si possono riformare i meccanismi della globalizzazione. Il che non è affatto una strada in discesa.
Per i libri e gli articoli citati in questi tre percorsi, vedi nel corpo del testo; i testi recensiti sono:
(continua nel prossimo Labirinto):
19. Labirinti di lettura
III. In/out: sul lìmine della civiltà
7. Una prospettiva [Jacques Attali]
8. Riformare la globalizzazione [Joseph E. Stiglitz]
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