- Dove sei finito?
Si avvicinava venendo dalla casa. Non mi poteva vedere, ero seduto dietro gli ultimi cespugli all'inizio della spiaggia.
- Giulio!
- Sono qui sulla spiaggia.
Arrivò di corsa e si fermò davanti a me. Guardandola dal basso sembrava ancora più alta. Mi fissò per un istante senza dire nulla, per rimproverarmi.
- Ti cerco da più di dieci minuti. Mi sono svegliata e non c'eri. Non mi piacciono certe sorprese.
- Tenere sempre tutto sotto controllo.
- Non cominciare a usare quel tono sarcastico - era dispiaciuta - non ti trovavo e mi sono inquietata un po', tutto qui.
Si sedette accanto a me, strinse le ginocchia al petto abbracciandole e guardò il mare che la luce del tramonto colorava di un blu intenso che contrastava armonicamente con il rosa che tingeva le cime delle alture circostanti degradando verso lo stesso blu del mare. La pioggia del mattino era lontana, persa nell'entroterra, altrove. Il cielo era sereno e una brezza leggera modellava quell'angolo del Tirreno con piccole onde. Eravamo soli.
- Chiara lascia perdere, scherzavo. Scusami.
- Adesso non esagerare. Cosa stavi facendo?
- Leggevo.
Mostrandole il libro, Il deserto dei Tartari di Buzzati, le chiesi se lo avesse letto.
- Sì l'ho letto. Ti piace? è una storia molto amara. Un uomo che rinuncia a tutto solo per attendere un evento che quando finalmente accade lui non vive e muore solo.
- Capita di avere questo destino. In fondo è un po' così per tutti.
- Lo credi veramente?
Non guardavo più lei, stavo fissando il mare e i pensieri, inseguendo un'immagine come sempre assente, correvano lontano verso il punto di fuga della prospettiva: al centro dell'orizzonte. Mi prese per un braccio per riportarmi da lei. Ottenne lo scopo perché mi voltai per guardarla. Mi stava fissando, si poneva delle domande e lei era incline a trovare le risposte.
- Cosa c'è che non va? Hai la stessa espressione che avevi mentre guidavi venendo qua. Per chilometri e chilometri quella faccia tesa e scura, senza dire una parola.
- Poi passa. Pensavo a quella canzone "tu mi fai girar, tu mi fai girar..."
- "come fossi una bambola."
Cominciammo a cantare insieme. Lei aveva la voce intonata, io no. Conoscevo solo il ritornello, lei invece conosceva tutta la canzone e poco dopo cantava solo lei.
Si era alzata e cantava. Muoveva il corpo con ritmo adeguato alla canzone, in questo aiutata da un corpo flessuoso e slanciato. Cantando le ultime strofe si mise in ginocchio di fronte a me spalancando le braccia.
Riprese a fissarmi, da vicino, con un'espressione perplessa che mutò subito in un tono dolcemente ironico.
- Bimbo non mi convinci. Tutto per una bambola? Se mi dici il suo nome, forse sarai più credibile.
Aveva intuito la soluzione del problema che già risolveva con brillante metodo e tenace applicazione da bravo ingegnere. Non volevo parlarne, il pericolo di rovinare tutto lasciando insinuare tra noi due un'ombra tremenda. Entrambi sapevamo che questa nostra storia non era certo l'amore della nostra vita. Ci conoscevamo da poco e da meno era iniziata la nostra storia. Persone sole che si erano incontrate in un momento molto particolare della loro vita. La solitudine e il dolore avevano giocato un ruolo decisivo. Stiamo bene insieme e forse durerà, se durerà, finché proveremo il piacere di ritrovarci. Amore. No, non è la parola più adeguata a noi due, tuttavia non era giusto rivelare a Chiara ciò che stava tentando di sapere. Cambiare discorso non sarebbe stato difficile, ma non né potevo più di tenere tutto dentro di me, dovevo parlarne con qualcuno. Perché non lei?
- Vuoi proprio sapere il suo nome e tutta la storia? Ti annoierai, come già è successo a lei.
- Se non vuoi lascia perdere. Non è solo curiosità, penso che possa essere utile.
In genere si usa l'espressione "ti farà bene parlarne", un sollievo generico, spesso fine a se stesso. Chiara invece pensava all'utilità dello sfogarsi orientato ad un preciso scopo concreto.
- Più che di una bambola si tratta di un pupazzo o almeno lei mi ha detto che l'avrei sempre trattata come un pupazzo, anche se per me è tutt'altro. Il nome non te lo dico, ti chiedo che almeno questo resti un mio piccolo segreto.
- Non pensavo che fossi capace di provare simili sentimenti. Sempre con quell'atteggiamento ironicamente cinico, superficiale, frivolo e poi ci sono amori maledetti e donne misteriose, innominabili.
Non capivo se mi stesse prendendo in giro, pensando che stessi esagerando, oppure volesse solo sdrammatizzare.
- Continua - riprese sedendosi più comodamente accanto a me, rivolta verso il mare - voglio sapere.
Ormai lo scrigno era aperto e ciò che vi era contenuto voleva solo uscire e perdersi lontano da me. La massa di quei ricordi era ormai fuori controllo. Sentivo solo il desiderio di parlarne.
- La disperazione, Chiara, non è confinata nei romanzi; ci domina e guida le nostre azioni. Cerchiamo solo di colmare il vuoto con un secchio senza fondo. Lei è il compimento inevitabile di quanto iniziato tanto tempo prima. Sai dove sono nato e cresciuto?
- Non lo so, di certo nella nostra città.
Il quartiere dove sono nato è un quartiere operaio. La mia era una casa popolare, piantata tra il carcere ed il cimitero. Periferia. Papà operaio metalmeccanico, mamma casalinga ed un fratello. Per anni l'unico libro presente in casa è stato l'elenco telefonico. Quante parole della lingua italiana saranno state usate correntemente? Poche, troppo poche. Case piccole, famiglie numerose, pochi soldi, vite scarne. Sento ancora quel rumore, quelle voci che litigano, bambini che piangono. Sono cresciuto per strada assieme a tanti altri, in uno di quelli che oggi si definisce "branco" come se si trattasse di bestie. Forse si può essere bestie, belve. Chi ha poco desidera tanto, troppo e diventa feroce, cattivo e spietato pur di avere. Odio la violenza e l'aggressività perché la conosco, l'ho vista da vicino. Lei mi ha sempre accusato di non essere sincero, di essere troppo diplomatico al limite dell'ipocrisia. Cerco solo di rispettare gli altri perché ho un animo violento che deve essere controllato e schiacciato da ragione e sensibilità. La vita non era facile. Da qualche parte ho le foto di gruppo delle classi elementari. Foto in bianco e nero. File di bambini vestiti con grembiuli di poco prezzo, spesso cuciti in casa. Fiocchi raffazzonati. Occhi inquieti. Se facessimo l'inventario esistenziale di quella classe quinta elementare 1972 avremmo: morti per droga n. 2, delinquenti abituali almeno n. 3, vari che vivono ancora oggi d'espedienti, ecc. Sembrano ritratti del dopoguerra che in certi quartieri dopo venticinque anni non era ancora finito. Pensa che in fondo alla strada dove si giocava a pallone c'erano le baracche e qualcuno di quegli scolari viveva lì, in una casa di legno e cartone. Anche l'adolescenza è un lusso e non è per tutti. In certi angoli del mondo scopri il sesso troppo presto. C'era chi, vivendo nella promiscuità di una casa piccola e affollata da una famiglia troppo numerosa, lo scopriva di notte ascoltando e sbirciando. Devi accettare che tante cose che gli altri normalmente hanno, tu non puoi averle perché si fa fatica a comprarti le scarpe nuove e tu non puoi fare i capricci, non puoi, non devi piangere davanti ad una vetrina. Cresci in fretta, troppo in fretta e impari a essere cattivo, una bestia affamata di vita.
Avevo tanta voglia di conoscere, sapere, capire ed ero un buon scolaro. Finite le scuole medie un professore implorò mia madre di mandarmi al liceo: uno dei pochi che è riuscito a vedere in me qualcosa di buono. Accettai controvoglia e mi iscrissi al liceo scientifico. Uscii dal mio quartiere di periferia e l'impatto fu tremendo. Scoprire in pochi giorni che alla fine della strada dove sei sempre vissuto c'è un mondo nuovo, estraneo e immenso, ebbe l'effetto di un pugno in bocca preso a tradimento. Mi allontanai dal mio mondo, dimenticai in fretta i compagni della mia infanzia e tutto il resto. L'ambiente in cui ero entrato era piccolo borghese, ma io restavo un "proletario" con un futuro tutto da costruire.
Piera. Era una compagna di classe, una ragazza dolcissima e sensibile quindi da tutti: non amata, spesso tormentata e messa in ridicolo. Nemmeno io che non me la passavo tanto meglio di lei, chiuso com'ero nel mio angolo, non le ero vicino. Un giorno di pioggia, avendo io l'ombrello, timidamente mi chiese di accompagnarla alla fermata dell'autobus. Non ricordo bene dopo quasi venti anni cosa ci dicemmo, ma ne ricordo il senso. Parlammo delle nostre solitudini, del nostro essere diversi dalla norma dei nostri coetanei e le confessai quanto mi facesse soffrire quel mio modo di sentire l'esistenza. Piera mi disse che con gli altri bastava che fossi solo me stesso, senza complessi né d'inferiorità né di superiorità. Oggi so che Piera è stata la prima donna che ha lasciato un segno nella mia vita. Non ci fu nulla tra noi, eravamo appena due ragazzi soli. Compresi le parole di Piera e da quel giorno iniziai lentamente e con tanta fatica a costruirmi una vita sociale. Da quel giorno ho sempre e solo mostrato me stesso con tutti i difetti ed i pochi pregi. Quando ho negato questo principio ho solo raccolto amarezza, specie in amore.
Gli anni passavano. La prima grande delusione d'amore: Maria Rosaria e i cupi pensieri. Scoprii la letteratura, grazie alla docente d'italiano che era convinta che io avessi una certa propensione per le lettere. Avevo sedici anni quando mi fece leggere Baudelaire e soprattutto Rimbaud. La poesia e l'arte in genere da quel momento non hanno mai smesso di essere parte della mia vita ed oggi sono gran parte di quel poco che mi è rimasto. L'arte non mi ha mai deluso. In quei giorni scrissi la mia prima poesia. La creazione è figlia del dolore. Scoprii anche la politica. Ero un comunista. A quindici anni m'iscrissi al Partito. Il mio Circolo F.G.C.I. si chiamava Generale Giap, l'eroe della guerra del Vietnam. Presto mi prese la febbre della rivoluzione, della voglia matta di dare un calcio al quel mondo odioso che ci odiava. Era la fine degli anni settanta, anni pesanti. Uscii dal Partito litigando furiosamente con i compagni. Divenni un simpatizzante dell'estrema sinistra. Il nostro collettivo dove ci ritrovavamo era in un'aula in fondo al corridoio della scuola dove nessun bidello o insegnante metteva piede. Uno spazio autogestito dove si pensava alla vicina alba di un mondo migliore, più giusto e tutto da costruire. Ero uno di quelli di Autonomia Operaia, un ragazzo con l'eskimo verde ed il tascapane. Cortei, scontri con i fasci, volantinaggi, tazebao e qualcosa d'altro. Poteva finire male. La giovinezza, i sogni e le illusioni non ci facevano comprendere la realtà: eravamo sorvegliati e un giorno solo per un caso non fui coinvolto quando arrivò la polizia e portò via tutto e tutti. Era l'ultimo anno del liceo, anno scolastico 1980 - 1981: ero maggiorenne. Il terremoto e il riflusso cancellarono tutto. Mia nonna morì quell'anno, una notte di inizio giugno. Capii che la sua vita stava per finire, cercavo di rianimarla e riuscii solo a vedere il suo ultimo rantolo e quel soffio d'aria, l'ultimo, che le usciva dalle labbra. Vidi la morte per la prima volta. Mi aveva allevato lei. Ricordo ancora le storie che mi raccontava ed oggi so che erano antiche storie della tradizione popolare: Farfariello il diavolo stravagante e tante alte. Perse con lei, mi restano solo vaghi ricordi, frammenti.
Ci fu solo il tempo per sostenere l'esame di maturità. Per un estremo atto di ribellione quell'anno non frequentai il corso di Inglese e così affrontai l'esame di maturità con un giudizio molto negativo. Nonostante ciò, grazie ad un buon tema d'italiano riuscii a strappare un onorevole 50/60. La professoressa d'inglese, Erminia G., una marchigiana trapiantata in un'altra città, una donna sola. Forse eravamo troppo simili e per questo ci odiavamo. Ricordo che una volta mi chiese perché non volessi studiare proprio la sua materia mentre in tutte le altre avevo buoni voti. Le risposi una sciocchezza giusto per provocarla. Lei mi guardò dritto negli occhi e mi disse: "Tu sei un pazzo lucido".
Probabilmente il giudizio più esatto mai dato sulla mia persona.
Con l'aiuto delle borse di studio ed i tanti sacrifici della mia famiglia approdai all'università. Volevo liberare al più presto la mia famiglia monoreddito dal mio peso e dovevo quindi scegliere una facoltà che mi facesse lavorare subito. Non potendo iscrivermi a Lettere, come desideravo, non restavano che Ingegneria ed Economia. Detestando la matematica, perdonami ingegnere, mi iscrissi ad Economia. Di questi studi in fondo non mi interessava alcunché. Andavo in facoltà come se andassi in fabbrica: il mio lavoro consisteva nell'imparare quei libri che leggevo senza passione per finire subito quei venticinque esami.
In quegli anni di passioni ne ebbi ben poche. Ragazze, ma non amori; ricordo solo qualche nome, volti, qualche gesto. Eppure abbiamo condiviso momenti, ci siamo scambiati piacere, abbiamo riso e litigato, tutto spento; tante compagnie, poche amicizie; la politica era un ricordo, nessuna passione civile. Cominciava l'inaridimento interiore, effetto dell'accettazione della necessità, della rinuncia alla scelta, del negare se stesso. Certe letture influiscono in modo determinante sulla vita di una persona. Thomas Mann: Tonio Kroger. Non ebbi il coraggio di affrontare la vita dell'artista, diversa da quella delle altre persone e fatta di solitudine. Quella pagina sublime e straziante: Tonio è fuori in veranda e guarda una festa che si svolge all'interno. Tutti gli altri sono dentro e gli mostrano la felicità della loro vita normale; lui resta fuori da solo, separato da loro solo da una vetrata. Ho avuto paura, di una vita tormentata, della miseria, "carmina non dant panem", e rinunciai. Per anni non scrissi più nulla. Conobbi i miei attuali amici che hai incontrato a casa di Adriana la stessa sera che hai conosciuto me ed iniziarono le mie frequentazioni del tuo mondo: la dorata borghesia.
Avevo da poco dato l'ultimo esame e lavoravo alla tesi. Un giorno in facoltà vidi un bando per delle borse di studio. Partecipai al concorso, senza tanta convinzione, lo vinsi e partii alla volta di Milano per frequentare un corso di specializzazione post lauream. Partii nel mese di gennaio del 1987. Era il primo vero viaggio della mia vita. Dopo una notte in treno, espresso seconda classe, una città coperta di neve mi accolse. Non potendo andare in albergo trovai una camera a pensione da una vecchia signora che non potrò mai dimenticare. La casa era pulita, ma cadente e tutto ricordava un passato splendido, ormai perduto. Nel salotto su di un tavolino c'erano alcune sue foto: era stata una donna di grande bellezza, con un'aria da vamp ingenua. Viveva sola ed aveva grossi problemi. Cercai un vecchio compagno ferroviere che lavorava a Milano. Fu felice di rivedermi dopo tanto tempo. Passai con lui la prima serata in quella città. Viveva precariamente in attesa di essere trasferito a casa e sposare la sua ragazza. Mi portò a casa sua che divideva con altri uomini nella sua stessa condizione umana. Cucinò uno di loro, operaio dell'allora SIP, un altro meridionale. Indimenticabile cena a base di coniglio alla cacciatora, piatto che da allora detesto. La solitudine quella sera la potevo sfiorare leggera nell'aria fumosa di quella stanza.
L'indomani primo giorno del corso. Non appena due colleghi mi proposero di andare a vivere a casa loro, accettai quasi urlando di gioia. Mi sistemai in un residence nelle vicinanze di Piazzale Loreto. Era un autentico orrore, ma vi avrei passato mesi indimenticabili, di sfrenata goliardia e gioia di vivere.
Dopo i primi giorni mi resi conto che il corso era alla mia portata per quanto provenissi da una facoltà di secondaria importanza: bastava frequentare e ricordarsi quello che avevo già studiato. Per il resto era come se fossi tornato al liceo con due piccole differenze: facevo quel che mi pareva e con la borsa di studio avevo un po' di autonomia economica. Spesso a fine mese dovevo attingere alla cassa comune che tenevamo per le spese, ma appena incassavo quelle 850.000 lire ripagavo subito il debito.
A Milano ho passato uno dei periodi più belli della mia vita. Superato il primo periodo di ambientamento fu un crescendo rossiniano e Laura era il centro di tutto. Era da pochi mesi a Milano poiché il padre vi era stato trasferito. Veniva dal Sud come me. Non le piaceva Milano e voleva trasferirsi a Roma. Non avevamo molto in comune soprattutto in campo sociale, ma stavamo bene insieme. Fu una bella conquista. Eravamo in quella fase, che detesto, della vaga simpatia e delle solite schermaglie. Lei, laureata in Scienze Politiche, non conosceva le materie contabili e dovevamo sostenere la prova scritta di analisi di bilancio. Mi chiese controvoglia di copiare e si sedette accanto a me. Quella sera dovevo andare allo stadio. Avevo fretta. Avevo calcolato che avrei fatto giusto in tempo a finire l'esame e prendere il tram di corsa per andare a San Siro. Ero preso dalla prova e lei invece di copiare voleva capire e faceva domande su domande. Persi la pazienza, come mi capita di rado, e le dissi di stare zitta e copiare, perché non potevo perdere tempo.Mi lanciò uno sguardo che mi fece rabbrividire, ma stette zitta e decise di fare da sola. Avevo finito e stavo per consegnare l'elaborato, ma mi accorsi che era in difficoltà. Restai con lei e l'aiutai. Consegnammo insieme. S'era fatto tardi, uscimmo insieme e al cancello la salutai. Mi prese per un braccio e mi disse "Proprio stronzo non sei..." e ci baciammo. "Ora posso andare allo stadio?" le dissi andando via, alle mie spalle udii un secco "Sei proprio uno stronzo!". Furono bei mesi. Un solo neo: Giovanna che si era innamorata di me.
Mi chiese di studiare insieme e ci vedemmo in un pomeriggio freddo e luminoso. Volle uscire e passeggiando iniziò a parlarmi della storia finita con il suo ragazzo. Pensai che volesse solo una spalla su cui piangere e le dissi che non ero la persona più indicata, troppo egoista ed incapace di sopportare la tristezza altrui. Quando capii di cosa si trattava, cercai di sdrammatizzare con simpatia ed ironia, ma non riuscii a liberarmi. Tenevo le mani in tasca perché non avevo i guanti e Giovanna, ragazza di Milano, infilò la sua mano nella mia tasca per stringermi la mano. Tenni il pugno chiuso pur sentendo la sua mano fredda che cercava la mia. Furono istanti interminabili che ancora oggi ricordo con dispiacere e, credimi, non è una frase di circostanza per assolvermi. Sarò anche incapace di dare veramente amore, ma il dolore degli altri mi prende alla gola e mi induce spesso a fare ciò che non vorrei, ma che so essere importante per loro. Non ero proprio innamorato di Laura, ma il suo pensiero non mi fece stringere quella mano fredda e ossuta. Giovanna da quel giorno mi odiò. Arrivò l'estate e si decise di andare in Sardegna assieme a tutti gli amici. Era giugno e Laura per il mio compleanno organizzò una festa a sorpresa. Che festa, una bevuta colossale. Apro una parentesi. C'è stata una seconda festa a sorpresa per il mio quarantesimo compleanno: ho sempre pensato che sia stata lei ad avere l'idea di organizzarla. Non l'ho mai saputo. Se è stata lei non posso che dirle grazie. Tornati a Milano le cose lentamente iniziarono a cambiare man mano che si avvicinava la fine del corso ed il mio ritorno a casa. Non lo compresi subito, Laura invece lo sapeva benissimo e non vedevo la sua tristezza. Lo scoprii all'improvviso una sera. Era una bella serata calda eravamo a casa nostra io, lei ed una coppia di nostri amici. Si cenava sul piccolo terrazzo, si scherzava e discuteva allegramente bevendo vino. Laura si alzò ed entro in casa, non ricordo quanto tempo sia passato prima che mi accorgessi che la sua assenza era troppo lunga. Andai a cercarla. Bussai alla porta del bagno: nessuna risposta. Era sul letto, al buio che piangeva. Le chiesi cosa avesse e mi rispose "niente che vuoi che abbia". Dissi ai nostri amici che Laura non si sentiva bene che aveva bevuto un po'. Si sincerarono che non ci fossero problemi e forse convinti che volevamo restare soli andarono via. Parlammo a lungo, per ore, ma non c'era soluzione a quel problema, ingegnere. Le curve delle nostre vite erano destinate ad allontanarsi. Forse avrei dovuto e potuto cercare di restare lì, in quella città con lei, ma non lo feci. Ero legato a lei, ma non abbastanza. Ancora oggi non so bene perché lasciai che quella storia finisse. Certo non l'amavo come lei amava me. Divenni odioso. Bisognava che mi detestasse che mi vedesse con occhi diversi, di modo che non avesse rimpianti e mi potesse mandare al diavolo con il minor dolore possibile. Un sentimento non si cancella con un colpo di spugna, ma a volte bisogna ucciderlo, semplicemente. L'ultima volta che ci vedemmo fu alla stazione quando partii. Le diedi un libro di poesie di Prevert. Aprì il pacchetto guardò la copertina, strinse il libro e fece il cenno di tirarmelo in faccia, invece mi fece una carezza con l'altra mano. Ci abbracciammo. Dal finestrino la vidi asciugarsi la guancia e andare via lungo il marciapiedi di quel binario di Milano Centrale. Non fu una bella giornata quella.
Tornai a casa, ritrovai tutti quanti e la mia vita. Cominciai a lavorare. Passarono dei mesi interlocutori fino al giorno in cui incontrai Carla.
In breve me ne innamorai. Era una sublime stronza, una gran donna. Brillante, intelligente, colta, sofisticata e bella. Era molto simile ad Laura, ma era più bella. Sapeva di esserlo, era abituata a pilotare gli uomini e a fargli fare esattamente ciò che voleva. Aveva dovuto lasciare, non so per quale motivo, un ragazzo che aveva veramente amato e che probabilmente avrebbe sposato. Inizialmente non mi vedeva nemmeno. Io, avendo capito che tipo di donna era, ed essendo consapevole dei miei limiti, mi tenevo alla larga. Poi iniziò a conoscermi e ad avvicinarsi, ma era un susseguirsi di alti e bassi. Quando ne aveva bisogno mi cercava, per poi rimettermi nel mio angolino appena aveva qualcosa altro da fare. All'inizio stavo al gioco perché mi mancava troppo e stavo male senza di lei, poi prevalse la mia natura dura, insofferente e violenta. Reagivo con cattiveria pensando che fosse meglio perderla che subire i suoi dorati capricci. Quando credevo che mi avrebbe lasciato perdere perché in fondo cosa ero per lei, lei mi trattenne. Fu un periodo infernale: vedersi assiduamente e non poterlo evitare, credimi è atroce. Lei continuava a non amarmi, ma nemmeno rinunciava a me. Non lo accettavo e ti lascio immaginare i litigi. Che pazzie ho fatto per lei.
Un giorno mi disse che c'era un altro uomo nella sua vita. Le augurai sinceramente tanta felicità e mi feci da parte, così come so fare: discretamente, repentinamente e totalmente. Mai i nostri rapporti furono più cordiali. Restavamo legati, in maniera tenace e oscura. Mi confessò di portare sempre con sé una poesia che avevo scritto per lei. Del resto quando tra un uomo e una donna cade quel sottile velo e si è stati nell'intimità di un bacio e di quanto segue, si crea comunque un legame oscuro e tenace che non si spezzerà mai anche se ci si abbandona. Mi gettai anima e corpo nel lavoro. All'epoca lavoravo anche in un piccola agenzia pubblicitaria. Lavoravo praticamente tutto il giorno. Uscivo dall'azienda, andavo in agenzia dove restavo fino a tardi e poi uscivo con gli amici. Il proprietario dell'agenzia era in politica e mi iscrissi al Partito Socialista: abiuravo l'orrore della tirannide comunista ed abbracciai il riformismo liberal democratico. Era solo per convenienza, per pura ragion pratica: erano i favolosi anni ottanta e con una tessera di partito si faceva quel che si voleva. Ciò che contava era dimenticare Carla e credevo che vivere forsennatamente servisse allo scopo. In fondo l'amavo come il primo giorno e in realtà riuscivo a male pena a convivere con le sensazioni che provavo stando lontano da lei. Lei si trasferì in altra città. Lunghe telefonate e belle lettere, senza mai toccare tasti sbagliati, come buoni amici. La vita non si fermò neanche quella volta. Il mio migliore amico si trasferì all'estero, il che mi addolorò molto, e poco tempo dopo la sua partenza finì la sua storia con Clara. Con Clara eravamo amici da tempo e continuammo a vederci, era una bellissima ragazza, ma era la donna del mio migliore amico, quindi una creatura asessuata, un'amica e Carla era sempre al centro della mia mente. Però un po' alla volta mi accorsi che vedersi con Carla era bello e mi faceva stare meglio: stavamo bene insieme. L'allegria, la spensieratezza condivisa con Clara, il sottile piacere di non accorgersi del tempo che passa, tutto ciò non l'ho provato con nessun'altra donna. L'equilibrio si ruppe in momento ben preciso. Una sera, eravamo in un locale con tutti gli amici e mentre si ascoltava la musica e si cantava tutti a squarciagola, Clara si sedette sulle mie ginocchia, innocentemente. Quel contatto fisico mi fece scoprire la fisicità, il corpo di Clara e da quel momento le cose cambiarono. Non me la sentivo di iniziare un'altra storia, temevo di dovere sopportare altra tristezza, ma lentamente ci avvicinammo, volendo solo vivere un rapporto senza impegno con spensierata leggerezza, pensando che non sarebbe stato per sempre. Clara una volta mi disse: "lo so durerà una settimana", invece più nel male che nel bene sono strascorsi più di undici anni. Irrequieti, curiosi, incostanti, insofferenti, allegri e spensierati, in questo siamo uguali.
Una sera Carla mi telefonò in agenzia e scherzando mi disse: "perché non ci vediamo stasera?". Le risposi che avendo da fare era preferibile che venisse lei da me. Ridendo rispose "va bene ci vediamo tra un'oretta, a dopo". Ci salutammo ridendo. Dopo meno di un'ora, mentre stavo preparandomi ad andare via, suonò il campanello. Non di rado ero l'ultimo ad andare via e anche quella sera ero solo in ufficio. Aprii la porta un po' dubbioso e inquieto, chiedendomi chi potesse essere a quell'ora. Nella cornice della porta una delle visioni più incantevoli della mia vita. Era lei, al massimo della sua bellezza. Vestita con semplicità mirata: un pantalone che modellava l'ovale perfetto del suo fondoschiena, una maglietta che metteva in risalto il seno di pregevole dimensione. Tacchi, un trucco leggero che esaltava i suoi colori chiari. Non avevo parole. Come al solito contenni le mie emozioni e con tono distaccato le dissi: "Come mai da queste parti?".
Sorrise, mandandomi implicitamente a quel paese ed entrò decisa: "Normalmente si gettano, le braccia al collo, ma con te di nomale, niente! È vero?". L'abbracciai e seguirono momenti d'intenso trasporto... Era tornata da qualche giorno per rimanere e disse di amarmi. Da quella sera iniziò uno strano periodo, vissuto in bilico tra due persone, tra due vite possibili e alternative. Non volevo scegliere e presi a viverle entrambe. All'inizio il mio orgoglio di maschio era ruggente, ma pian piano altre sensazioni e pensieri prevalsero. Chi tradivo? Con chi ero scorretto? Chi volevo? Carla era una grande passione, a lungo infelice, ma che in quel momento si realizzava. Clara era qualcosa di diverso: era il genio benefico che era entrato nella mia vita riportandomi la gioia di vivere; con lei tutta la mia esistenza aveva preso un meraviglioso corso, era rifiorita. Nessuna delle due era stupida e correvo il rischio di perderle entrambe. Il dolore lascia tracce cattive, scava l'anima e le cicatrici restano. Con Carla proseguire significava solo vendicarsi, prendersi una rivincita squallida e amara. Ripensando a Carla ancora oggi provo amarezza per come l'ho trattata: imperdonabile. Una sera dovetti decidere; la scelta si sarebbe concretizzata nel decidere a chi delle due avrei telefonato. Chiamai Clara che meno di due anni dopo avrei sposato, pensando di essere finalmente a casa.

Continua (parte 2 di 2)->


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