Dove sei finito?: Seconda parte

II

- Chiara è tardi, torniamo a casa.
- Va bene, ci aspettano a cena.
Era tranquilla, non sembrava né annoiata né, soprattutto, turbata da quanto le avevo detto. Speravo che lasciasse perdere e s'interessasse ad altro. Il ponte del 25 aprile volgeva al termine, tra poche ore sarei ripartito e magari non ci saremmo più rivisti. Restava da godersi la serata. Alcuni amici di Chiara, conosciuti in quell'occasione, avevano preso in affitto quella casa in riva al mare ed l'avevano invitata. Chiara mi aveva chiesto di andare con lei. Erano persone simpatiche, tutte di qualche anno più giovani di me, ma la distanza non era incolmabile. In particolare avevo simpatizzato con Valeria e suo marito Gianluca. Valeria aveva cucinato e Gianluca aveva scelto il vino. I coniugi erano stati impeccabili: ottime pietanze e buon vino. Stavo bene, lontano dalla confusione della mia vita, lontano da tutti e vicino solo a Chiara: una parentesi aperta senza illusioni, ma ero felice di saperla non ancora chiusa, almeno per quella notte. La vecchia cara goliardia, segno d'indubbia immaturità cronica, irrimediabile e voluta con tutta l'anima, mi prese per mano e la serata fu allegrissima. Qualcuno tirò fuori un lettore di Cd che si era portato dietro. Erano pezzi un po' datati e vari: rock, funky, blues e disco. Alla fine il Cd giusto iniziò a girare e note da tempo assenti, ci presero e iniziammo tutti a ballare. Chiara mi guardava perplessa, ma era preda anch'essa dell'allegria dominante. Fui riportato all'ordine da una gomitata secca e precisa.
- Hai finito?
Guardava me e Valeria con cui avevo ballato, forse con troppo entusiasmo.Una donna è sempre moglie e madre anche se la conosci da pochi mesi: la femminilità è seduzione e possesso.
- Non sopravvalutarmi, ti prego. Non ci stavo provando con Valeria, stavamo solo ballando. Era da tempo che non mi divertivo così.
Inflessibile, non sembrava voler sentire ragioni e mi mise in riga.
- Va bene tutto, però non esagerare, sono una persona anch'io.
Non sapevo cosa sentisse veramente per me. Non era il momento di discutere e chiarire. Per altri motivi, per altre questioni mi ero stancato di parlare, chiarire, spiegarmi. Forse era solo una fuga dal disastro che in quel momento volevo dimenticare, solo per sopravvivere, ma non volevo gettare le basi di altri rimorsi. Andammo in giardino.
- Mi hai fatto male.
Le dissi piegandomi sul fianco da cialtrone commediante. Si abbassò per guardarmi in faccia ed incontrando il suo sguardo scoppiai a ridere.
- Ma che ci sto a fare qui con te?
- Hai stabilito il record, ci hai messo meno tempo di tutte.
- Sei insopportabile, ma possibile che non riesci mai a prenderti sul serio. O sei un imbecille oppure sei tanto deluso e amareggiato da essere del tutto disincantato.
- La prima risposta è quella giusta.
- Non è vero, stupido.
Invece di piantarmi lì su due piedi mi stava abbracciando. Ero sorpreso, non me l'aspettavo. Bisognerebbe sempre ricordarsi che, per quanto di rado, ci capita anche di vivere qualcosa di bello. Per qualche istante restammo lì in silenzio abbracciati.
- Non partire adesso, fallo domani che cambia?
Mi tornava alla mente il viso di una donna. Mi dice che in determinati menage c'è chi è condannato a passare il Natale, le vacanze da solo. Dimenticando, tuttavia, che l'altra persona deve trascorrere quegli stessi momenti in compagnia di altri e per di più pensando a lei, con l'amarezza della sua assenza. Ora almeno non c'era più l'esigenza di dover tornare al proprio posto, alla vita ufficiale.
- Devo essere in ufficio domattina, non posso evitarlo. Partirò più tardi.
Pensavo alla fatica di partire senza aver dormito a sufficienza ed ai problemi che ho quando guido di notte, ma imparavo ad accettare sacrifici, ad essere meno egoista. In casa la serata continuava allegra. Restammo lì.
- Cosa ti è successo?
La domanda era la stessa che spesso mi ponevo da un po' di tempo. Tutto e niente era successo. Tornai in casa per prendere una bottiglia di vino. Ritrovai Chiara là dove l'avevo lasciata. Era seduta sul muretto nella posizione che assumeva spesso: mento appoggiato sulle ginocchia tenute strette al petto. Non volle bere e anch'io bevvi solo un sorso: non per colpa del generoso bianco, ma il vino in quel caso invece di allontanare i ricordi li richiamava a frotte come stormi d'uccelli nel cielo della sera.
- Chiara, perché siamo qui? O meglio perché mi hai portato qui con te.
- Per passare qualche giorno insieme.
- Sicuramente. Affrontiamo il problema in altri termini. Da quanto tempo ci conosciamo?
- Da febbraio, quindi circa due mesi.
- Ti ho conosciuta a casa di Adriana. Ricordi come ci presentò, mi prese per mano e disse:"Vieni qua, ti presento Chiara. Lei lavora con me ecc...". Non scambiammo che pochi convenevoli poi ci perdemmo divisi dalla mondanità.
- Per la precisione dopo qualche istante te ne andasti a chiacchierare con quel tuo amico, tra parentesi quello che è un bel ragazzo.
- Si chiama Vasco.
- Cominciasti a parlare con lui e con altri. Che conversazione. Vi ho ascoltato abbastanza, del resto lì non conoscevo quasi nessuno.
- Non riesco a comprendere come si possa pensare di passare una serata a casa del proprio capo, per quanto il tuo sia Adriana che è una grande amica e straordinaria donna.
- Non pensi che quella sera non avevo nulla di meglio da fare e che era pur sempre meglio accettare l'invito del mio capo, come dici tu, piuttosto che restare a casa da...
L'aggettivo sola venne arrestato dall'orgoglio. Adriana me l'aveva presentata pensando da perfetta padrona di casa che forse era opportuno mettere in contatto le uniche persone sole presenti quella sera a casa sua. Mi aveva colpito quella ragazza bella, sola e più giovane di tutti noi, ormai abbastanza oltre i quarant'anni. Non avevo uno stato d'animo particolarmente adatto per socializzare. A fine serata mi accorsi che non era venuta con la sua auto e che discretamente cercava qualcuno che l'accompagnasse a casa. Visto il generale tergiversare di chi aveva fretta di tornare, essendo quasi tutti alle prese con gli orari delle baby sitters, mi offrii di accompagnarla. Entrando in macchina dovette spostare un po' di oggetti, qualche libro, più di una cartaccia e qualche pacchetto vuoto di sigarette, prima di poter prendere posto. Non parlammo molto, frasi di circostanza dette solo per allontanare il mio imbarazzo ed il suo lieve fastidio. Un manifesto spezzò il suo silenzio.
- C'è Franco Battiato in concerto. Ti piace? Disse con tono distratto
- Molto.
Fermai l'auto per guardare meglio il manifesto.
- È tra qualche giorno - dissi - e i biglietti saranno esauriti.
- Peccato, commentò.
Ripartii e poco dopo arrivammo a casa sua, stretta di mano e ciao. Il giorno dopo avevo comprato due biglietti per il concerto, certo di avere commesso una sciocchezza. Mi accorsi che non avevo il suo numero. Chiamai Adriana per chiederle il numero di telefono di Chiara. Conoscevo bene Adriana ed immaginavo il suo solito sorriso ironico, da brava ragazza, e le conseguenti considerazioni. Mi disse "posso fare di più te la passo, ciao". Avrei riattaccato. Chiara dopo un "ah sei tu", mi disse di chiamarla più tardi, mi dettò in fretta il numero del suo telefono cellulare e chiuse la conversazione. La chiamai più tardi: mi disse che sarebbe venuta.
- Cosa c'è, perché stai zitto?
- Non hai risposto alla mia domanda. Comunque sai bene in che condizioni mi trovo.
- Le conosco bene sin dal giorno dopo che ci siamo conosciuti. Adriana, la sera quando la chiamasti, mi disse, anzi mi avvertì, che eri sposato, visto che non porti la fede, padre di due bambini e che il tuo matrimonio era pubblicamente in crisi. Allora?
- Non è questo il punto. Tu stessa mi hai detto che il tuo grande amore è andato via, all'estero per una borsa di studio di due anni. No, Chiara, ti ripeto che la questione è un'altra.
- Dimmelo tu allora quale è il problema!
Aveva alzato il tono della voce: era la prima volta che lo faceva. Ormai per altre vicende avevo il terrore di non spiegarmi e di usare parole sbagliate che esprimessero esattamente il contrario di quanto provassi e pensassi.
- Chiara, sono stanco e confuso. Non mi piace la vita che conduco. Non è bello vivere solo perché uno dopo l'altro i giorni iniziano e bisogna portarli comunque a termine. Non riesco ad immaginare nulla che possa offrirti e nulla ti chiedo. So bene che domani, tra qualche settimana o qualche mese, prima o poi andrai anche tu via. Vuoi andare da lui come è giusto che sia.
- Ora siamo qui però e ho voluto partire con te, così come ti ho voluto e voglio ancora vedere, perché mi piace stare con te. Tu sei un'altra cosa e poi che cazzo ne sappiamo di domani?
Non l'avevo mai sentita usare espressioni volgari. Parlava senza inflessioni dialettali. Era una ragazza di ottima famiglia, di educazione superiore.
- Vivere giorno per giorno. Facile a dirsi, ma poi si fa di tutto per legarsi, per avere stabilità, continuità ed inevitabilmente ripetitività, abitudini.
- Smettila!
- Vuoi sapere qual è il punto, cosa è successo? Va bene. È necessario che prosegua la cronaca. Mi costringi ad essere autobiografico, mi dispiace per te: quello biografico, tranne rare eccezioni, è il genere letterario più noioso; se poi si deve descrivere una vita comune e banale è assolutamente insopportabile. Dove ero rimasto?
- Senilità precoce. L'epopea era giunta al tuo matrimonio.
Si era rasserenata, era tornata ironica.
- Già il mio matrimonio. Il nostro fidanzamento fu brevissimo. A fine inverno decidemmo di sposarci, a marzo trovammo casa ed a fine estate ci sposammo. Il giorno del mio matrimonio fu bello, straordinariamente bello e felice per tutti.
- Mi hanno detto che fu memorabile: il matrimonio più allegro e spensierato che tutti ricordino.
- Forse a qualcuno venne voglia di sposarsi proprio quel giorno. Comunque eravamo una grande coppia Clara ed io. Non c'erano molti soldi, per arredare casa nostra impiegammo anni, ma eravamo felici e ci amavamo, non sai quanto.
- Come può finire un amore? Vorrei proprio saperlo.
- Ingegnere, non sono equazioni, al massimo è biochimica. Non lo so. Succede.
- Succede, non è una spiegazione.
- Proprio non riesci ad accettare che a volte bisogna fare i conti con l'inspiegabile, l'incomprensibile, l'irrazionale e la stupidità...
- Non filosofeggiare, continua.
- Circa un anno prima, avevo conosciuto lei.
- Che faccia! Siamo al fine giunti al punto cruciale?
- Sì.
Era il punto cruciale. Era lei, proprio lei la donna che semplicemente ha cambiato la mia vita da cima a fondo, irrimediabilmente. Colei che non ha paragoni.
Sembra ieri che me la presentarono. Una ragazza normale: grande sorriso, molto vivace. Un tipo simpatico. Aveva in lei qualcosa che mi inquietava, ma era una sensazione epidermica. Rapporti cordialissimi, a volte scherzosi: serenamente superficiali e frivoli. Solo mi trasmetteva sempre quella strana inquietudine, tutto qua. Una volta mi diede il suo numero di telefono dicendo "... fanne buon uso...". Questo ed altri piccoli episodi che non mi spiegavo e senza importanza, confermavano quell'inquietudine che discreta accompagnava in sottofondo i miei rapporti con lei. Passarono anni belli con Clara: la nostra vita a due cresceva, il lavoro andava bene, forse ero felice. Poi tutto iniziò a cambiare lentamente. L'azienda entrò in crisi. Furono due anni terribili. Mi chiesero di redigere un piano di ristrutturazione: famiglie sul lastrico che erano solo cifre su un foglio di carta. L'azienda alla fine fu salva. Non avevo alcuna passione per il mio lavoro, non ne avevo mai avuta, sin da quando scelsi la facoltà a cui iscrivermi. Quell'esperienza mi fece provare il senso della vanità delle cose e non è possibile riprendersi da simili stati d'animo. Nacque il mio primo figlio. Iniziò a cambiare anche il mio rapporto con Clara: sentivo che si era spezzata l'armonia e non capivo il perché. Vivevo solo un'esistenza borghese fatta di interessi intellettuali, alte professionalità, benessere, buongusto, convenzioni, riti, abitudini e rarefatti sentimenti che sbiadivano piano, con garbo. Non so perché, non ricordo quando sia iniziato, ma il suo pensiero diventava ogni giorno più dominante. Pian piano divennero sempre più dolorosi la fine della giornata di lavoro e soprattutto il venerdì sera: i due momenti in cui ci separavamo e la sua vita la portava via chissà dove e da chi. All'inizio pensai che fosse solo uno scherzo della mente: strano, ma effimero. Mi sbagliavo ed ammisi a me stesso che ne ero innamorato. Mi sembrava una follia ed avevo ragione. Come ci si può innamorare improvvisamente di una donna che conosci da anni, non da qualche giorno. Come era possibile che desiderassi stare con lei e non con Clara. Che cosa di lei mi attirava? La sua femminilità sensuale: il modo di muoversi, i suoi atteggiamenti, quella sua voce bassa. Percepivo una fame di vita e di amore senza limiti e, soprattutto nei suoi sguardi obliqui, vedevo una capacità di dare amore senza limiti, senza freni; tale da riempire la vita di un uomo. Sapere di non poter avere tutto questo mi tormenta ancora. Non la meritavo. Forse l'avevo sempre amata, ma la mia vita aveva occultato questo amore al mio cuore distratto. L'amavo con tutto me stesso, ma qualcosa mi frenava. Sentivo che quella storia sarebbe stata terribile e che quella donna avrebbe segnato la mia vita e certo non con un sorriso. Conosci il meccanismo della tragedia: il protagonista è consapevole del suo destino, ma non può sottrarsi ad esso perché è già segnato e non può che compiersi. In questo senso questa storia d'amore è stata una piccola tragedia. Non potevo, non dovevo, ma volevo. Iniziò la lotta tra mente e cuore, tra sentimento e senso del dovere, tra ricerca del proprio destino e convenzioni sociali, affettive e religiose. Il matrimonio, una famiglia, una vita intera da un lato e il buio nascosto da quegli occhi neri dall'altro. Clara la prima delle due sole volte che l'ha incontrata, qualche tempo prima che scoprissi d'amarla, mi disse: "quella donna è innamorata di te". Le risposi che non era il caso di scherzare, ma Clara ribadì la sua opinione e non stava scherzando. Dovevo stare lontano da lei, volevo sfuggire alla ragnatela di quel sentimento che lentamente veniva tessuta intorno alla mia vita. Non potevo evitare di vederla, di parlarle e l'unica strada era diventare antipatico, insopportabile. Ci riuscii. Le cose cambiarono: la sua vita cambiò e non c'era più l'occasione di vedersi frequentemente. Tirai un sospiro di sollievo, pensando che in breve tutto sarebbe finito. Invece il corso degli eventi sarebbe stato ben diverso. Mi mancava insopportabilmente e commisi il primo errore. Prima di partire per le ferie estive le scrissi una lettera e non solo non ebbi il coraggio di parlarle, ma non le consegnai nemmeno la lettera di persona. In quella lettera misi tutto il mio tormento. Le dichiarai il mio amore, ma non le dissi che volevo stare con lei e dividere tutto ciò che la vita ci avrebbe voluto concedere. Mai mi ero comportato così, rinnegai ancora una volta me stesso e l'errore fu irreparabile. Ebbi come risposta solo una lettera al mio ritorno e già mi concesse troppo. Mi disse che non mi amava. Le cose con Clara iniziarono a precipitare in quel cupio dissolvi che è si concluso solo qualche settimana fa. Non stavo più bene con lei. Avevo superato il punto di non ritorno e lei capiva che il mio animo apparteneva ad un'altra donna. Negavo. Quelle vacanze al mare furono un inferno. Il suo gentile rifiuto, tuttavia ebbe l'effetto di placarmi. Non volli insistere, sapevo dentro di me che sarebbe stato tutto inutile e che avrei solo rovinato tutto. Clara era inquieta, si sentiva minacciata e agì di conseguenza. A fine ottobre mi lasciò. Accettò un lavoro in un'altra città e partì con il bambino. Mi salutò dicendomi "ora che sei solo rifletti". Fu una doccia fredda, dovetti accettare la sua decisione e la separazione da lei e dal bambino. Ora che Clara era andata via, avrei potuto correre da lei, cercare il suo amore, ma avevo paura. Lei era distante da me, non mostrava alcun interesse e non mi aiutò a vincere la paura che poi ha finito col distruggere tutto. Rimasi solo e furono giorni di profonda tristezza che riuscivo a malapena a dissimulare con tutti. Lentamente ripresi i contatti con Clara. Fu difficile ma a poco a poco ci ritrovammo. Dopo sei lunghi mesi e tanti viaggi in aereo ritornammo insieme. Passò un anno di serenità, nacque il nostro secondo figlio. Lei era sempre lontana da me. Trovai un precario equilibrio.
Poi iniziò la fine.
Un giorno di fine settembre ci trovammo soli. Lei mi chiese a bruciapelo "cosa pensi di me?". Iniziammo a parlare e più che raccontarcele, ci rovesciammo addosso le nostre vite. Mi disse che aveva alle sue spalle una storia con uomo sposato e che aveva sofferto troppo. Non voleva rivivere un'altra storia simile. La riaccompagnai a casa e andando via sentii tutto il mio amore per lei. Volevo solo renderla felice e vivere per lei. Iniziò un limbo sentimentale bello, ma atroce. Il conflitto interiore divenne insostenibile. Non era semplice uscire dalla mia vita per tentare d'iniziarne una nuova con lei. Le tensioni interiori superarono il limite e si scaricarono su me stesso. Dimagrivo a vista d'occhio. Mi ammalai. Mi accorsi che non riuscivo a leggere bene, non mettevo a fuoco, le lettere sembravano un serpente impazzito e soprattutto una macchia nera sempre più grande iniziava a coprire che ciò che vedevo. All'inizio di novembre mi fu diagnosticata una grave retinopatia. Correvo il rischio di diventare cieco in pochi mesi e l'unica speranza era un intervento con il laser che aveva però una buona probabilità d'insuccesso. Si erano alterati i vasi sanguigni che alimentano la retina ed il processo di degenerazione era veloce. Chiesi al medico quale fosse la causa della mia malattia. Mi rispose che in genere colpisce gli anziani e che in età più giovane può avere origine psicosomatica. Iniziò il solito peregrinare da uno specialista ad un altro. Esami su esami. La sera del 17 novembre ci vedemmo. Lei non sapeva della mia malattia. Volevo tenerla all'oscuro, conoscevo la sua sensibilità ed immaginavo quanto ne avrebbe sofferto. Pensavo che non fosse giusto trasmetterle tutto quel dolore. La volevo per amore e non per la mia malattia.
Quella sera quanto parlammo di noi passeggiando. Lei desiderava andare a cena ed io non potevo. Dovevo seguire una dieta ferrea e certi farmaci che prendevo non potevano essere associati all'alcool. Che razza di cena sarebbe stata. La nostra prima cena a base di verdure a foglia larga e acqua. Lei avrà pensato che non potevo fare tardi perché dovevo tornare a casa da Clara. Io le parlavo del mio amore e lei mi parlava delle sue paure e del suo non voler essere l'altra donna: quella che passa da sola il fine settimana, Natale e Ferragosto. Improvvisamente mi accorsi che stava per piangere, mi abbracciò dicendomi " e dammelo un bacio". Fu un bacio violento, intenso come i nostri cuori tremendi. Non chiedermi cosa è stato quel momento e cosa abbia provato. Sono stato felice e non avevo null'altro da chiedere alla vita. Sentii il suo amore bello e grande e che lei era la donna che volevo. Era lei la donna della mia vita e nulla al di fuori del suo amore aveva senso. Da quel momento la mia vita è scivolata via. Avevo due piccoli problemi da risolvere: dovevo guarire, compito del destino, e dovevo lasciare la mia vita, tutto e tutti, per avere lei, e quello era compito mio.
Non le dissi nulla. Nei giorni successivi fummo un po' più vicini, anche se non lo fui come avrei dovuto, ma non ero sereno. Ci saremmo dovuti vedere qualche giorno dopo il 26 novembre. Non mi importava nulla anche se di sera guidare per me era pericoloso, volevo uscire con lei come una persona normale stare con lei, solo con lei.
Nei giorni precedenti ero stato a Roma da uno dei migliori specialisti d'Italia. Mi chiamarono dalla clinica: avevano stravolto la lista d'attesa visti gli esiti degli esami che avevo fatto. Il 25 novembre ero in clinica a Roma. Mi visitarono tutti: dal primario all'ultimo arrivato degli assistenti. Alla fine mi dissero che l'intervento era improcrastinabile ed era fissato per il giorno dopo. Non avevo bagaglio e non c'era tempo per tornare a casa. Con Clara comprammo un pigiama, spazzolini e dentifricio. Trovammo un albergo per la notte. Ci fu un episodio simpatico, farsa e tragedia non si dividono mai. Quando il portiere dell'albergo ci vide arrivare senza bagagli e chiedere una camera mi fece un sorriso complice e quando mi disse che i documenti della signora non erano necessari, compresi che ci aveva preso per una coppia di amanti. In effetti chi stavo tradendo? Per la legge e la società la tradita era Clara, ma la donna a cui ero legato era lei.
Gli dissi di prendere i documenti di mia moglie e salii in camera. Quando mi resi conto che l'indomani non sarebbe stato possibile andare da lei, la chiamai. Le dissi solo che il giorno dopo non ci saremmo potuti vedere, senza dirle il motivo. Lei pensando che la trattavo come l'altra donna, fu fredda come non mai.
"Perché dovevamo vederci, non mi ricordo".
La telefonata fini lì. Il mattino dopo ci fu l'intervento. Per quasi tutta la giornata dovetti restare al buio in una stanza, non potevo assolutamente vedere la luce. Per precauzione, per impedire che vedessi la luce, mi avevano coperto gli occhi con dei cerotti. Si trattava solo di poche ore e poi li avrei tolti. Per qualche ora Clara dovette guidarmi come un cieco: un cieco a termine. Uscii a sera per tornare a casa. Avrei voluto che lei fosse con me, ma lei non poteva essere lì. Mi avevano detto che l'operazione era riuscita perfettamente e che bisognava avere fiducia ed aspettare.
Nessuno in azienda sapeva e mai ha saputo. Dire che ci sono buone probabilità di diventare un invalido non è positivo ai fini del futuro lavorativo e poi il mio orgoglio non lo consentiva. Ho continuato a lavorare come se niente fosse. Quando la rividi trovai un'altra donna, l'avevo persa irrimediabilmente. Decisi di dirle la verità e l'implorai di vederci quella sera. Accettò. Fu subito chiaro che aveva deciso. Le dissi della mia malattia, rassicurandola che era una cosa grave, ma che sarebbe guarita. Non le dissi dell'operazione e che dovevano passare ancora almeno sette dieci giorni per tirare un sospiro di sollievo. Le ripetei che l'amavo e lei era la sola donna della mia vita. Non le dissi che avevo deciso di lasciare Clara ed i bambini. Non volevo che pensasse che fosse la solita promessa; avrei voluto solo dirle a fatti compiuti: eccomi. Era irremovibile. Le chiesi di guardarmi in faccia e dirmi che non mi amava. Mi guardò dritto negli occhi, aveva lo sguardo velato dalle lacrime e mi disse "no non ti amo". Quando la riaccompagnai a casa, scendendo dall'auto ebbe un attimo d'esitazione si sporse verso di me ed io non la baciai. In quel momento la persi per sempre. La vidi alle mie spalle nello specchietto. Perché non scesi e le corsi dietro? Pensai solo che meritava di meglio di un cialtrone che forse sarebbe diventato cieco e andai via. Passarono giorni amari. Avevamo fugaci incontri, tesi ed amari per entrambi. Non riuscivo a parlarle in quella squallida cornice, ma non c'erano altre occasioni per vederla. Solo quei momenti tristi e precari. Durante uno di quegli incontri le dissi per l'ennesima volta che non potevo vivere senza di lei.
Mi rispose: "Ti rendi conto a quale inferno ti stai condannando?".
Le dissi: "Finirà che non vivrò né con te né con Clara".

III

Oggi posso dire che fui facile profeta. Avevo la mente confusa, gli occhi non sembravano migliorare e vivere senza lei era semplicemente insopportabile. Era il 5 dicembre e lei sarebbe partita per il ponte dell'Immacolata. Non riuscivo più ad andare avanti. Le chiesi di starmi vicino, d'aiutarmi. Quel venerdì sera le tenebre erano seducenti e finii per desiderarle. Non so cosa mi successe. Guidavo in autostrada ed iniziai a sentire una pena immensa che mi toglieva il fiato. Piangevo come un bambino e gridavo il suo nome, solo il suo nome. Mi tremavano convulsamente le braccia e le gambe; non riuscivo a tenere bene il volante. Quei fari, il suono delle trombe e la serie interminabile delle ruote nere di quell'autotreno che mi passava accanto sterzando. Sarebbe bastato un lieve tocco al volante. A fatica raggiunsi un'area di servizio. Ricordo solo che mi svegliai con la testa appoggiata sul volante in un angolo del parcheggio e le auto che sfrecciavano davanti a me nella notte. Non so quanto tempo sono rimasto lì svenuto. Mi ripresi ed avevo da poco ripreso il viaggio quando lei mi inviò un messaggio con il cellulare. Quelle parole le ricordo ancora oggi a memoria: "Dico solo questo ci sono e ti darò forza solo questo. Stai sereno in questi giorni un abbraccio". Solo questo. Avevo di fronte l'inferno, dovevo necessariamente attraversarlo e da solo. Non l'avrei mai avuta, ma l'amavo.
La faccio breve: ho impiegato un anno per realizzare il semplice programma che mi ero prefisso. La sorte ha voluto concedermi la guarigione che mi annunciarono pochi giorni dopo il 10 dicembre. Lasciare Clara e i bambini invece non è stato semplice. Clara decise di farla finita una mattina. Dormivo poco e male in quei giorni. Il sonno era agitato e spesso mi svegliavo verso le quattro, cinque del mattino e non riuscivo più a riaddormentarmi. Quell'alba la pena era insopportabile e cominciai a piangere. Un uomo non piange, non gli è consentito, ma il pianto libera e il tormento era insopportabile. Clara si voltò verso di me, mi abbracciò, mi toccò gli occhi appena umidi e disse solo: "Mi ami ancora?". Non risposi. Mantenne la calma, non gradisce le scenate. Accese la luce sul comodino si mise seduta:
- "Fa quello che credi, ma ricordati che hai due figli".
Da tempo sapeva che era finita. Ha cercato di salvare la nostra vita che forse meritava una sorte migliore. Si è posta un solo obiettivo evitare traumi ai bambini. Purtroppo non siamo riusciti ad evitarlo del tutto. La bambina è piccola e non ne ha risentito, ma il più grande, molto sensibile, ha vissuto male le conseguenze dei nostri contrasti. Il bambino divenne anoressico ed ancora adesso ha dei disturbi dell'alimentazione. Decidemmo di farci aiutare da una psicologa che ci ha accompagnato nel percorso. Dopo i primi due incontri cui partecipammo io, Clara ed il bambino, la psicologa volle incontrarmi da solo. Non impiegò molto a chiarire il quadro della situazione. La causa di tutto ero io ed il mio "stato emotivo disgregato". Solo accettando la mia condizione tutto si sarebbe risolto. Ho provato a farlo, non ci sono riuscito: ha vinto l'amore per lei. La famiglia deve essere il luogo dove tutti i suoi membri si devono realizzare. Se diventa una prigione è la fine di ogni cosa. Ricordo ancora l'espressione del viso della psicologa quando le confessai l'angoscia che provai una sera quando, seduto sulla mia poltrona con tutti e due i mie figli sulle ginocchia che giocavano con me, io desideravo lei, solo lei. Una famiglia non può sopravvivere solo sul senso del dovere, per quanto il mio sia forte. Il mio collocamento all'esterno della famiglia è stato graduale, pianificato ed almeno questo sembra essere riuscito. I bambini sono sereni e la mia lontananza sembra essere sopportata. Con Clara gli accordi sono stati presi in maniera civile, senza drammi. Non riesco ad immaginare il dolore di Clara, ma deve e vuole essere soprattutto madre e ha fatto appello a tutta la sua forza interiore. Anche in questo è stata migliore di me.
Lei non ha mai saputo. Avrei voluto parlarle, ma ogni tentativo fatto è stato vano. Reagivo male, ho mostrato quanto di peggio ci sia in me. Forse era giusto che non sapesse. A settembre dell'anno scorso, ero da poco tornato dalle ferie, forse le ultime passate con Clara ed i bambini. Le chiesi per l'ennesima volta di vederci. Volevo solo un po' di calore umano, sapevo che il suo amore non l'avrei mai avuto, ma cercavo solo un po' di affetto. Aveva altri impegni. Persi la pazienza e le dissi addio con un sms.
Mio padre si ammalò e dovette essere ricoverato in ospedale. In quelle notti di fine estate passate in quel reparto del Policlinico ebbi finalmente l'opportunità di riflettere. Era tutto finito: né con lei né con Clara. Raccolsi i miei pensieri in una delle tante lettere che le ho scritto. Tra l'altro le scrissi " le cose pian piano stanno tornando a posto, ma nulla sarà più come prima". Lei non poteva immaginare cosa significassero in realtà quelle parole. Capì che tornavo da Clara. Mi scrisse l'ultima lettera. A suo modo la più bella lettera d'amore che abbia mai ricevuto.
Ho rivisto tutti i miei errori e le sue ragioni: l'amavo, ma mi vedeva fare un figlio dopo l'altro con Clara; tutte le volte che sono andato via invece di restare con lei; i miei silenzi; le mie parole sbagliate e l'incapacità di capire il suo amore che ho finito per avvilire e distruggere. Dovevo lasciarla in pace. La mia presenza era negativa, le impediva di vivere e di avere ciò che voleva e meritava. In pratica non ho più avuto nessun contatto con lei. Ho chiuso tutto in me. Mi accorsi che se quell'amore fosse rimasto solo dentro di me, sarebbe stato meglio per tutti. Non c'era altro modo per rimediare a i miei colpevoli errori. Nemmeno guardarla da lontano, scambiare qualche banale parola, sfiorarla; questo mi imposi. Né con Clara né con lei. Sono rimasto solo. Desideravo solo che servisse a qualcosa. Anche questa storia mi ha dato qualcosa. Ho capito che l'amore ha una sua misura perfetta ed esatta: ciò cui rinunciamo per la persona amata. Io ho rinunciato a lei per lei, sperando che fosse felice e trovasse l'amore con un altro uomo. Tutto il resto non contava. Sono finalmente uscito dal cerchio dell'io egoistico ed auto referenziale. Sono entrato nello spazio del noi e mi ci sono perso. È stato un lungo inverno, la mia stagione all'inferno. Tu mi hai incontrato lì.
Non è stato inutile, almeno questo. Qualche settimana fa mi ha comunicato che ha trovato l'amore e ne sono rimasto disperatamente felice. Pochi giorni fa ho cercato di fare l'ultimo tentativo per riconciliarci. Avrei voluto solo lasciare alle nostre spalle tutto quel dolore, per avere una libera e solidale amicizia. Mi ha solo detto che vive un momento bellissimo della sua vita e che non vuole più saperne di questa storia e che non sopporta più di essere trattata come un "pupazzo". Tutto si è compiuto. Clara qualche tempo prima mi aveva detto che era il momento che lasciassi casa. Portò fuori i bambini per lasciarmi un pomeriggio a disposizione per fare le valigie. Quando sono uscito l'ho chiamata per dirle cosa dovessi fare con le chiavi.
Mi rispose: "Lasciale nella cassetta delle lettere". Le ho fatte scivolare nella fessura e sono andato via.
- Giulio.
Non disse altro e mi guardava in silenzio.
- Dov'è lei adesso?
- Non lo so. Si trova laddove è giusto che stia: tra le braccia dell'uomo che lei ama e che la ama.
- Vorresti che fossi qui. Tu l'ami ancora, non è vero?
- Questo ormai non ha più alcuna importanza per nessuno se non per me. Tutto deve restare dentro di me e forse mi accompagnerà per sempre. Le sto lontano solo perché devo essere sicuro di non darle altro tormento, di non amareggiare la sua vita che ora vive felicemente ed anche per sopportare, per quanto sia possibile, il mio senso di colpa. Non le rimprovero niente, non ha nessuna colpa e non ho alcun risentimento.
Solo mi ha fatto male dicendomi che per me era solo un "pupazzo". Questo non potrò mai perdonarglielo. Non sono mai riuscito a descrivere esattamente cosa fosse lei per me. È un pensiero, una sensazione che con le parole non sono in grado di esprimere. L'immagine invece riesce a farlo. Verso la fine della sua vita Caravaggio dipinse un'enorme tela "Le sette opere di Misericordia". È una pala d'altare. La scena è divisa in due piani. In basso si vede un vicolo di Napoli, buio, appena rischiarato da fioche luci, affollato da un'umanità dolente. Miserabili, un morto, la grata di un carcere; una folla di disperati che vagano nella vita. In alto uno squarcio di paradiso: la Madonna col Bambino e accanto due angeli. Tutti guardano in basso verso l'inferno, con occhi quasi stupiti. Uno dei due angeli si sporge, si protende verso il basso allungando una mano misericordiosa, ma l'altro lo trattiene e tutto rimane sospeso in un attimo di angoscia senza fine. Cielo e terra non si incontrano, non possono toccarsi. Per me lei è quella creatura che voleva toccare un disperato per portarlo via con il suo amore dalla miseria della vita e che l'ineffabile ha fermato, per sempre, irrimediabilmente. Tutto è perso in suo sospiro mentre mi passa vicino andando oltre senza fermarsi.

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