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Joseph Roth nasce il 2 settembre 1894 in Galizia, la più lontana provincia dell'Impero austro-ungarico, ai suoi estremi confini orientali, a Brody, un villaggio sperduto in mezzo a pianure sterminate, ma centro commerciale di una certa importanza, centro vivace, cosmopolita, crogiuolo di razze e nazionalità molto diverse. Gli piaceva, però, raccontare, di essere nato a Schwabendorf, il paese delle rondini, in Volinia. In quest'angolo di frontiera convivono polacchi orientali, russi ucraini, ebrei, che sono poi la maggioranza, in un clima di gran tolleranza con "una mentalità liscia come l'olio" (*), devote al diritto asburgico, alla sua politica di pace, alla sua mentalità di assenso.
"Il centro si trova in periferia" scriverà Roth, che a quel mondo resterà legato per tutta la vita e lo racconterà continuamente, con gran nostalgia, quel mondo della sua infanzia innocente e autentico, in cui la religiosità è un valore genuino, di contro la modernità dell'ebreo occidentale, che ha perso se stesso nel tentativo di assimilazione che, secondo lui " è una fuga o un tentativo di fuga dalla sventurata comunità dei perseguitati, è un tentativo di trovare un compenso alle contraddizioni che continuano tuttavia ad esistere". Qui trascorre l'infanzia, accanto ad una madre possessiva e a un padre malato di malinconia, che scompare presto dalla sua vita, in modo inspiegabile .
In realtà D.Bronsen, biografo di Roth, scrive che il padre, commerciante di legname e granaglie, in seguito ad un dissesto finanziario, fu colpito da una malattia mentale e si allontanò da casa per non farvi più ritorno. Cresce con la madre, nella casa del nonno materno, ebreo, che gode di una certa agiatezza. Il trauma per la scomparsa del padre è un evento importante nella sua vita; egli si rinchiude in se stesso e cresce solitario, trascorrendo spesso le giornate invernali incollato alla finestra a guardare il mondo di fuori, sognando appassionatamente, immergendosi "così profondamente in un sogno da vivere una seconda, diversa realtà" "la mia infanzia trascorse grigia in città grigie ". Oppure il suo passatempo preferito era di osservare i ragni " i miei animali preferiti... sono... di tutti gli insetti i più intelligenti... se ne stanno qui al centro di una ragnatela che si sono costruiti da sé e si affidano al caso , che provvede a nutrirli... perché solo l'attesa è fruttuosa...", che sarà sempre la sua filosofia di vita .
Compie gli studi liceali e si trasferisce a Vienna, per intraprendere quelli universitari: segue corsi di germanistica, filosofia, psicologia, storia della musica, storia dell'arte, etnologia.
A Vienna " città laboratorio del mondo" come la definì Karl Kraus, la grande Vienna di fine secolo, la "Gioiosa Apocalisse", per dirla con il celebre ossimoro di Broch, vedono la luce le esperienze più innovative e audaci del novecento e Roth entrano in contatto con una cultura affascinante, con un alto contenuto rivoluzionario in antitesi al clima imperante: lucida denuncia del vuoto di valori di una società che sta incamminandosi verso lo sfacelo.
Contro la dolcezza della vita viennese, che ballando andava incontro a tragici eventi, A.Loos crea "La casa senza ciglia": uno scandalo. Freud sconvolge le regole della psiche, O.Wagner usa materiali eccentrici, Schoenberg inventa un nuovo ordine musicale e poi Klimt con le sue donne inquietanti, Egon Schiele, Kokoshka, Hofmannsthal, Schinzler, Mahler, Wittgenstein, Broch, Canetti e tanti altri, tutti " dappertutto si levavano a combattere contro il passato".
Nascono a Vienna i nuovi movimenti politici: l'austro-marxismo, il sionismo, l'antisemitismo. In questo straordinario mondo matura Roth: la sua complessa formazione interiore ed intellettuale traggono da lì nutrimento e si arricchisce. In questi anni si sente socialista, pur apprezzando lo stile aristocratico di questa città. Scoppia la prima guerra mondiale, è costretto ad interrompere gli studi, si arruola volontario. Vienna è in festa, l'entusiasmo è alle stelle, tutti sono certi della vittoria e corrono alla stazione per abbracciare e baciare i volontari. Sarà una catastrofe: Roth, come molti giovani come lui, sarà fatto prigioniero dai russi, subirà l'umiliazione della disfatta, la caduta dell'Impero. Tornato dalla guerra " senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi, senza professione ", evitato da chi lo esalta, si ritrova in una realtà disgregata, inafferrabile, in una situazione disastrosa di generale sbandamento morale e politico, dove per lui e per quelli come lui pare non esserci più posto. Il suo smarrimento è infinito.
Scrittore personalissimo, affascina e trascina, pur se con uno stile scarno, disadorno, ma fortemente lirico:" i suoi libri sono mirabilmente poetici...egli riusciva ad essere poetico nella descrizione precisa, minuziosa e pienamente realistica dei particolari della vita quotidiana."* La letteratura era la sua vita, la sua unica ragione d'essere e vi ci metteva tutto se atesso, amava gli uomini di cui sublimava le storie, mettendoci tutto il suo cuore. "Raccontare, raccontare veramente, non mi è mai accaduto di sentir veramente raccontare" scrive Rilke, ma Joseph Roth
lo sa fare, magico interprete di quella tristissima storia che segue al dopoguerra e che vede tantissimi, troppi reduci, partiti con tanto entusiasmo, per servire il loro Imperatore, riprendere la via di casa con il ricordo delle " zolle crudelmente gelate dei campi"che facevano "dolorare le piante dei piedi". Usciti da un orrore per entrare in un altro, "tutti i reduci che affluivano dalla Russia, dal Siberia, dai paesi ai margini...hanno sulle scarpe, sul viso la polvere di anni di peregrinazioni, portano abiti stracciati e bastoni pesanti consunti, fanno tutti la medesima strada, vanno a piedi, non prendono il treno. Per anni avranno così peregrinato..."
Scrivere per tutti, questo è il suo programma "non ho inventato né composto nulla. Non si tratta, ormai, di poetare, la cosa più importante è ciò che si è osservato". Gli preme spiegare a tutti la condizione umana, le sue debolezze, le sue miserie, gli slanci, gli entusiasmi, la vita con tutte le sue infinite contraddizioni e nello stesso tempo il suo amore per la vita. Senza presunzione cerca di capire, forse per capirsi, così libero da moralismi, da divieti, da falsi pregiudizi, estremamente tollerante nei confronti dei suoi simili, personaggi, come lui, di questa enorme farsa che è l'esistere. Roth vive in prima persona le antinomie di una crisi che coinvolge tutta la sua generazione, anche se è consapevole che alla fine scrivere sia inutile.
"Ma perché pubblica i suoi romanzi? - Devo pur vivere, anche se non servono a niente".
Contemporaneamente continua la sua attività di giornalista in giro per le capitali europee, si trasferisce a Parigi "la capitale del mondo-dove-ogni tassista è più spiritoso dei nostri scrittori". Viaggia moltissimo: è un giornalista richiestissimo, ma afflitto dalla malattia della moglie Friedl, una malattia mentale, che la segnerà per sempre e che procurerà a Roth molti problemi sia economici sia psicologici. Prova un grande senso di colpa e si massacra di lavoro.
Fu sempre attanagliato dai problemi economici, proprio lui che non dava nessuna importanza alle cose, che non possedeva nulla. Forse la moglie avrebbe avuto bisogno di un uomo diverso e "non di un compagno senza patria come me, che non possiede un armadio, un letto, un materasso: solo tre valigie". Ha sempre vissuto, infatti, in alberghi di passaggio, non ha mai avuto una casa sua, l'albergo era per lui " l'unico luogo dove si poteva essere infelici con dignità". La sua casa è l'hotel Foyot, in rue de Tournon; quando nel 1937 viene demolito assiste all'evento seduto al caffè di fronte. Era stato il suo rifugio, ora è ancora più solo e sradicato: "si perde una patria dietro l'altra".
Nel 1926 parte per la Russia e dirà"è una grande fortuna che io abbia fatto questo viaggio in Russia...sono partito bolscevico e sono tornato monarchico". Il deserto che vi trova lo annichilisce, intuisce che il paese sta avviandosi verso il terrore nero della burocrazia, che è un paese condannato alla morte. D'ora in poi si rivolge al passato, ai suoi valori, alle sicurezze del"mondo di ieri", ordinato, lieto. Esule, disperato, si rifugia nel sogno di un ritorno dell'ordine che certo non era più proponibile: il ritorno degli Asburgo. Si avvicina a Otto d'Asburgo. Nello stesso anno scrive "Ebrei erranti"che C.Magris definisce"un grido d'allarme contro l'assimilazione degli ebrei orientali verso l'Occidente e quindi sul punto di perdere la propria identità e di assumere tutti i vizi della borghesia occidentale, in particolare di quella ebraico-orientale".
Nascono due splendidi romanzi: Giobbe e La marcia di Radetzky. Giobbe è una saga ebraico-orientale come "Il peso falso", racconto del 1937, e contiene pagine di grande dolore. Giobbe ha una statura biblica, appartiene alla realtà austro- slava ed è un personaggio emblematico dello shtetl orientale, dove l'ebraismo è vissuto con rigoroso rispetto per la tradizione, ma è un mondo che sta sgretolandosi e nelle crepe si insinua lo smarrimento, il dubbio, la paura soprattutto di altre persecuzioni. Molti cominciano a pensare di lasciare tutto e partire verso occidente, di emigrare, "di abbandonare quel paese dove ogni anno potrebbe scoppiare una guerra e ogni settimana un pogrom", così partono con l'illusione di un mondo migliore "molti emigrano... seguono un impreciso richiamo dell'estero... sono mossi dal desiderio di vedere il mondo e sottrarsi alla presunta angustia della propria patria... molti ritornano indietro... gli ebrei orientali non hanno patria in nessun luogo, ma tombe in ogni cimitero... molti diventano ricchi... molti smarriscono se stessi". Giobbe è un maestro talmudico, è Mendel Singer, un uomo onestissimo, frugale, che invecchia insieme alla moglie, in un villaggio in mezzo alla pianura russa, perseguitato dalla miseria e dalle avversità. Suo malgrado è costretto ad emigrare in America, a partire verso l'ignoto con una grande pena nel cuore, ma anche là dovrà soffrire. Eppure deve rinunciare alla propria identità, perseguitato dal rimpianto per lo shtetl, centro di vita sicuro, la casa. Deve rinunciare ad una vita di abitudini consolidate dal tempo, verso il quale tornerà sempre con la memoria, mai dimentico delle lunghe notti invernali, lunghe e fredde, quando, accanto alla stufa con i suoi amici e parenti era lieto di ascoltare i cantastorie che raccontavano antiche vicende in cambio di qualche bicchiere di tè e di un poco di calore. Questo mondo verrà strappato brutalmente dalla guerra e dai pogroms alle sue consuetudini e sbattuto verso l'ignoto e " da millenni non cessa di fuggire". Questo romanzo è un vero tributo d'amore alla terra natìa, che Roth non ha mai dimenticato e che qui rievoca con toni struggenti: un mondo al confine russo, pieno di fango nei lunghissimi inverni, quando nel cielo volano le oche selvatiche, un mondo semplice, cui si sente di appartenere, autentico con i suoi valori antichi, di decoro, di tenacia e rassegnazione. Un mondo dove contrabbandieri e strani personaggi tessono i loro intrighi a scapito di ebrei che hanno " molto più sangue slavo di quanto si creda." Romanzo intenso, storia di un grande dolore, individuale e collettivo, Giobbe rispecchia l'anima ebraica di Roth, come austriaca è l'anima che ispira il romanzo "La marcia di Radezky" racconto del rimpianto per la " finis Austriae", epopea dell'Impero asburgico e del suo Imperatore. Romanzo complesso, non sempre giustamente valutato, di una forza impressionante, solidamente costruito, l'apice artistico di Roth, senza sbavature o cedimenti sentimentalistici. Alcuni hanno visto nella "Marcia" l'apoteosi di un Impero fatto a brandelli, ma non si tratta di un'apoteosi, è una marcia funebre, è narrata la fine dell'Impero millenario, il tramonto di una società già malata, dove vivacchiano funzionari ottusi, ufficiali abbrutiti, dove allo sfarzo esteriore fa da contrasto la miseria più spaventevole, dove contrabbandieri senza scrupoli si arricchiscono alle spalle degli sprovveduti e sopra tutti c'è l'Imperatore, padre giusto dei suoi sudditi che protegge sotto "il suo occhio di porcellana azzurra", il saggio, sereno, rigido e benpensante imperatore, ma in realtà un vecchio, mediocre, timoroso ormai della verità, accerchiato dalla menzogna, una "personalità difensiva e negativa". Ma durante il suo regno c'era quiete e " poiché la morte dell'Imperatore aveva posto fine allo stesso modo alla mia infanzia e alla patria, compiangevo l'imperatore e la patria come la mia infanzia". C'è l'angoscia di chi si sente tradito nella fede più profonda, nella sicurezza e si trova solo, in un deserto, con le macerie attorno, come chi rimane senza la sua casa, la sua famiglia, buona o cattiva che sia, comunque un porto nel mare magnum della vita. Sta diventando anarchico.
Non è questo romanzo, come poi la "Cripta dei cappuccini" una nostalgica voglia di restaurazione asburgica, ma una nostalgica rievocazione di un tempo che, nonostante le sue discrepanze, era pur sempre meglio del presente. Gli Asburgo erano meglio di Hitler e non perché Roth avesse un preciso programma politico, ma sull'onda dei ricordi, delle atmosfere, del passato fiabesco della giovinezza, che riporta nel sottile incanto dell'evocazione di quel che non c'è più e perché "è uno scrittore di stati d'animo..." la sua evoluzione di scrittore e di uomo è aperta ai mutamenti delle vicende, non pertinace in una scelta irrevocabile, è un divenire, un adattarsi agli eventi. Purtroppo gli eventi sono molto drammatici e Roth trova rifugio nel passato, in un ultimo, disperato tentativo di mettere ordine nella sua vita, ma la sua fibra già compromessa dall'alcool, non sopporta il febbrile lavoro cui è sottoposta e "brutto, ubriacone, intelligente" si mette a nudo, un uomo ormai finito, totalmente disincantato "troppe le delusioni politiche... lo avevano usurato, distrutto" (*)
Erano gli anni dell'orrore, gli hitleriani bruciavano i libri e a Parigi, dove si era rifugiato, decisero di demolire l'albergo in cui abitava, lo trova, seduto al caffè di fronte, Eherenburg " aveva una bruttissima cera, si sentiva che continuava a vivere per forza d'inerzia...la cravatta a farfalla era annodata con massima cura, gli tremavano le mani... mi disse: " ormai vi invidio tutti. Perlomeno sapete quello che dovete fare. Io, invece, non so più niente. Troppo sangue, troppa vigliaccheria, troppi tradimenti..." "Vi furono tempi in cui l'alcool creò intorno a lui come una paratìa dietro la quale poteva isolarsi e trovare il coraggio di resistere ancora e resistere per lui significava continuare a scrivere, non come mezzo di fuga, non come forma di ebbrezza, ma piuttosto come una puntuale testimonianza di resistenza umana in mezzo a una realtà di sangue", così Morgenstern interpreta l'opera di Roth e il suo bisogno di fuggire, di viaggiare instancabilmente. "Fu sempre un profugo - dice ancora - per volontaria decisione... Roth si sentiva spinto a viaggiare perché il Qualche luogo, anzi il Nessun luogo gli era più gradito del suolo natìo... eppure da sempre soffriva, come di un male acuto, per la mancanza di una patria... viaggiare era il suo secondo modo di inebriarsi". Vittima dei suoi fantasmi - "soffro terribilmente" - scriveva ad un amico, pur vivendo in condizioni economiche disperate, si prodiga per aiutare i profughi a fuggire da Vienna, dopo l'occupazione delle truppe naziste. La notizia del suicidio del suo amico Toller a New York lo annichilisce, ha un collasso. Il 27 maggio muore per una crisi di cirrosi epatica: gli è vicina J.Kenn, la sua ultima compagna.
Muore povero " la sua morte era stata un'autodistruzione lenta... sottile... per la mancanza di futuro... il presente si era fatto così invadente che neppure il poeta di leggende Josef Roth era più riuscito ad incapsularsi nelle parole" (*)
Ci rimane il suo testamento letterario: La leggenda del Santo Bevitore pubblicato postumo, in cui la fine di Andreas, un alcolizzato, ci ricorda quella di Roth, che ci dice: "conceda, conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così facile, così bella". |
(*) NOTE
R.Musil: L'uomo senza qualità
R.Musil: ibidem
C.Magris: Lontano da dove
C.Magris: Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna
J.Ehrenburg: Uomini, anni di vita
J.Ehrenburg: ibidem
A.J.P.Taylor: La monarchia asburgica
C.Magris: Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna
L.Marcuse: Il mio novecento
J.Ehrenburg: ibidem
L.Marcuse: ibidem...
Tutte le altre citazioni derivano da "OPERE" di J.ROTH ed. Bompiani: volume 1 1916-1930 e volume 2 1931-1939
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